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Full text of "Gli ideali di un economista"

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LUIGI EINAUDI 



nato a Carrù (Cuneo) il 24 Marzo 1874. 



Senatore del Regno, Professore di scienza delle finanze 

nella Università di torino e nella Università Bocconi di Milano 

Condirettore della RIFORMA SOCIALE. 



PUBBLICAZIONI PRINCIPALI. 

Un principe mercante, Torino, Bocca, 1900. 

Corso di scienza delle finanze, Torino, presso l'au- 
tore, 1914. 

Il problema delle abitazioni, Milano, Treves, 1920. 

// problema della finanza post-bellica, Milano, Treves, 
1921. 

Prediche, Bari, Laterza, 1921. 



QUADERNI DELLA VOCE 

RACCOLTI DA GIUSEPPE PREZZOLIMI 



LUIGI EINAUDI 



GLI IDEALI 
DI UN ECONOMISTA 




PUBBLICAZIONE DELLA SOC. AN. ED. " LA VOCE ,, 
QUADERNO 50-51, SERIE QUARTA-FIRENZE 1921 



PROPRIETÀ RISERVATA 



MB 

177 
Ess~ 



DI QUESTO LIBRO SONO STATE STAMPATE 25 COPIE 

NUMERATE SU CARTA A MANO CHE SI VENDONO A 

LIRE TRENTASEI CIASCUNA 




INDICE 

Avvertenza Pag. 7 

I. — Scienza e scuola. 

Salvatore Cognetti de Martiis » n 

La crisi scolastica e la superstizione degli orari lunghi . » 23 
Scuola educativa scuola caleidoscopio? (A proposito del 

disegno di legge Credaro) . » 33 

II. — Politica, Impero Britannico 
e Società delle Nazioni. 

Ostruzionismo, chiusura, ghigliottina e canguro. ...» 45 

Il valore italiano del trattato di Losanna » 57 

L'abolizione delle capitolazioni in Turchia » 69 

Decadenza inglese? *....» 77 

Le due vie dell' imperialismo » 83 

Che cosa è l' Impero Britannico » 91 

Apologia di Wilson » 113 

Democrazia, collettivismo e guerra » 123 

Gli ideali dell' incapacità » 135 

Germanofìli ed anglofili » 145 

La teoria inglese dell'equilibrio europeo » 155 

L' idea dello Stato come forza » 163 

Le cause dello scisma e le tendenze verso una intesa dei 

popoli di lingua inglese . . » 171 

Il ritorno della « Fior di maggio » » 179 



11 problema finanziario della Società delle Nazioni . . . Pag. 187 

Federazione europea Società delle Nazioni? .... » 195 

Il governo delle « cose » » 205 

La Società delle Nazioni e il governo delle cose ... » 219 

Popoli dominatori e popoli oppressi » 229 

Come si giunse al trattato di Versailles » 239 

III. — La guerra italiana. 

L'educazione politica del Conte di Cavour » 253 

La conquista dei confini naturali dalla parte d'occidente 

ed i suoi insegnamenti » 265 

Per le porte d'Italia. Soldati piemontesi! Soldati italiani! » 275 

Che cosa significa la lotta sul Trentino » 281 

Achille Necco » 291 

Cesare Jarach .*.... » 303 

Ammonimenti » 309 

I disfattisti della vittoria » 323 

Contro la svalutazione della vittoria » 331 

Verso la città divina. » 341 

IV. — Regole di galateo. 

Torniamo al « signor !» » 349 



— 7 



AVVERTENZA. 



Questa è una raccolta di articoli d' indole non strettamente 
economica, di quegli scritti al margine della scienza in particolar 
modo coltivata, che ognuno di noi di tanto in tanto sente il biso- 
gno di mandare per il mondo, quasi a testimoniare che non ci 
sentiamo soltanto economisti o geologi o chimici, ma viviamo an- 
che la vita di tutti, e specialmente quella della nostra nazione. 

La raccolta non è compiuta, per non crescere inutilmente la 
mole del volume; ma è forse bastevole ad indicare quali siano i 
miei ideali — il titolo del volume non è di mia fattura, ma fu 
trovato dall'amico Prezzolini ~- quali siano, io direi più sempli- 
cemente, le mie fissazioni : la scuola educativa, V Inghilterra, la 
formazione dell'Italia attraverso alla storia piemontese, la neces- 
sità di governi supernazionali limitati per ora a quelle che si dicono 
" cose ,,. Si discorre anche della guerra e vorrei sperare con atteg- 
giamento logico rispetto alle predilezioni di prima, con rispetto 
verso i nemici e con sguardo intento alle tradizioni della storia 
paesana. 

Torino, fine del 1920. 

LUIGI EINAUDI. 



I. 

SCIENZA E SCUOLA 



SALVATORE COGNETTI DE MARTIIS 

Salvatore Cognetti De Martiis era nato a Bari il 19 
gennaio 1844. Dopo aver compiuto gli studi universi- 
tari a Pisa dal 1861 al 1866 ed aver ivi ottenuta la lau- 
rea in giurisprudenza fu coi volontari garibaldini nel 
Tirolo nel 1866. E combattè virilmente per la causa 
dell' indipendenza nazionale a Monte Suello ed a Con- 
dino. 

Dopo, la scienza e l'insegnamento lo attrassero, né 
mai più li abbandonò. Nel 1867, a 23 anni, fu nomi- 
nato direttore delle scuole municipali di Bari e nell'anno 
seguente professore di economia politica nell'Istituto 
tecnico che allora si era fondato nella sua città nativa. 
Nel 1868 fu chiamato ad insegnare Economia politica 
nell'Istituto tecnico provinciale di Mantova, dove ri- 
mase sino al 1876. A Mantova sposò la signora che fu 
l'angelo consolatore della sua vita e diresse la quoti- 
diana Gazzetta di Mantova, nella quale difese le 
dottrine politiche conservatrici con grande calore d'a- 
nimo e con bella temperanza di forma. Dalla direzione 
della Gazzetta di Mantova passò alla redazione della 
parte economica nella Perseveranza, nell'epoca in cui 
il vecchio giornale moderato lombardo raccoglieva in- 
tomo a se il fiore degli ingegni di parte sua. Ma nel 
frattempo, essendosi rese vacanti le cattedre di Econo- 
mia politica nelle Università di Siena e di Torino, il 



12 



Cognetti le vinse entrambe in pubblico concorsa. La 
sua scelta fu per Torino, dove rimase, prima in qualità 
di professore straordinario e poi di ordinario, dal 1° gen- 
naio del 1878 e dove gli fu conferito altresì l'insegna- 
mento dell'Economia e Legislazione industriale nel Mu- 
seo Industriale. 

Ed a Torino fondava nel novembre 1893 quel Labo- 
ratorio di Economia politica che fu la cura precipua 
degli ultimi anni della sua vita e che egli ebbe la sod- 
disfazione suprema di vedere riconosciuto con decreto 
reale come Istituto universitario pochi mesi prima della 
sua morte. La quale sopravvenne improvvisa dopo una 
crudele malattia che lo avea a lungo travagliato crudel- 
mente durante il 1900 e dopo parecchi- mesi di conva- 
lescenza, che gli amici ed i discepoli speravano fosse 
davvero ristoratrice, passati a Roma nell'inverno de- 
corso. Alla fine di Aprile, impaziente di rivedere la 
scuola ed il Laboratorio che egli tanto amava, ritornò 
a Torino, dove tenne la sua prelezione, parlando della 
Idea economica nel Gioberti; ed i colleghi ed i disce- 
poli, che erano accorsi numerosi a salutare il ritomo 
del professore amato, si lusingarono che per lunghi 
anni ancora Salvatore Cognetti De Martiis potesse im- 
partire dalla cattedra il consueto insegnamento. Fu 
breve speranza; pochi giorni dopo egli era ripreso dal 
male, solo apparentemente vinto; e dopo una opera- 
zione virilmente sopportata, dovette soccombere 1*8 
Giugno. 

Salvatore Cognetti De Martiis accanto a molte pub- 
blicazioni di indole svariata, le quali attestano la sua 
costante ed indefessa operosità, lascia alcune opere 
principali che sono lo specchio esatto del suo pensiero 



— 13 — 

scientifico. Voglio accennare alle Forme primitive 
nella evoluzione economica, al Socialismo antico, ed 
alle Prefazioni alla quarta serie della « Biblioteca del- 
l'Economista ». 

Nelle Forme primitive egli volle studiare i primi 
inizi della vita economica nelle società primitive sel- 
vagge e barbare; ed anzi, spingendosi più in là ancora, 
volle rintracciare nella vita delle piante e degli animali 
quei fenomeni a cui poteva attribuirsi un movente di 
procacciamento economico. Fu un tentativo che for- 
mò oggetto di critiche e di lodi vivaci e su cui forse 
non è giunto ancora il momento di dare un giudizio 
definitivo. È certo però che l'A. portò nella sua ricerca 
quello spirito di viva ed attenta osservazione e di acuta 
comparazione dei fatti osservati, che furono le carat- 
teristiche più notevoli del suo ingegno. 

Nel Socialismo antico (1889) egli parve abbandonare 
per un momento il metodo biologico e sociologico delle 
Forme primitive per addentrarsi nello studio di taluni 
fatti interessanti e quasi ignoti del mondo antico. An- 
cora oggi dopo gli studi poderosi di altri indagatori, 
quel volume insigne rimane l'unico nel quale sia con- 
tenuto uno studio completo delle idee e degli speri- 
menti socialisti nell'antichità. Perchè il Cognetti non si 
limitò alla Grecia ed a Roma, ma, aiutato dalla sua 
singolare cultura linguistica e filologica, seppe trarre 
dalle leggende e dai libri sacri della Persia, dell'India 
e della Cina materiali preziosi per gittare una luce vi- 
vissima sulla storia del socialismo presso quei popoli. 

La storia del socialismo lo attrasse un'altra volta 
quando egli, alcuni anni dopo (1891), pubblicò, a guisa 
di prefazione al volume di George « Progresso e Po- 



14 



verta », un lungo studio su « lì socialismo negli Stati 
Uniti a 1 ' America ». Anche in questo volume rifulgono 
le sue doti di osservatore accurato ed acuto e la sua 
attitudine a collocare le idee in giusto risalto nell'am- 
biente storico in cui esse erano nate. 

L'ultima opera di lunga lena, a cui il Cognetti pose 
mano nell'ultimo decennio di sua vita, fu la direzione 
della quarta serie della Biblioteca dell'Economista. 
Egli volle attuare in questa serie il suo concetto di una 
scienza economica basata sulla osservazione dei fatti 
ed atta a servire di utile guida agli studiosi, agli uomini 
di stato, ad industriali e commercianti nello studio delle 
più urgenti questioni del giorno. Come già nella se- 
conda serie il Ferrara avea raccolta una. serie imponente 
di monografìe speciali intese a svolgere partitamente 
le applicazioni della scienza esposta nei suoi principii 
dalla prima serie, così il Cognetti volle nella quarta 
serie raccogliere numerose monografìe sulle questioni 
commerciali, doganali, operaie, monetarie, bancarie, 
sui rapporti tra capitale e lavoro, sulle crisi ecc., che 
valessero a dare un idea dei problemi principali della 
vita economica contemporanea. Ed arricchì i volumi 
da lui pubblicati con una introduzione generale su Le 
variazioni nella vita economica e nella coltura econo- 
mica e con prefazioni speciali su / due sistemi della 
politica commerciale, la Struttura e vita del Commercio 
e la Mano adopera del sistema economica, di cui l'ul- 
tima rimase incompiuta. Voleva altresì por mano ad un 
Dizionario di Economia Politica che sarebbe stata im- 
presa utilissima ed originale per l'Italia. La morte pre- 
matura non glie lo consentì; ma è fortuna che la con- 
valescenza gli abbia permesso di porre termine ad un 



— 15 — 

altra sua opera che è bella testimonianza della sua 
singolare e multiforme attività mentale : la traduzione 
in versi martelliani di tutte le venti commedie di Plauto. 
Perchè Salvatore Cognetti De Martiis amava allietare 
le lunghe serate invernali con lo studio amoroso dei 
poeti latini. Dalla lettura di Plauto egli trasse argomento 
ad uno studio sulle Banche, i banchieri e gli usurai nelle 
Commedie di Plauto, che fu pubblicato in questo gior- 
nale nel 1891-92; e di tutte le commedie plautine ci 
lascia una traduzione elegante ed adorna di numerose 
note filologiche sul testo, che sarebbe a desiderarsi po- 
tesse venire pubblicata a giovamento degli studiosi. 

Ma l'opera principale dell'ultimo decennio di vita 
di Salvatore Cognetti De Martiis e quella per cui noi, 
che fummo suoi discepoli all'università e suoi compagni 
di lavoro in seguito, ebbimo campo ad ammirare mag- 
giormente la sua grandissima bontà d'animo, il suo 
entusiasmo per le cose nobili e belle, il suo amore 
impareggiabile per i giovani, fu il Laboratorio di Eco- 
nomia politica. 

Io ricordo ancora, come se fosse oggi, quella gior- 
nata del novembre 1893 in cui il Professore racco- 
gli e vai intorno a se una decina di giovani, — alcuni 
laureati e la più parte studenti del 3. e del 4. anno 
del corso di leggi, — in due modeste stanzette dell'an- 
tico Laboratorio di Patologia del professore Bizzozzero. 
In quelle due stanze vi erano un tavolo e poche sedie 
date in prestito dal Rettore, uno scaffale a vetri regalato 
dal Prof. Cora ed un mucchio di libri e di statistiche 
che il Professore avea portato da casa sua a costituire 
il primo nucleo della Biblioteca del Laboratorio. Il 
Professore Cognetti ci spiegò quali fossero gli intenti 



16 



del nuovo istituto, lesse un abbozzo di statuto e ci co- 
municò come egli avesse ottenuto, a titolo di incorag- 
giamento, qualche piccola somma da alcuni soci pa- 
troni e non ricordo più se cento e duecento lire di 
sussidio annuo dal Consorzio Universitario. 

La situazione non era brillante; ma la costante 
fiducia nell'avvenire dimostrata dal Professore alimen- 
tava l'ardore degli allievi. In quel primo inverno, sic- 
come i quattrini mancavano, quando veniva il crepu- 
scolo tutti eravamo costretti a sloggiare, e spesso per 
difetto di combustibile non ci era permesso di tenere 
accesa l'unica stufa che riscaldava le due stanze; di 
guisa che alla mancanza di luce si aggiungeva non di 
rado la mancanza di una temperatura » sufficiente. 

I primi anni passarono così attraverso a difficoltà 
gravissime che avrebbero fiaccata qualunque volontà 
meno energica e meno risoluta di quella del Cognetti. 
L'Istituto Giuridico avea bensì concesso in prestito pa- 
recchie riviste e pubblicazioni periodiche attinenti alla 
scienza economica; ma d'altra parte non giungevano 
aiuti. Il professore avea bensì messo a contribuzione 
tutti gli amici suoi, concedendo loro in cambio dei 
sussidi ricevuti la qualità di soci patroni del Labora- 
torio; ma questa fonte di entrate minacciava di inari- 
dire, malgrado che egli fosse instancabile nel chiedere. 
Il Ministero dell' Istruzione pubblica, a cui si era chiesto 
un sussidio, rispondeva brutalmente che non poteva 
dar nulla perchè si trattava di una istituzione inutile. 
Nel frattempo gli oneri andavano continuamente 
crescendo. Le due stanze erano cresciute a tre, poi a 
quattro e finalmente a sei, oltre ad una grande aula per 
le lezioni. Le pubblicazioni ufficiali, italiane e sitar 



!7 



mere, chieste ed ottenute in dono con una corrispon- 
denza attivissima crescevano senza tregua e richiede- 
vano sempre nuovi scaffali; gli allievi aumentavano di 
numero perchè agli antichi fedeli si aggiungevano 
sempre nuovi studenti che nel materiale di studio rac- 
colti nel Laboratorio trovavano i mezzi per scrivere le 
tesi di laurea con agevolezze altrove non raggiungibili. 
Agli studenti dell'Università si aggiungevano quelli del 
Museo industriale, ai quali venivano affidate special- 
mente le illustrazioni grafiche delle statistiche più sva- 
riate, di cui alcune ottennero meritato premio alla 
esposizione di Torino del 1898. 

Il professore Cognetti, instancabile, chiedeva sem- 
pre, ed alle ripulse rispondeva con nuove richieste. Un 
pò per volta il successo arrise alla pertinace iniziativa. 
11 Consorzio universitario crebbe il suo sussidio da 200 
a 500 lire, la Camera di Commercio diede prima 200 
e poi 500 lire all'anno. Il Ministero dell'Istruzione, die- 
tro proposta del compianto rettore Nani, concesse 
altresì un sussidio annuo di lire 500 e si assunse l'onere 
dello stipendio da assegnarsi ad un custode, divenuto 
oramai necessario a mantenere in ordine una così ricca 
suppellettile scientifica. Il Ministero dell' Agricoltura, 
Industria e Commercio, incoraggiato dall'on. Frola, 
presidente del Museo industriale e benemerito estima- 
tore di tutte le iniziative feconde, diede pure esso 500 
lire e si assunse il pagamento dello stipendio ad un 
assistente. Cosicché negli ultimissimi anni il Laboratorio 
di Economia Politica aveva ottenuto uno stabile assetto, 
confermato finalmente dal decreto reale che nell'anno 
corrente lo riconosceva ufficialmente come istituto 



3 - 



scientifico universitario annesso contemporaneamente 
all'Università ed al Museo Industriale di Torino. 

Un augurio ci sia permesso di fare ed è che l'istituto 
fondato dal Cognetti sia mantenuto non solo, ma fatto 
prosperare da chi terrà la cattedra economica nell'A- 
teneo torinese. Esso può dare in futuro risultati scien- 
tifici più larghi ancora che del passato, perchè non 
sarà più necessario quel dispendio di energie e di 
tempo, che il suo fondatore dovette impiegare per 
sostenerlo e dargli incremento, durante la lunga serie 
degli anni in cui ogni giorno sembrava imminente la 
rovina a tutti fuorché a lui, che conservava sempre 
intatta la fede nel. trionfo finale della istituzione da lui 
tanto amata. 

Egli la seppe fare amare anche dagli altri, dai com- 
pagni di lavoro (come amava chiamarli) che ebbe 
numerosi durante l'ultimo decennio; e vi riuscì perchè 
il Laboratorio non era ne una biblioteca ne una setta. 
Non era una biblioteca perchè i libri erano accessibili 
a tutti ed a renderli ancora più utili giovava la cortesia 
del direttore, sempre pronto a fornire indicazioni pre 
ziose sui modi di trovare ciò che da mani spesso ine- 
sperte si sarebbe cercato invano. Non era una setta, 
perchè il direttore non imponeva le sue idee a nessuno, 
lasciando liberi tutti di abbracciare le dottrine che a 
ciascuno più talentavano. 

lo ricordo le adunanze domenicali, in cui si legge- 
vano e si discutevano i lavori compiuti nel Laboratorio. 
Vi intervenivano giovani, di cui tutti nutrivano, con 
maggiore o minore ardore, una qualche fede scientifica 
o pratica. 

Erano liberisti che sarebbero stati seccati ove si 



— 19 — 

fosse imposto un credo protezionista, che pur da altri 
era difeso; erano socialisti democratici i quali deside- 
ravano liberamente esporre i loro concetti; erano dei 
socialisti cattolici, che si sarebbero sentiti a disagio in 
un ambiente ostile. Eppure tutti convivevano e discu- 
tevano fraternamente sotto la guida del direttore, il 
quale astringeva i frequentatori del Laboratorio a due 
soli obblighi : usare cortesia di forma nel dibattito ed 
esporre argomentazioni serie, tratte da uno studio accu- 
rato del problema discusso. Egli poi riassumeva la di- 
scussione in fine con una imparzialità, che poteva sem- 
brare indifferenza da presidente di corte d'Assise, ed 
era invece dettata dall'amore alla istituzione sua. Di 
tale carattere di neutralità del Laboratorio egli ave a 
voluto rendere testimonianza palese, facendo dipingere 
nelle lunette delle varie sale i ritratti di Aristotile, Vico, 
Adamo Smith, Marx, Schultz e Delitsch, Mons. Ket- 
teler, Cobden, Hamilton, Cavour ecc. ossia di uomini 
appartenenti alle più varie gradazioni del pensiero 
scientifico. 

Forse da alcuni si potrà criticare codesta imparzia- 
lità verso le scuole più opposte per il motivo che lo 
scienziato deve insegnare la verità, che è una sola, e 
combattere l'errore. Il che è vero nei libri e nella cat- 
tedra, dove chi scrive o parla ha il dovere di esporre 
e difendere con convinzione le idee da lui ritenute 
giuste. Ma sarebbe stato pericoloso per la vita di un 
istituto come il Laboratorio, il quale deve fornire i ma- 
teriali di studio a persone, molte delle quali hanno già, 
a torto od a ragione, un proprio modo di vedere che 
può essere diverso da quello degli altri e del direttore 
medesimo. Se il Cognetti avesse voluto far trionfare, 



— 20 — 

ad esempio, il suo metodo biologico o sociologico nello 
studio della scienza economica, forse il suo istituto 
sarebbe stato disertato da quelli che in quelle applica- 
zioni della biologia e della sociologia non credevano. 
È in grazia del suo singolare desiderio di arrecare 
giovamento a tutti anche a quelli di cui non divideva 
il pensiero, che, come egli era grandemente rispettato 
dagli avversarii della politica conservatrice da lui ga- 
gliardamente difesa sulla Gazzetta di Mantova, così 
ora lo segue nella tomba il memore e riconoscente 
affetto di coloro che lo videro, nel Laboratorio di Eco- 
nomia politica, largo di sussidii scientifici, e di aiuto 
affettuoso nei primi ardui passi delle carriere scienti- 
fiche e liberali a tutti i suoi allievi, senza distinzione 
alcuna di convinzioni politiche e scientifiche. 

(Torino, 30 giugno 1901, Estratto dal Giornale 
degli Economisti, Luglio 1901). 



BIBLIOGRAFIA (1) 

Delle attinenze fra l'economìa sociale e la storia. (Firenze, 1865). 

La scienza economica nella educazione civile. (Bari, 1867). 

L'economia pubblica è l'istruzione popolare. (Bari, 1R68V 

Gli studi economici in Italia. (Bari, 1869). 

L'economia sociale e la famiglia. (Milano, i86q). 

Conferenza sul lavoro, sul risparmio e sulla previdenza. (Man- 
tova. 16 giugno 1870). 

Abramo Lincoln. (Mantova, 1871). 

L'operaio ai tempi di Dante ed ai tempi nostri, discorso. (Man- 
tova, 30 luglio 1871). 

Vi è una questione sociale? (Mantova, 1872). 

\ fatti della rivoluzione napoletana del 1820. (Mantova. 1872V 



(1) La presente bibliografia fu compilata dall'ing. E. Magrini, 
assistente del Laboratorio di Economia Politica di Torino. 



— 21 



il riordinamento della circolazione cartacea durante il corso for- 
zoso, lettere al conte G. Arrivabene. (Mantova, 1873). 

Una teorica economica della espropriazione forzata, lettera al 
prof. A. Errerà. (Mantova, 1874). 

La circolazione della ricchezza negli Stati Uniti. (Torino, 1874). 
Biblioteca dell' Economista, serie IV. 

Economisti italiani contemporanei, Giovanni Arrivabene, Gior- 
nale degli Economisti, luglio e agosto 1875 (Padova). 

Bibliografia su « The Money Problem » by Amasa Walker (Inter- 
national publication Office, New- York, 1875), Giornale degli Econo-, 
misti, luglio 1875. 

Economisti italiani contemporanei, Enrico Cernuschi, Giornale 
degli Economisti, luglio e agosto 1876 (Padovaj. 

Gli Stati Uniti d'America nel 1876, giornale La Perseveranza, 
(Milano, 1877). 

La rinnovazione dei trattati di commercio — La questione mot 
netaria. — Studi. (Mantova, 1877). 

Forme e leggi delle perturbazioni economiche, Giornale degli 
Economisti. (Padova, marzo 1878). 

Il nuovo patto dell'unione monetaria latina. (Torino, 1879). 

Le forme primitive nella evoluzione economica. (Torino, 1881) 

Commemorazione del conte G. Arrivabene tenuta il 15 gennaio 
1882 all'Accademia Virgiliana — Atti e memorie della R. Accade? 
mia Virgiliana. (Mantova, 1882). 

Commemorazione di Giovanni Lanza. (Torino, 1882). 

Commemorazione di Vittorio Emanuele 11. (Torino, 1883). 

L'Esposizione di Zurigo — Nuova Antologia. (Roma, 1883). 

Cenno storico sull'industria italiana, Enciclopedia delle arti e 
industrie. (Torino, 1875). 

L'economia come scienza autonoma, Giornale degli Economisti, 
1886, pag. 166. (Torino, 1886). 

Un'apologia socialistica del libero scambio, Rivista scientifico^ 
letteraria di Milano. (Milano, 1887). 

Il carattere della scienza economica secondo il sig. Macleod, 
Giornale degli Economisti, 1887, pag. 122 (LJologna). 

I prigionieri di guerra (Captivi) di M. Plauto, traduzione in 
versi martelliani. (Trani, 1881). 

II fondamento storico di una leggenda italica, Memorie della 
R. Accademia delle Scienze, serie II, tomo XXXVIII. (Torino, 1888). 

Un socialista cinese del V secolo av. C. (Mih-Teih), Memorie 
della R. Accademia dei Lincei, voi. Ili, parte i a . (Roma, 1888). 

La politica economica italiana a proposito di una recente pub- 
blicazione, Nuova Antologia. (Roma, 16 marzo 1888). 



— 22 



L'istituto Pitagorico, Memòrie della R, Accademia delle Scienze, 
tomo XXIV. (Torino, 1889). 

Socialismo antico, indagini. (Torino, Bocca, 1800). 

Il militare fanfarone di Plauto, versione metrica. (Torino, 1890). 

Tito Maccio Plauto, commedie, versione metrica con prefazione 
di G. Carducci, voi. I. (Torino, 1891). 

Il socialismo negli Stati Uniti d'America, studio, Biblioteca 
dell'Economista, serie III, voi. IX. (Torino, 1891). 

Banche, banchieri ed usurai nelle commedie di Plauto, Giornale 
degli Economisti, ottobre 1881, pag. 287-309 e dicembre 1892, pa- 
gina .^39-574- 

Il sistema di mercede a scala mobile nella inchiesta inglese sul 
lavoro, Atti della R. Accademia delle Scienze. (Torino, dicembre 1802V 

Tracce probabili d'una leggenda Indo-Europea nel « Rudens » di 
Plauto, Atti della R. Accademia delle Scienze, voi. XXVTTT, 11 di- 
cembre 1892. 

Le più recenti indagini statistiche negli scioperi, Memorie della 
R. Accademia delle Scienze. (Torino, maggio e giugno 1893, serie 
III, voi. XLIV). 

Francesco Ferrara all'Università di Torino, Giornale degli Eco- 
nomisti. (Bologna, dicembre 18Q3, pag. 521). 

La Gomena, «Rudens», di Tito Maccio Plauto, versione me- 
trica. (Torino, 1894. 

Le variazioni nella vita economica e nella coltura economica, 
introduzione generale alla quarta serie della Biblioteca dell'Econo- 
mista. (Torino, 1894). 

Una obbligazione bancaria per la IV Crociata, Atti della R. Ac- 
cademia delle Scienze, voi. XXX. (Torino, 1895). 

Relazione sulla memoria del dott. Pasquale Tannacone « La re- 
centi-- inchiesta inglese sul lavoro», Atti della R. Accademia delle 
Scienze di Torino, voi. XXX, 24 febbraio 1895. 

I due sistemi della politica commerciale, parte 2 a , Biblioteca 
dell'Economista, serie IV, voi. T. (Torino, 1896). 

Commemorazione pei caduti d'Africa. (Torino, 1896). 

I due sistemi della politica commerciale, parte i a e 3 a , Biblio- 
teca dell'Economista, serie IV, voi. I, parte 2 a . (Torino, 1895). 

Prefazione all'opera di Livio Cibrario « Il sentimento della vita 
economica nella Divina Commedia». (Torino, 1898). 

Domenico Berti, Annuario del R. Museo Industriale Italiano. 
(Torino, 1897). 

Struttura e vita del commercio, Biblioteca dell'Economista, se- 
rie IV. volume II, parte i a . (Torino, 1898). 

La mano d'opera nel sistema economico (incompleto), Biblioteca 
dell'Economista, serie IV, voi. V, parte 2 a . (Torino, 1899). 



LA CRISI SCOLASTICA 
E LA SUPERSTIZIONE DEGLI ORARI LUNGHI 

Nelle discussioni che sul problema dell'insegna- 
mento e dei professori secondarli si stanno facendo in 
giornali e in congressi non ho veduto abbastanza trat- 
tato un punto che mi sembra capitalissimo e che po- 
trebbe illuminare assai la soluzione da darsi al proble- 
ma. Debbo premettere che, sebbene l'argomentazione 
possa avere un certo sapore professionale, sebbene cioè 
possa credersi che chi scrive non si sia saputo sottrarre 
alle sue abitudini mentali di studioso di scienze econo- 
miche, in realtà è l'esperienza viva della scuola che 
mi fa credere di essere nel vero. Ho insegnato per pa- 
recchi anni nelle scuole secondane; e ritengo che l'in- 
segnamento ai giovani di meno di 17-18 anni sia non 
meno utile agli insegnanti che agli studenti; io almeno, 
vi ho imparato parecchie cose, che in seguito mi sono 
state giovevoli. 

Fra l'altro mi sono convinto che nelle scuole secon- 
darie si fa un abuso enorme di orario. Certamente è 
opportuno che i giovani siano legati ad una disciplina 
oraria maggiore che nelle scuole superiori, non essendo 
ancora sufficientemente maturo il loro giudizio ed es- 
sendo le loro volontà facili ad essere sviate dalle male 
compagnie, dal piacere dell'aria libera e delle belle 
passeggiate nei giorni di sole; ma da questa constata- 



i-\ 



zione agli orarli asfissianti delle nostre scuole secondarie 
ci corre. Tre ore nei ginnasi e nelle scuole tecniche, 
quattro ore nei licei e negli istituti dovrebbero essere il 
massimo dell'orario giornaliero per tutt'al più cinque 
giorni della settimana; il giovedì dovrebbe essere libero 
de! tutto o al più occupato al mattino; e in questo caso 
dovrebbero aversi almeno due pomeriggi liberi. Una 
delle maggiori e più pestifere superstizioni delle scuole 
italiane è la lunghezza dell'orario. Più gli scolari sono 
costretti a rimanere nelle aule scolastiche e meno pro- 
fittano. Chi non sa che, al mattino, la terza ora di inse- 
gnamento è inservibile? che l'insegnante vede occhi 
stanchi, gambe e braccia irrequiete, disattenzione ge- 
nerale? Peggio nelle ore pomeridiane. Vi sono degli 
Istituti tecnici dove, in certe classi, si va dalle due alle 
cinque e magari alle sei, attraverso un caleidoscopio 
di insegnanti, i quali si succedono dinanzi ad una sco- 
laresca sempre più disattenta ed irrequieta. La scuola 
educativa, sana, fortificante dovrebbe tenersi solo al 
mattino; tre ore con qualche intervallo di riposo; nel 
qua! caso anche la terza ora potrebbe essere profitte- 
vole. Il pomeriggio dovrebbe essere dedicato dai gio- 
vani ai compiti, allo studio indipendente, in parte agli 
esercizi fisici ed alle passeggiate. 

Dicono i fautori degli orari lunghi : i giovani, se non 
si fanno studiare in classe, non fanno niente. Falsissima 
asserzione per i giovani valenti e studiosi, a cui viene 
imposta una tortura inutile; e falsa eziandio per i me- 
diocri e gli infingardi, la cui occupazione nella scuola 
non è di studiare ma di ingannare il tempo rimanendo 
passivi ascoltatori di cose a cui non si interessano. Se 
l'orario lungo riuscisse a far lavorare i mediocri cella 



— 25 — 

testa, potrebbe ancora essere spiegato; ma poiché esso 
serve solo a farli star tranquilli col corpo ed a lavorare, 
forse, materialmente, colla mano intenta a scrivere, la 
sua efficacia educativa è nulla. 

Aggiungono ancora : con gli orari brevi, con tre o 
quattro ore al giorno di lezione come si possono esau- 
rire i programmi? Altra superstizione quella dei pro- 
grammi; e forse più pestifera di quella degli orari 
lunghi. Il a programma » è figlio di una concezione 
profondamente sbagliata di ciò che debba essere la 
scuola media. Purtroppo è la concezione dominante 
nella massa dei genitori, i quali si illudono stravagan- 
temente in tal modo di giovare ai loro figli. Credono 
infatti i genitori che la scuola media debba insegnare 
delle cose praticamente utili ai loro figli, che dalla 
scuola i loro figli debbano uscire atti ad esercitare una 
professione, un'arte, un negozio, un mestiere. Questa 
sciagurata persuasione dei genitori è la causa per cui 
1 ragazzi non imparano nulla e per cui la scuola si riduce 
ad una fabbrica di diplomi senza valore intrinseco. Se 
la scuola infatti deve servire a qualcosa di utile perchè 
non insegna ai giovani tutto lo scibile umano? perchè 
oltre alFitaliano, alla storia, al latino, alle matematiche, 
alla fisica, alla chimica, alla storia naturale non si 
aggiungono due o tre lingue viventi, il disegno, l'eco- 
nomia, il diritto, il far di conti, la ragioneria; perchè 
non si abolisce la filosofia che non serve a nulla, il 
greco, che nessuno impara? Perchè, sovra tutto, i pro- 
grammi di ognuna delle materie non si stendono a mano 
a mano, in guisa da abbracciare la massima quantità 
di nozioni utili? Se è utile conoscere i primi principii, 
è anche utile conoscere le applicazioni; anzi, quante 



26 



più se ne conoscono, tanto più si sarà agguerriti per la 
lotta per la vita. Messici su questa via, dobbiamo per- 
correrla fino in fondo. Ogni professore diventa il rap- 
presentante ed il difensore di una disciplina, che egli 
vorrebbe tutta insegnare ai suoi giovani, disciplina di 
cui l'utilità è incontestabile, del cui insegnamento 
monco si deplorano gli inconvenienti nella pratica, nei 
concorsi alle carriere. Ognuno opina che il proprio ora- 
rio è insufficiente; che le tre ore settimanali dedicate 
ad una materia non bastano, ma sono necessarie le 
quattro, le cinque, magari le dieci. 

Come non vedere che tutto ciò è grottesco? Che in 
tal modo si falsa compiutamente il carattere della 
scuola? La quale non deve essere un luogo dove si 
vanno ad apprendere delle nozioni. Per ciò bastano 
i libri per i giovani valenti, le enciclopedie per i fretto- 
losi, i ripetitori per gli infingardi. Non c'è nessuna ne- 
cessità che lo Stato spenda diecine di milioni per sti- 
pendiare migliaia di professori, allo scopo di ottenere 
ciò che meglio si otterrebbe mettendo un fonografo in 
ogni classe con un bidello per imporre silenzio. Ne si 
creda che, con fonografi o con professori, la scuola 
possa riuscire ad insegnare ai giovani la professione 
od il mestiere a cui aspirano. La scuola non è fatta per 
ciò. In nessun paese del mondo e in nessuna epoca gli 
uomini hanno imparato nelle scuole medie il modo di 
far denari, di esercitare un'arte od una professione. I 
genitori che pretendono ciò, vogliono l'assurdo. Le 
professioni si imparano esercitandole. Non c'è altra 
via. Il compito della scuola è tutto diverso : formare 
l'intelletto ed il carattere del giovane, in guisa che 
possa orizzontarsi in seguito nella vita ed affrontare e 



— 11 — 

superare le difficoltà che gli si pareranno incontro. Per 
ciò gli si insegnano, ad esempio, le matematiche; non 
perchè sappia risolvere quei problemi matematici che 
nella vita sua di commerciante, banchiere, agente di 
cambio, industriale, impiegato, ingegnere, geometra, 
agrimensore gli capiterà di dovere esaminare. A ciò 
gli basteranno i prontuarii, le formole fatte, che gli 
saranno assai più comode delle regole teoriche. Tutta- 
via le matematiche gli sono utilissime a scuola, perchè 
servono a farlo ragionare, perchè costringono la sua 
mente a fare un certo lavorio di paragone, di analisi, 
a vedere la correlazione tra quantità e concetti diversi. 
Così dicasi del latino, così di qualunque altra scienza, 
anche l'economia, che negli Istituti tecnici si insegna. 
ìì Satino non viene insegnato perchè si impari a parlare 
o scrivere una lingua morta; cosa che sarebbe perfet- 
tamente inutile. Ma si insegna per abituare l'intelletto 
a ben pensare, a costruire logicamente un periodo. È 
un esercizio logico anche l'economia. Se si volessero 
insegnare quelle nozioni economiche che i genitori 
possono immaginare siano « utili » non basterebbero 
tre anni e 10 ore la settimana; e sarebbe fatica sprecata; 
perchè non v'è necessità di imparare a memoria tutti 
gli istituti ed i fatti economici, bastando, all'uopo, 
sapere che ci sono dizionari e trattati e riviste dove 
quelle nozioni sono scritte. L'insegnante deve insegnare 
a ragionare, a vedere dentro ai fatti economici la par- 
venza esterna e la realtà vera, deve far vedere come 
nove su dieci dei ragionamenti economici correnti nei 
giornali, nei discorsi famigliari, nei comizi, nei parla- 
menti sono dei sofismi, deve addestrare là mente a 
scoprire la verità tra mezzo ai molti errori. Formare la 



16 



mente ed anche il carattere del giovane; ecco lo scopo 
della scuola media. A raggiungere il quale non sono ne- 
cessarii ne i lunghi orari i, ne le prediche interminabili» 
né i programmi minutissimi. Tanto meglio anzi se il 
programma si limiterà alla semplice indicazione della 
materia da insegnare. L'insegnante valoroso sarà più 
libero nel dare ai giovani le nozioni che egli riterrà più 
atte ad interessarlo, a risvegliare ed esercitare la sua 
intelligenza, a renderla capace di risolvere problemi e 
superare difficoltà. 

Che ha da far tutto ciò con le questioni proprie dei 
professori? Molto più che non sembri a primo aspetto. 

Perchè invero c'è crisi nell'insegnamento seconda- 
rio? Perchè i professori sono mal pagati e non se ne 
trovano più abbastanza e solo gli scarti della gioventù 
universitaria, si dedicano ad una professione così mal 
remunerata. E sono mal pagati, perchè, essendo mol- 
tissimi e crescendone sempre il fabbisogno, la spesa 
totale aumenta benché gli stipendi unitari siano bassi. 
Facendo un esempio schematico, dato che in un paese 
ci siano 100.000 studenti divisi in 2500 classi, a 40 per 
classe, numero eccessivo didatticamente, ma che tal- 
volta viene superato, due vie si possono tenere : o il 
sistema degli orarii lunghi, delle molte materie e dei 
programmi particolareggiati; od il sistema degli orarii 
brevi, delle poche discipline e dei programmi ridotti 
al titolo della materia. L'uno può dirsi il metodo della 
forma, l'altro della sostanza, il primo della esteriorità 
infeconda, del funzionarismo, il secondo della scuola 
viva ed educatrice. Io dico che il secondo sistema con- 
sente assai meglio di risolvere il problema dei profes- 
sovi. Supponiamo infatti che lo Stato non possa impo- 



— 29 — 

stare in bilancio più di 10 milioni di lire per la scuola 
media, di cui si tratta. È possibile spenderle in due 
maniere, che si potrebbero ridurre in cifre come segue : 

Orari lunghi Orari brevi 

Numero studenti 100.000 100.000 

Studenti per classe 40 40 

Numero delle classi 2.500 2.500 

Numero medio delle ore settima- 
nali di lezione per ogni classe 26 16 
Numero totale delle ore settimanali 

di lezione per tutte le classi . 65.000 40.000 
Numero medio delle ore settima- 
nali dì lezione per ogni pro- 
fessore 20 16 

Numero dei professori necessari . 3-250 2.500 

Stipendio medio L. 3-076 4.000 
Soesa totale per lo Stato L. 10.000.000 10.000.000 

Naturalmente questo è un puro schema grezzo, che 
nella realtà dovrebbe adattarsi alle infinite esigenze 
della scuola; ma giova a mettere in chiaro come, con 
la stessa spesa, sia possibile : 1) pagare 1000 lire circa 
di più di stipendio ali* anno ad ogni professore e quindi 
farli star più contenti; 2) diminuire il numero delle loro 
ore settimanali di lezione da 20 a 16; 3) ridurre il fabbi- 
sogno di professori da 3250 a 2500, rendendone più 
facile e nello stesso tempo più rigoroso il reclutamento; 
4) diminuire da 26 a 16 le ore di insegnamento settima- 
nale per gli studenti. 

Sui vantaggi del quale ultimo risultato ho già detto 
abbastanza; ma son vantaggi che crescono a mille doppi 
quando alla diminuzione degli orarii per gli studenti si 
accompagni la diminuzione delle ore di lezione per i 
professori. Questi sono diventati, cogli stipendi bassi 



— 30 — 

e colla necessità di guadagnar da vivere, delle mac- 
chine per vender fiato. Da ventanni a questa parte le 
ore di fiato messe sul mercato dai professori secondarli 
sono andate spaventosamente aumentando. Specie 
nelle grandi città, dalle 10 a 12 ore settimanali, che 
erano i massimi di un tempo, si è giunti, a furia di orari 
normali prolungati e di classi aggiunte, alle 15, alle 20, 
alle 25 e anche alle 30 e più ore per settimana. Tutto 
ciò può sembrare ragionevole solo ai burocrati che 
passano 7 od 8 ore del giorno all'ufficio, seduti ad emar- 
ginare pratiche. A costoro può sembrare che i professori 
con le loro 20-30 ore di lezione per settimana e colle 
vacanze, lunghe e brevi, siano dei perditempo. Chi 
guarda invece alla realtà dei risultati intellettuali e mo- 
rali della scuola deve riconoscere che nessuna jattura 
può essere più grande di questa. La merce « fiato » 
perde in qualità tutto ciò che guadagna ini quantità. Chi 
ha vissuto nella scuola sa che non si può vendere im- 
punemente fiato per 20 ore alla settimana, tanto meno 
per 30 ore. La scuola, a volerla fare sul serio, con in- 
tenti educativi, logora. Appena si supera un certo se- 
gno, è inevitabile che l'insegnante cerchi di perdere il 
tempo, pur di far passare le ore. Buona parte dell'ora- 
rio viene perduto in minuti di attesa e di uscita, in ap- 
pelli, in interrogazioni stracche, in compiti da farsi in 
scuola, ecc., ecc. Nasce una complicità dolorosa ma 
fatale tra insegnanti e scolari a far passare il tempo, 
pur di far l'orario prescritto dai regolamenti e di esau- 
rire quelle cose senza senso che sono i programmi. La 
scuola diventa un locale, dove sta seduto un uomo in- 
caricato di tenere a bada per tante ore al giorno i ra- 



— 31 — 

gazzi dai IO ai 18 anni di età ed un ufficio il quale ri- 
lascia alla fine del corso dei diplomi stampati. Scolari 
svogliati, genitori irritati di dover pagare le tasse, in- 
segnanti malcontenti; ecco il quadro della scuola se- 
condaria d'oggi in Italia. Non dico che la colpa di tutto 
ciò siano gli orari lunghi; ma certo gli orari lunghi sono 
l'esponente e nello stesso tempo un'aggravante di tutta 
una falsa concezione della missione della scuola media 

(Dal Corriere della Sera, 21 aprile 1913). 



SCUOLA EDUCATIVA 
O SCUOLA CALEIDOSCOPIO? 

(A proposito del disegno di legge Credaro) 

Chi legge la relazione che Fon. Credaro ha premesso 
'.segno di legge da lui proposto per le scuole medie 
deve riconoscere che egli — oltre essere mosso dal ge- 
neroso proposito di elevare le sorti materiali e morali 
degli insegnanti — ha visto nitidamente la ragione fon- 
damentale dei mali che affliggono oggi l'istruzione se- 
condaria. A più riprese sono messi a contrapposto il 
ginnasio, la ottima fra le scuole italiane, come quella 
in cui v'è unità di indirizzo, con un professore unico che 
accompagna i ragazzi attraverso le prime tre classi, li 
segue nel loro sviluppo intellettuale e morale, e li con- 
segna al professore delle due ultime classi, il quale ne 
prosegue l'opera, in cui gli scolari sentono di avere 
sopra di se un educatore, sussidiato da taluni insegnanti 
di materie speciali come la matematica, la storia natu- 
rale, il francese e non una variopinta teoria di profes- 
sori di cose diverse, succ edentisi ad intervalli di ore a 
cacciare nella testa degli ascoltanti le nozioni prescritte 
dai programma — e gli altri istituti, dai licei agli isti- 
ed alle scuole tecniche, « vere caserme », come ef- 
: emente osserva Fon. Credaro, « attraverso le quali 
un * enorme e confusa massa di scolari passa ogni anno 



— 34 — 

davanti a trenta, a quaranta, a cinquanta ed anche più 
insegnanti, avendo quasi appena il tempo di farsi ri- 
conoscere, quasi mai quello di farsi ricordare e di ri- 
cordare; scuole, cui di necessità viene a mancare lo 
strumento più efficace per una vera educazione morale 
ed intellettuale, il contatto, cioè, continuo e personale 
fra maestro ed alunno nell'atto in cui l'anima ed il pen- 
siero si formano; scuole che si reggono piuttosto colla 
disciplina esteriore che con quella derivata da un'azione 
educatrice diretta di chi insegna su chi impara ». 

Le quali ottime osservazioni mettono in chiaro la 
differenza profonda fra ciò che dovrebbe essere la scuo- 
la educatrice, come è in parte ancora il ginnasio, e 
la scuola-caleidoscopio, come sono i licei e sovratutto 
le scuole tecniche e gli istituti tecnici. 

Nella scuola vera i giovani dovrebbero essere edu- 
cati da un professore che si potrebbe chiamare « forma- 
tivo », simile a quello che nel ginnasio è il professore 
unico di italiano, latino, e storia e geografia, con cui 
dovrebbero acquistare dimestichezza morale ed intel- 
lettuale, ed il quale dovrebbe imparare a conoscere in- 
timamente ognuno dei suoi scolari accompagnandoli 
per tutto un periodo del corso dei loro studi, ginnasio 
inferiore, superiore, scuola tecnica, istituto tecnico in- 
feriore, superiore. In queste scuole gli scolari dovreb- 
bero essere pochi, non più di venti; e gli orari dovreb- 
bero esser brevi, non più di 12-15 ore la settimana pel 
professore « formativo » della classe; con l'aggiunta, al 
più, di 6-3 ore per gli insegnamenti particolari che il 
professore « letterario » non può impartire; e che è op- 
portuno siano forniti da insegnanti specializzati.. Natu- 
ralmente il tipo della scuola con insegnante unico do- 



— 35 — 

vrebbe essere strettamente attuato nel ginnasio e nella 
scuola tecnica, mentre per le scuole superiori sembra 
opportuno far luogo ad una maggiore specializzazione 
di insegnamenti, a mano a mano che il ragazzo si muta 
in giovane e diviene meglio capace di lavorare da se 
colla mente, che fu già addestrata nelle scuole infe- 
riori. 

Il progetto Credaro tende ad attuare questo concetto 
della scuola che il proponente in passato ha difeso ed 
oggi ancora difende ed esalta? È ragionevole il dubbio. 
La scuola resterà, così come è, un caleidoscopio e v*è 
gran pericolo che il male ognor più si aggravi per virtù 
delle norme che il disegno di legge vuole attuare. 

Infatti : 

— nessun rimedio è portato alla lunghezza eccessiva 
degli orari, che vanno da 21 a 25 ore settimanali nei 
ginnasi, da 24 a 25 nel liceo, da 24 1/2 a 31 per le scuole 
tecniche, da 29 a 31 nella sezione fisico-matematica de- 
gli istituti tecnici, da 31 a 33 nelle sezioni di agrimen- 
sura e di ragioneria, da 25 a 30 per la sezione di agro- 
nomia. Sono orari incredibili, asfissianti, che non par- 
rebbero veri, se non ne facessero fede le tabelle an- 
nesse ai regolamenti. Come è possibile che la scuola 
dia qualche frutto, quando per 5-6 e talvolta 7 ore al 
giorno gli studenti si vedono passare dinnanzi agli oc- 
chi, uno dopo l'altro, tre o quattro o forse più profes- 
sori diversi, ognuno dei quali frettolosamente vende 
una fetta di scienza, che non ha nulla a che fare con 
la fetta che fu distribuita l'ora precedente, che forse 
contraddice a ciò che fu detto prima? Dannoso nelle 
scuole medie superiori, infecondo nelle università, il 
metodo di propinare nozioni disparate ad ore è sopra 



36 



tutto contrario ad ogni sana norma educativa per i ra- 
gazzi di 11-13 anni delle scuole tecniche ed è forse il 
motivo principale per cui queste scuole, affollatissime, 
perchè rispondenti ad un vero bisogno della borghesia 
minuta e delle classi operaie, danno frutti di tanto in- 
feriori ai ginnasi. 

L'orario lungo ed il caleidoscopio dei professori con- 
vertono la scuola in una caserma, come ben dice il mi- 
nistro, il cui unico scopo è quello di tener fermi per un 
certo numero di ore al giorno i ragazzi, irrequieti, e di 
rilasciare alla fine dell'anno un diploma, il quale non 
giova neppure più a persuadere il pubblico che il di- 
plomato abbia a scuola imparato qualcosa. 

— al malanno degli orari lunghi obbligatori per gli 
scolari, che il disegno di legge non toglie, questo ag- 
giunge il malanno degli orari lunghi obbligatori per i 
professori. È certo che la grande maggioranza dei pro- 
fessori oggi invocava e desiderava gli orari lunghi e, 
quando poteva, giungeva alle 24 ed anche alle 28 ore 
settimanali : ed è certo che oggi infierisce, male ancor 
più deleterio, l'uso delle ripetizioni, poco decoroso per 
gli insegnanti e la cui utilità per gli studenti dipende 
soltanto dal fatto che, con scolaresche di 40 alunni, 
l'insegnante non può interessarsi di ognuno dei giovani, 
studiarne singolarmente la capacità intellettuale, aiutare 
in special modo i volonterosi ma timidi o lenti ad ap- 
prendere e stimolare gli infingardi. Gli orari lunghi, le 
scolaresche numerose ed il caleidoscopio degli inse- 
gnanti sono le cause per cui la più gran parte degli 
scolari trae scarso profitto dalla scuola e sono le cause 
per cui gli orari diventano ancor più lunghi, per scolari 
ed insegnanti, con le ripetizioni fornite a casa. 



— 37 — 

Il rimedio, oltre quelli già indicati, ed oltre all'au- 
mento degli stipendi, a cui il ministro ha provveduto in 
misura che sembra decorosa, dato il livello medio della 
ricchezza italiana, doveva consistere nella proibizione 
ai professori di impartire più di un massimo di ore di 
lezione. A me sembra che 18 ore di lezione alla set- 
timana sia il massimo che possa fare un insegnante, il 
quale voglia far scuola sul serio, e quindi prepararsi 
alla lezione e correggere i compiti coscienziosamente ed 
attendere ai gabinetti di fìsica o chimica; il quale, sopra 
tutto, voglia studiare. Se il legislatore voleva davvero 
provvedere al bene della scuola doveva aumentare gli 
stipendi, come fece; ma insieme vietare in modo asso- 
luto agli insegnanti di far lezione oltre le 18 ore setti- 
manali in istituti sì pubblici che privati; non solo, ma 
doveva proibire assolutamente di dare ripetizioni pri- 
vate a scolari proprii od altrui. Meglio costringere al- 
l'ozio assoluto l'insegnante protervo nel non voler pren- 
dere un libro in mano, che costringerlo o permettergli 
di sfibrarsi in un lavoro di vociferazione, che può essere 
giudicato leggero solo da chi non ha l'abitudine dell'in- 
segnamento. Aggiungo anzi*che la legge avrebbe do- 
vuto contenere sanzioni severe per quegli insegnanti 
che violassero il divieto di dar lezioni o ripetizioni 
oltre le 18 ore settimanali. Meg?'~ l'ozio, meglio l'e- 
sercizio di una professione accessoria, che un lavoro, 
il quale talvolta sminuisce nella estimazione degli sco- 
lari e delle famiglie, e che, nell'ipotesi migliore, pro- 
duce scadimento nella qualità delle lezioni componenti 
l'orario normale. 

Il disegno di legge dell'on. Credaro va contro a que- 
sti postulati da lui medesimo ancor oggi propugnati ed 



36 



alle esigenze della scuola educativa, quando, invece di 
vietare il prolungamento dell'orario e di porre un ter- 
mine al danno delle ripetizioni private, di queste non 
parla, e rende obbligatorio il prolungamento dell'orario 
in tutti i casi fino alle 18, 21 e 24 ore ed, a volontà del 
ministero, anche fino alle 24 e 25 ore. Esiger© un mi- 
nimo di lavoro in relazione agli stipendi cresciuti, è 
cosa ragionevole; ma sembra dannoso rendere obbliga- 
torio un prolungamento, finora volontario, i cui risul- 
tati tutti riconoscevano dannosi alla scuola. Adesso vi 
era nelle scuole secondarie ancor taluno il quale rinun- 
ciava alle ore aggiunte pur di aver tempo libero allo 
studio ed al cosidetto ozio intellettuale, fecondissima 
tra tutte le maniere di ozio. V'era ancora qualche spi- 
rito bizzarro che rinunciava alle 150 lire all'ora pur di 
aver l'orario breve ed essere in grado di fare bene le 
12 o le 13 ore settimanali. Domani non più: tutti siano 
obbligati a far ciò che oggi molti purtroppo facevano 
per arrotondare lo stipendio : trascorrere in classe 24 
ore settimanali, col minimo sforzo possibile. 

Per arrivare alle 24 o 28 ore volontarie i professori 
delle grandi città usano oggi insistere per avere ore ag- 
giunte nello stesso istituto od in istituti diversi, dando 
così origine al guaio delle classi aggiunte, a ragione 
deplorate dal ministro con parole vivaci, come quelle 
che accrescono i cattivi effetti del caleidoscopio, distri- 
buendo gli insegnamenti a fette, tra gli insegnanti spinti 
dal bisognò economico a completare l'orario massimo 
consentito dalla legge con ore spicciole fornite a due 
o tre classi di istituti diversi. Domani, quello che oggi 
è un malanno particolare delle grandi città, diverrà una 
sciagura obbligatoria anche per i piccoli centri. Il prò- 



— 39 — 

fessore che nel liceo ha possibilità di fare solo 12 o 
13 ore della sua disciplina, dovrà andare a completare 
l'orario fino alle 18 ore e potrà essere obbligato a giun- 
gere fino alle 24 ore con spezzati d'orario nel ginnasio 
o nella scuola tecnica. Il professore di filosofia, a cui 
non basteranno le 6 ore del liceo, dovrà andar pere- 
grinando per ginnasi, scuole tecniche, istituti tecnici, 
insegnando qua 4 ore di storia, là 5 ore d'italiano, al- 
trove 8 ore di latino. E ciò sarà possibilissimo; poiché 
il disegno di legge autorizza a sopprimere posti d'orga- 
nico quando ciò sia utile al completamento d'orario dei 
professori che hanno sovrabbondanza d'ore. La bella 
unità didattica del ginnasio, tanto e così giustamente 
lodata dall' on. Credaro, correrà pericolo di naufragare; 
poiché il professore di l a ginnasio che ha 16 ore d'orario 
proprio, potrà essere costretto a completare le 24 as- 
sumendo metà delle 16 ore della 2 a classe; e le 8 re- 
sidue saranno date al professore di liceo in cerca di 
completamento d'orario. La confusione odierna cre- 
scerà : alcuni sballottati tra brani e residui di profes- 
sori ad orario incompleto; professori in corsa perpetua 
tra una classe ed un'altra, tra un istituto ed un altro, 
con tutta la giornata occupata dalle ore di lezione e 
dagli intervalli inutilizzabili tra una lezione e l'altra. 

Sento la replica che alle querimonie sovra elencate 
viene spontanea sulle labbra del lettore : la vostra scuo- 
la educativa, con orari brevi, con classi di 20 alunni, 
con professori a cui è fatto divieto di dar lezioni oltre 
le !8 ore settimanali ed a cui sono comminate pene di- 
sciplinari gravissime, se osano dare una ripetizione in 
casa, sia pure a scolari altrui od a scolari di nessuno, 
questa scuola ideale è una scuola cara. Chi ne pagherà 
le spese? 



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Se anche l'obbiezione fosse vera, io dico che sarebbe 
enore imporre alle 175 mila famiglie italiane, i cjj figli 
frequentano le scuole medie, un aumento di tasse di 
circa 8 milioni di lire all'anno per fornir loro una scuola 
meno efficace dell'attuale. L'unica ragion d'essere del- 
l' aumento delle tasse è il proposito di fornire ai giovani 
ed alle loro famiglie una scuola migliore. E tale non 
è quella che si allontana dal tipo della scuola educa- 
tiva ed accentua ognora più i caratteri della scuola-ca- 
serma, della scuola-caleidoscopio. 

Io nego che la scuola educativa costi molto di più 
della scuola-caserma. Le classi di 20 alunni richiedono 
orari assai più brevi delle classi di 40 alunni. Se due 
ore di vociferazione concitata da parte di. un insegnante 
di passaggio non sono sufficienti a far capire un teore- 
ma ad una folla di 40, basta un'ora di dimostrazione 
tranquilla per renderlo comprensibile a 20 alunni, i 
quali da tempo abbiano acquistata dimestichezza col 
modo di pensare e di discorrere dell'insegnante. Dun- 
que la scuola educativa consente gli orari brevi, e gli 
orari brevi, favorendo un notevole risparmio di inse- 
gnanti, permettono all'erario di pagarli meglio, senza 
onere eccessivo dei contribuenti. Tutto si concatena 
nella riforma della scuola. Perchè non scegliere il me- 
todo di spendere poco ed utilmente piuttostochè quello 
di spendere molto e senza vantaggio? 

Se anche calcoli esatti dimostrassero che la scuola 
educativa costa di più della scuola-caleidoscopio, chi ci 
dice che all'uopo non possano bastare gli 8 milioni, i 
quali saranno forniti dalle cresciute tasse scolasticke? 
È vero che al disegno di legge Credaro non è unito 
alcun piano finanziario degli effetti della proposta ri- 
forma. Noi non sappiamo quanto frutteranno in più le 



— 41 — 

nuove tasse, quale sarà il risparmio dell'erario per il 
prolungamento d'orario imposto ai professori e compre- 
so nello stipendio cresciuto e quale l'onere dello Stato 
per l'aumento degli stipendi ai professori. Analisi som- 
marie compiute dal prof. Medici nell'Unità, e dal pro- 
fessore Contessa nella Riforma Sociale concluderebbero 
che l'erario dello Stato verrebbe dalla proposta rifor- 
ma a lucrare netti da 3 a 4 milioni di lire ali* anno. Se 
questi calcoli sono esatti — ed il metodo con cui furono 
condotti e la serietà degli indagatori me li fanno rite- 
nere tali — ci troviamo di fronte ad un fatto che ri- 
chiede un profondo esame da parte del ministro e del 
Parlamento. 

Io credo esatta la teoria del Credaro che, in buona 
finanza, il maggior costo delle scuole debba essere pa- 
gato con un aumento di tasse sui frequentatori delle 
scuole stesse. È una distinzione elementare della scien- 
za delle finanze quella fra tasse ed imposte; chiaman- 
dosi tasse quelle che sono volontariamente pagate da 
certe persone (per esempio alunni), per ottenere un ser- 
vizio di vantaggio particolare per essi (per esempio 
istruzione secondaria); ed imposte quelle che sono ob- 
bligatoriamente pagate da tutti i cittadini per provve- 
dere ai servizi generali che tornano di vantaggio, in 
modo indivisibile, a tutti i membri della collettività (per 
esempio imposte sui redditi o sui consumi per provve- 
dere ai servizi generali della difesa, giustizia, sicurezza, 
ecc.). Sarebbe scorretto che il miglioramento di un ser- 
vizio come quello scolastico, il quale torna di vantaggio 
a determinate persone, non fosse pagato con le tasse 
di coloro che volontariamente si iscrivono alle scuole, 
ma con le imposte di coloro che per obbligo di legge 
sono privati di parte del loro reddito o vedono crescere 



— 42 — 

il costo dei loro consumi per far fronte alle spese gene- 
rali ed indivisibili dello Stato. 

Perciò io credo corretto l'aumento delle tasse sco- 
lastiche. Ma se è vero che l'aumento delle tasse non 
va tutto a favore della scuola, ma lascia parecchi mi- 
lioni di utile all'erario, verrebbero per un altro verso 
ad essere violati i sani principi finanziari. Gli scolari 
pagherebbero invero tasse esuberanti ai fini della scuo- 
la; le quali, col loro sopravanzo, verrebbero ad alleg- 
gerire il peso dei contribuenti per i servizi generali. Le 
spese della guerra, della marina, della giustizia, del de- 
bito pubblico, dei servizi civili devono essere soppor- 
tate da tutti i contribuenti; e non v'è alcuna ragione 
per cui i padri di famiglia, oltre a contribuire, come 
tutti gli altri contribuenti, con le imposte, a tali spese, 
siano chiamati a dare inoltre un contributo speciale sot- 
to colore di tasse scolastiche. I vecchi trattatisti usa- 
vano chiamare « odiosa » ogni imposta gravante su una 
particolare classe di contribuenti ad esclusione degli al- 
tri, che pure traggono beneficio della spesa. Si provve- 
da dunque ad allestire un piano finanziario preciso e 
rigoroso della proposta riforma delle scuole medie; e, 
se si constati che il piano lascia un margine a favore 
dell* erario, lo si faccia scomparire, o diminuendo i pro- 
posti aumenti di tasse, ovvero, ciò che sarebbe prefe- 
ribile, avviando la scuola verso il tipo della scuola edu- 
cativa. I padri di famiglia italiani saranno ben lieti di 
pagare le tasse cresciute, quando si darà loro affida- 
mento che la scuola si avvia ad essere non più luogo 
di mortificazione e di corsa al diploma bensì fonte di 
letizia e di sapere. 

(Dal Corriere della Sera, 18 maggio 913) 



II. 



POLITICA, IMPERO BRITANNICO 
E SOCIETÀ DELLE NAZIONI 



OSTRUZIONISMO, CHIUSURA, 
GHIGLIOTTINA E CANGURO 

L ostruzionismo delio scorso giugno ha lasciato uno 
strascico di malcontento tra le file della maggioranza 
e un vago desiderio di modificare il regolamento della 
Camera, onde le minoranze non possano trarne pro- 
fitto per impedire il funzionamento degli istituti parla- 
mentari. Essendo perciò ridivenuti interessanti i metodi 
antiostruzionistici, sarebbe stato strano che non si ricor- 
dassero quelli grazie ai quali non si sente più parlare 
di resistenza defatigatoria dell'opposizione nella Camera 
dei Comuni inglese. 

I! primo di questi metodi, introdotto nel 1887, e co- 
nosciuto, con modalità varie, anche in altri paesi, è il 
diritto del gabinetto, quale rappresentante della mag- 
gioranza, di chiedere in qualsiasi momento, col con- 
senso, quasi sempre concesso, dello Speaker o presi- 
dente della Camera, la chiusura delle discussioni e la 
votazione immediata del disegno o provvedimento in 
discussione. 

Il secondo metodo fu introdotto, dieci anni fa, dal 
signor Balfour, quand'era primo ministro. Il signor 
Balfour, politico fine, scrittore acuto di cose econo- 
miche e filosofiche, era noto per il fastidio aperto e 
quasi sprezzante con cui ascoltava le interminabili di- 



— 46 — 

scussioni dei suoi colleghi; e si comprende come egli, 
annoiato, facesse votare la cosidetta ghigliottina, con la 
quale la Camera stessa delibera che la discussione di 
un dato disegno di legge abbia a durare non più di un 
dato numero di giorni, sette, dieci, quindici; giunti alla 
scadenza del qual termine, all'ora segnata, siano o no 
finiti i discorsi, si procede senz'altro alla votazione del 
disegno di legge. La ghigliottina può anche essere a se- 
zioni (guillotìne by compartments), nel qual caso si fis- 
sano preventivamente il giorno e l'ora in cui deve rite- 
nersi finita la discussione e deve procedersi alla vota- 
zione di ogni singolo articolo del disegno di legge. 

Finalmente vi è l'istituto del canguro, il quale dà 
diritto allo Speaker della Camera dei Comuni di saltare, 
come fa il canguro, ossia di escludere dalla discussione 
e votazione tutti quegli emendamenti e ordini del giorno 
che egli discrezionalmente ritenga futili, defatigatorii, 
non pertinenti all'argomento, o meno importanti di altri. 

Ne bisogna dimenticare che, mentre fino al 1902 il 
tempo disponibile per le discussioni era dai regola- 
menti (standing orders) assegnato per quattro decimi al 
governo e per sei decimi ai private members, ossia ai 
semplici deputati non provvisti di alcuno stipendio od 
assegno sul bilancio dello Stato, in quell'anno la distri- 
buzione fu profondamente mutata, assegnandosi i nove 
decimi ai placemen (membri appartenenti al gabinetto 
o provvisti di una delle numerose cariche ministeriali 
esistenti in Inghilterra, anche fuori dei posti di ministro 
propriamente detti) e solo un decimo ai private membres. 

Sarebbe erroneo affermare che un siffatto sistema 
di riduzione della capacità di discorrere dei private 
members sia stato mal visto dall'opinione pubblica. 



— 47 — 

Tutt'altro. Salvo irrilevanti eccezioni, i giornali d'ogni 
partito si sono adattati alla chiusura per volontà del 
ministro, alla ghigliottina ed al canguro; e si direbbe 
quasi siano felici di potere risparmiare lo spazio, 
prima dedicato ai discorsi parlamentari, per dedicarlo 
al chricket, al foot-ball, all'aviazione ed ai vari altri ge- 
neri di sport. Pare che il pubblico si interessi sempre 
meno della Camera dei Comuni e si compiaccia di ve- 
derne ghigliottinati i discorsi, anche nei riassunti dei 
giornali; talché lo stesso Times, il quale un tempo era 
gelosissimo del vanto di non tralasciare mai neppure 
una parola dei discorsi parlamentari, in questi ultimi 
anni ha dato segno di voler rallentare alquanto la rigi- 
dità delle sue venerabili regole a questo riguardo. 

I partiti hanno subito fatto lor prò dei metodi in- 
trodotti dal Balfour. Il governo al potere, che dicesi 
liberale, ma che è sovratutto radicale e labourista, ed 
è protetto da quei nazionalisti irlandesi, che si erano 
altre volte resi famosi per accanite manovre ostruzio- 
nistiche, ha fatto suo prò della chiusura, della ghigliotti- 
na e del canguro, e ripetutamente se né servito per fiac- 
care l'opposizione dei conservatori; né questi poterono 
ribellarsi, essendo stati essi gli inventori dell'elegante 
congegno. Neppure si può affermare che delle armi 
antiostruzionistiche si sia fatto palese abuso, poiché gio- 
varono solo a sollecitare l'approvazione di provvedi- 
menti per cui era certo il consenso della maggioranza 
della Camera. Ora, si osserva dai difensori della ghi- 
gliottina e del canguro, il governo di gabinetto è governo 
di maggioranza. Se la maggioranza non può tradurre in 
leggi la sua volontà, per l'opposizione ostruzionistica 
della minoranza, non abbiamo più governo rappresen- 



— 48 — 

tativo, governo di maggioranza, bensì l'inerzia, l'arresto 
del governo, ad opera di una minoranza faziosa. Se 
questa crede cattivi i provvedimenti votati dalla mag- 
gioranza, ne dimostri al paese i difetti, trasformi l'opi- 
nione dell'elettorato, abroghi la legge cattiva. Ma 
finché questa maggioranza esiste, essa ha diritto di at- 
tuare in leggi i voleri del popolo, così come si sono 
manifestati negli ultimi comizi elettorali. 

Questa è indubbiamente la teoria dominante in In- 
ghilterra nel momento presente. Dominante; ma non 
pacifica. Poiché se in parlamento rarissime voci si al- 
zano a combattere contro la ghigliottina e il canguro, 
se i giornali vi sono favorevoli, se l'opinione pubblica 
vede con piacere lo stroncamento delle chiacchiere dei 
politicanti, non mancano qua e là voci di solitari osser- 
vatori, i quali mettono in chiaro i pericoli dei nuovi 
metodi. Per ora le critiche si leggono solo sui libri e 
sulle gravi riviste trimestrali, le caratteristiche riviste 
inglesi che sembrano libri, dove si leggono articoli che 
non di rado passano alla storia e segnano l'inizio di un 
movimento di idee destinato a fruttificare in avvenire. 
Sarebbe un errore disdegnare queste critiche, solo 
perchè scritte su libri e su riviste lette da un pubblico 
ristretto; troppe volte essendosi veduto in Inghilterra 
che la forza di penetrazione delle idee esposte ai pochi 
che sanno pensare e riflettere è maggiore di quella delle 
impressioni fugaci che vivono sui quotidiani la vita 
effimera di un giorno. 

Su una di queste riviste trimestrali, anzi su una rivi- 
sta nuova, di cui finora furono pubblicati solo due fasci- 
coli, la The Candid Quarterly Revieu) of Public Affairs, 
ossia sulla Sincera, rivista trimestrale di affari pubblici, 



49 



diretta da un singolare tipo di pubblicista, il signor T. 
G. Bowles, noto come critico ferocissimo del bilancio 
e pei una famosa sentenza con cui egli riuscì a farsi 
restituire dal Tesoro una somma indebitamente pagata 
a titolo di imposta sul reddito, si leggono parecchi arti- 
coli, anonimi, come tutti quelli di questa rivista e di 
parecchie altre, fra le più reputate, d'Inghilterra, dove 
sono esaminati gli effetti ultimi della ghigliottina e del 
canguro. Il giudizio che vi si dà di questi avvenimenti 
sta tutto nella famosa distinzione che il Bastiat faceva, 
a proposito dei problemi economici, tra quello che si 
vede e quello che non si vede. Come gli effetti visibili 
e immediati del protezionismo, del corso forzoso, limiti 
legali al tasso dell'interesse, ecc. ecc., sono buoni, e 
sono dannosi invece gli effetti invisibili e lontani; così 
sono buoni gli effetti visibili e immediati della ghigliot- 
tina e del canguro — bando alle chiacchiere inutili e 
facilità di governo alla maggioranza, — ma sono dan- 
nosi gli effetti invisibil e mediati. È vero infatti, notano 
gli scrittori della rivista citata, che l'essenza della costi- 
tuzione stia nel governo della maggioranza? No. L'es- 
senza vera sta nel potere della maggioranza della Ca- 
mera dei Comuni di deliberare in seguito a discussione. 
Le parole scritte in corsivo sono quelle che esprimono 
la vera virtù intima e profonda del sistema rappresen- 
tativo. Tutti i governi vivono con la maggioranza; anche 
i governi più assoluti. Persino le monarchie antiche 
persiane e babilonesi dovevano governare secondo le 
idee od i pregiudizi dominanti nella maggioranza della 
popolazione in quel momento. La caratteristica del go- 
verno rappresentativo quale si formò, non per creazione 
ma per lenta evoluzione, in Inghilterra, sta nella potestà 



— 50 — 

della maggioranza della Camera dei Comuni di delibe- 
rare e quindi di governare, dopoché ai singoli membri 
della Camera sia stata garantita, come diceva trecen- 
t'anni fa lo Speaker Lenthall, « ampia ed illimitata 
libertà di parola, con libera e compiuta discussione ». 

Le nuove norme restrittive quali effetti tendono ad 
avere su questa libertà di discussione, che è la condi- 
zione prima e indispensabile affinchè la legge votata 
possa essere ritenuta « ferma, stabile e sacra? ». Dieci 
anni oramai sono passati e già si possono vedere gli 
indizi degli effetti remoti dei provvedimenti che alla 
superficie appaiono indirizzati soltanto a togjiere la 
possibilità di incomportabili sopraffazioni della mino- 
ranza. 

Un effetto grave è la tendenza a limitare le discus- 
sioni, escludendone i private members e limitando il 
diritto di parlare alle due front benches. È noto che 
alla Camera dei Comuni i dibattiti sono capeggiati dalle 
due front benches, ossia dagli uomini maggiori che 
stanno seduti sui primi banchi ministeriali e di opposi- 
zione. Vi è la Ministerìal Front Bench, il banco del 
Ministero, che novera trentasei membri; e la Opposi- 
tion Front Bench, composta di circa venti membri, la 
quale comprende gli uomini scelti d'eli* opposizione, 
quelli che vorrebbero essi andare al potere, al posto 
della Ministerial o Treasury Bench, che ora vi si trova. 
Questi 56 sono i front benchers; gli altri deputati, i 
membri privati sono i backrbenchers, coloro che stanno 
sui banchi di dietro; macchine da votare, agli ordini 
dei whips o fruste dei due partiti, qualcosa di simile in 
grande a quello che dicesi sia in piccolo Ton. De Bellis 
per la maggioranza giolittiana. 



— 51 — 

È. curiosissimo leggere la descrizione della sorpresa 
da cui è colto il deputato novellino inglese, quando, 
pieno di entusiasmo per i suoi ideali, arriva alla Camera 
e si accorge che gli è quasi impossibile di parlare. Se 
egli vuole esporre le sue idee in generale, lo può fare 
solo nella discussione sulla risposta al discorso della 
Corona; ma solo per miracolo vi riuscirà, perchè, prima 
che arrivi il suo turno, lo Speaker avrà chiusa la discus- 
sione. Se egli vuole svolgere un ordine del giorno sul 
discorso stesso della Corona, potrà farlo se il suo nome 
esce dell'urna dove sono messi i nomi di tutti i 670 
deputati e da cui è estratto il nome del fortunato che 
solo ha diritto di parlare. Se, durante una discussione, 
egli si alza e domanda la parola, venti volte si alzerà 
e per venti volte lo Speaker farà mostra di non accor- 
gersi di lui. Se egli vorrà iscriversi a parlare, bisognerà 
si raccomandi al whip del suo partito; e questi, se egli 
appartiene al partito del governo, gli farà presente 
l'inopportunità di far perdere tempo al governo, quando 
già l'opposizione glie ne fa perdere tanto. Se egli è 
d'opposizione, il whip gli farà notare che il poco tempo 
disponibile ai deputati privati è meglio lasciarlo agli 
opposìtion front benchers, ai venti capi cioè dell'oppo- 
sizione, i quali sanno come meglio mettere a dura 
prova il ministero. 

In breve, i deputati che non hanno la fortuna di ap- 
partenere ai 56 privilegiati front benchers non sono nulla. 
Se alcuno dei reietti riesce nonostante, a furia di abilità 
e di conoscenza dei regolamenti, a prendere la parola 
ed a far sentire una nota personale, diversa da quella 
iscritta nei programmi rispettivi del partito al governo 
o dell'opposizione, con rabbia del ministro e con fasti- 



52 



dio del presidente (to the rage oj the Minister and the 
concern oj Mr. Speaker), la sua sorte è segnata. Il suo 
ivhip lo segna sulla lista nera; alle prossime elezioni 
non sarà più portato dal partito e rimarrà escluso dalla 
Camera dei Comuni. 

In conclusione, la soppressione della « intiera ed 
illimitata libertà di discussione », che lo Speaker 
Lenthall trecentanni fa proclamava essere la massima 
prerogativa della Camera dei Comuni, tende ad instau- 
rare una nuova tirannia : non più quella dei Tudors o 
degli Stuardi, bensì quella dei capi dei due partiti. E 
notisi che, se le due Front Benches fossero scelte libe- 
ramente dai membri dei due partiti, il male sarebbe an- 
cora sopportabile. Il male maggiore si è che alla loro 
volta i due grandi banchi, governativo e d'opposizione, 
sono nominati di fatto dalle organizzazioni dei partiti, di 
cui il chief-whip, ossia il capo dei whips dei due par- 
titi, tiene in mano le fila. Organizzazioni di partito le 
quali in apparenza sono aperte, dove in apparenza vi 
è libertà di discussione dei programmi che dovranno 
essere presentati agli elettori ed attuati dal partito vin- 
citore alla Camera; ma che in realtà, per molte circo- 
stanze, fra cui non ultima l'esistenza di un fondo elet- 
torale di guerra, costituito in parte dalla vendita delle 
onorificenze e dei titoli di nobiltà, amministrato, senza 
controllo, dal chief-whip di ogni partito, sono dominate 
da un caucus o comitato centrale, il quale formula il 
programma, sceglie i candidati, conduce la campagna 
elettorale, fa votare alla Camera gli eletti, così come 
vuole il ministero, a sua volta in definitiva scelto dal 
comitato irresponsabile del partito. 

Dire quale di questi fatti sia la causa e quale l'effetto, 
è impossibile. Sarebbe esagerato affermare che i co- 



53 



mitati centrali dei partiti, deliberanti in segreto ed irre- 
sponsabili, siano divenuti dominanti grazie alla soppres- 
sione della libertà illimitata di discussione; poiché i 
comitati esistevano prima che trionfassero la ghigliottina 
e il canguro. D'altro canto è certo che ghigliottina e 
canguro hanno reso irresistibile il potere, già grande, 
del ministero, ossia del comitato del partito, che seppe 
conquistare la maggioranza, sgominando le ultime 
tracce di quegli spriti indipendenti i quali sono stati 
sempre il lievito della formazione di nuovi partiti o della 
trasformazione dei vecchi. Ciò che si può dire è che 
g|higiiottinia, canguro, soppressione djejlla facoltà illi- 
mitata di discutere, soppressione della Camera dei 
Lordi, onnipotenza della Camera dei Comuni, ossia 
onnipotenza della maggioranza di essa, ossia ancora 
del ministero e finalmente del caucus o comitato cen- 
trale del partito al potere, trasferimento delle preroga- 
tive regie dal Re al gabinetto e cioè di nuovo al potere 
dominante nel partito governativo, attribuzione del di- 
ritto di presentare i candidati alle onorificenze ed ai 
titoli di nobiltà al chief-whip del partito al potere; sono 
tutti fatti strettamente legati tra di loro, i quali contri- 
buiscono a trasformare sotto i nostri occhi il sistema di 
governo di discussione, in cui la volontà dalla maggio- 
ranza riesce a trasformarsi in legge solo quando sia ben 
dimostrato che essa è una vera volontà, ossia una deli- 
berazione maturata e ragionata in guisa da poter resi- 
stere alle più vive, ostinate, minute, feroci critiche 
delle minoranze, nel tipo del governo del piccolo 
gruppo che è diventato, con metodi buoni o cattivi, 
padrone della maggioranza prò tempore. Il primo è il 
tipo del governo liberale, il secondo del governo gia- 
cobino. 



54 



Queste le due grandi correnti di opinioni che in In- 
ghilterra si contrastano il campo rispetto ai meriti e ai 
demeriti dei metodi antiostruzionistici. L'ambiente ita- 
liano è diverso; e quindi il contrasto non può essere 
trasportato tale e quale nel nostro paese. A citare solo 
una differenza, non esistono da noi i partiti organizzati, 
come esistono in Inghilterra; ed appena appena se 
ne scorgono alcune pallide imitazioni nei partiti socia- 
lista, clericale e nazionalista; mentre il grosso della 
deputazione è tenuto a segno da capi personali, fra cui 
primeggia uno solo, divenuto padrone incontrastato del 
parlamento. Il che sembra essere assai peggiore cosa 
di quel grosso malanno che sono divenuti in Inghilterra 
e negli Stati Uniti i partiti organizzati. 

Ma, pure attraverso a queste differenze profondis- 
sime di ambiente, alcune deduzioni aventi un valore 
generale si possono ricavare dall'esperienza inglese : 

essere assai dubbio che l'essenza del governo 
parlamentare stia nel diritto alla maggioranza di votare 
le leggi. Una maggioranza che si offenda al pensiero 
di una lotta senza quartiere, da combattere contro la 
minoranza prima di giungere ad attuare i suoi voleri, 
è l'araldo della tirannia; 

l'essenza del governo parlamentare sta nella li- 
bertà illimitata di discussione; e quindi l'ostruzionismo 
non è offesa agli istituti parlamentari, ma la loro pietra 
di paragone. Un parlamento, il quale, per debellare 
l'ostruzionismo, ricorre ai metodi restrittivi tipo inglese, 
dimostra di non essere più il parlamento di tipo clas- 
sico, ma una camera di registrazione della volontà, in 
Inghilterra del caucus o comitato centrale del partito 
dominante, in Italia della volontà del capo personale 



55 



del gruppo più numeroso dei membri della classe po- 
litica; 

una maggioranza, per avere il diritto di chiamarsi 
tale, nel senso parlamentare della parola, deve essere 
composta di persone le quali sono convinte della bontà 
della causa che difendono e sono pronte a rintuzzare 
gli argomenti della minoranza con argomenti propri, 
ed a lottare con la pazienza, la risolutezza, le sedute 
di venti ore al giorno o le sedute permanenti per setti- 
mane e mesi, contro l'ostruzionismo della minoranza. 
È molto dubbio se le qualifiche di minoranza e di mag- 
gioranza potessero sul serio essere applicate a quelle 
che così da sé si chiamarono in Italia durante l'ultima 
campagna ostruzionistica. Poiché da un lato si aveva 
una cosidetta minoranza, la quale non aveva nessun 
piano proprio meditato ed organico di riforme finan- 
ziarie da sostituire a quello proposto dal governo; e 
sapeva solo invocare la grande riforma, che da Cen- 
t'anni si proclama e che non si sa in che cosa consista. 
Dall'altro si aveva una maggioranza, la quale, invece 
di difendere come utili e buoni i provvedimenti da essa 
medesima propugnati, li disprezzava come espedienti 
temporanei e invocava e prometteva quella medesima 
grande riforma che era desiderata dalla minoranza. 

Assistendo alla quale eroicomica pugna, si rimane 
facilmente persuasi che male a proposito si usarono 
i nomi vistosi di minoranza e di maggioranza. Non erano 
una minoranza i socialisti, perchè costituiscono mino- 
ranze solo coloro che hanno idee capaci di conquistare 
il consenso dei più; ne erano una maggioranza gli altri, 
perchè spregiavano le proprie idee e dichiaravano belle 
quelle degli avversari. Il qual consenso mirabile può 



56 



dimostrare una verità : che la grande ri/orma tributaria 
forse è voluta da tutti gli uomini politici, perchè tutti 
sono persuasi che essa in pratica funzionerà in guisa 
da lasciare sussistere gli scandali odierni, per cui le 
classi professioniste, curiali, discorritrici, scribacchia- 
trici, tra cui massimamente si recluta la classe politica 
italiana, non contribuiscono nulla o pochissimo al ca- 
rico comune delle imposte; e sono fermamente avverse 
alla prima e più urgente, alla sola vera e grande riforma 
tributaria, che è la revisione e l'accertamento dei red- 
diti soggetti a imposta. 

Laonde si conclude che l'ostruzionismo non può mai 
offendere la dignità del parlamento; poiché o esso è 
fatto sul serio e allora è una sublimazione del potere 
illimitato di discutere, in che consiste l'essenza delle 
istituzioni rappresentative, ed è la prova del fuoco del 
valore intimo della maggioranza e della minoranza; 
ovvero è una cosa buffa, come fu in Italia, e la dignità 
del parlamento era già morta prima, per la poca fede 
della cosidetta maggioranza nelle proprie idee e per il 
difetto di idee diverse nella minoranza di energumeni, 
per cui l'ostruzionismo era divenuto fine a se stesso. 

(Dalla Minerva, 1 agosto 1914). 



IL VALORE ITALIANO 
DEL TRATTATO DI LOSANNA 

Nei commenti che si lessero sui giornali italiani 
intorno ai varii documenti che insieme costituiscono il 
trattato di Losanna, due opposte tendenze sono mani- 
feste : luna delle quali vuole ingigantire quelle che 
sono dette « concessioni » fatte all'impero ottomano. 
ed all'uopo cerca di dimostrare che l'Italia ha rinun- 
ciato in parte alla sua affermazione di sovranità piena 
ed intiera ed ha suscitato un vespaio di attriti futuri 
fra il governo italiano ed i rappresentanti del sultano 
e della legge sacra dello Sceriat; mentre l'altra accurata- 
mente espone i motivi per i quali le concessioni fatte 
sono di pura forma e non intaccano per nulla la nostra 
sovranità; e già alcuni, appartenenti alle ali estreme 
di questa tendenza, si industriano ad indicare le ma- 
niere con le quali le concessioni formali potranno via 
via essere attenuate, sino a ridursi a puri nomi senza 
sostanza alcuna. 

Io vorrei esporre alcune considerazioni inspirate ad 
una visione dei fatti diversa sia dell'una che dell'altra 
tendenza. Le quali hanno la loro ragion d'essere pole- 
mica, rispetto alla politica del momento attuale. Mentre 
sembra a me che la sola domanda importante che do- 
vrebbe fare a sé stesso ognuno il quale sopratutto si curi 



— 58 — 

dell' avvenire del paese è questa : il trattato di Losanna 
_riova all'Italia, e non all'Italia di ieri che non aveva 
colonie o stava disputandole alle armi del nemico, ma 
all'Italia di domani, che dovrà rassodare il suo dominio 
rispetto alle popolazioni arabe e dovrà attuare il pro- 
gramma, senza di cui la conquista sarebbe stata incon- 
cepibile, di crescere la civiltà e la prosperità di quei 
paesi? 

Questa sembra a me la vera posizione del problema : 
che il litigare intorno alla portata, più o meno larga, 
delle singole clausole del trattato rispetto alle aspira- 
zioni che erano state manifestate in Italia ed alle oppo- 
ste resistenze ottomane è un rivangare sul passato, il 
quale non ritorna più; mentre soltanto importa dal pas- 
sato trarre ammaestramenti per l'avvenire. 

Se ciò è vero, sembra a me che il trattato di Lo- 
sanna sia un atto da cui l'Italia potrà trarre grandis- 
simo beneficio, ove si sappiano utilizzare tutti i germi 
fecondi di bene che i nostri negoziatori seppero inclu- 
dervi. Ma per dimostrare ciò è d'uopo fare alcune essen- 
ziali premesse. 

La prima si è questa : che l'esperienza storica ha 
dimostrato quei soli paesi essere riusciti a conservare 
per lungo tempo le colonie, i quali seppero renderne 
contenti gli abitanti, facendo omaggio ai loro costumi, 
religiosi e politici, riconoscendo loro la massima libertà 
compatibile con la sovranità della madre patria, facendo 
il massimo assegnamento sulla loro collaborazione am- 
ministrativa ed anche politica. Tuttociò e così noto che 
è inutile dimostrarlo. I paesi che vogliono perdere le 
colonie, ne considerano come sudditi gli abitanti; men- 



59 



tre quelli che le conservano, più o meno presto, li chia- 
mano a collaborare nell' esercizio della sovranità locale. 
L'India moderna, dove tuttodì si creano nuovi consigli 
legislativi indigeni, ed ai vecchi si crescono i poteri, è 
l'esempio più attuale di questa necessità assoluta di 
governo. 

Una seconda premessa, anch'essa di fatto, è che 
nella Tripolitania e Cirenaica l'elemento indigeno, e 
per indigeno intendo arabi e berberi, conserverà la 
maggioranza numerica per lunghi anni ancora. La spe- 
ranza che gli emigranti italiani si dirigano in folla 
verso le due contrade libiche, per ora non si sa quando 
potrà essere attuata. L'esperienza storica dimostra che 
le colonizzazioni sono sempre lentissime sugli inizi e 
soltanto dopo aver raggiunto cifre di milioni, il moto 
diventa più rapido. Ora gli inizi nelle colonie non si 
numerano ne ad anni ne a poche diecine di anni. Anche 
lasciando impregiudicata la questione, su cui sono cosi 
discordi i pareri, sulle attitudini produttive agricole 
della nuova colonia, ed anzi supponendola risoluta nel 
senso più favorevole, gli inizii coloniali, durante i quali 
i coloni italiani saranno una minoranza esigua della 
popolazione totale, non potranno durare meno di mezzo 
secolo. Se poi i coloni italiani diverranno numerosi, il 
fatto non potrà accadere se non perchè l'Italia avrà 
fatto regnare l'ordine, la sicurezza della proprietà e 
delle persone, avrà reso facili le comunicazioni terrestri 
e marittime. Ma di un ambiente siffatto si gioveranno 
altresì gli indigeni; ed uno dei frutti più sicuri della 
nostra opera sarà il moltiplicarsi del numero di essi. La 
pace inglese ha fatto pullulare a diecine di milioni gli 
indiani; e gli arabi algerini e tunisini crescono rapida- 



— 60 — 

mente di numero grazie al dominio francese. E poiché 
gii indigeni della Libia sono già ora più di un milione, 
è probabile che conserveranno per lunghissimo tempo 
una notevole preponderanza su tutti gli altri elementi 
della popolazione. Dato ciò, appare manifesto quanto 
grande sia l'interesse dell'Italia a trovare formule adatte 
di collaborazione amministrativa e politica con un po- 
polo, il quale l'esperienza storica insegna non potere 
rimanere puramente soggetto. 

Una terza premessa necessaria è questa : essere 
sommamente pericoloso per la prosperità della colonia 
e la saldezza dei suoi vincoli colla madre patria ammet- 
tere una qualsiasi rappresentanza politica delle colonie 
a prò dei soli coloni provenienti dalla, madre patria o 
ad essi assimilati nel parlamento metropolitano. L'espe- 
rienza dell'Algeria insegni. Insediata la Francia sovrana 
nell'Algeria, distrutta ogni organizzazione politica degli 
indigeni, si commise l'errore enorme di attribuire ai 
coloni francesi l'elettorato al Parlamento di Parigi. 
Prima ai coloni francesi, poi ad alcuni ceti ristretti di 
indigeni a cui. si diede la cittadinanza, come gli israe- 
liti, riconosciuti cittadini francesi in blocco per un de- 
creto del mnistro Crémieux, ed uno scarso numero di 
notabili arabi, militari ritirati, ecc. L'errore fu funesto, 
perchè divise la popolazione in due categorie : la mag- 
gioranza araba, priva di diritti politici, e la minoranza 
di francesi ed assimilati, che soli avevano influenza 
politica. Onde i ministri di Parigi furono portati ad 
ascoltare le voci dei cittadini francesi, dei cui deputati 
temevano il voto contrario; e questi deputati, di solito 
di poca levatura, divennero i tiranni della colonia, si 
preoccuparono esclusivamente degli interessi dei coloni 



— 61 — 

francesi, degli israeliti ed altri assimilati, fomentarono 
una legislazione di classe, che fece divampare l'odio 
tra gli arabi oppressi e ritardò di decenni il progresso 
civile ed economico dell'Algeria. Adesso la Francia sta 
riparando faticosamente agli errori commessi nel pas- 
sato; ha creato e rafforza nell'Algeria le rappresentanze 
di elementi locali; ammaestrata dall'esperienza, pre- 
serva con gran cura nella Tunisia gli istituti politici ed 
amministrativi indigeni, cercando di far sì che le auto- 
rità arabe, dal bey all'ultimo caid, esercitino un ufficio 
parallelo e congiunto a quello delle autorità francesi. 

Onde l'utilità di un governo misto, palesatosi lo stru- 
mento più efficace, per ottenere la collaborazione degli 
elementi indigeni ed europei, allo scopo di conservare 
la colonia alla madre patria e di farla nel tempo stesso 
progredire. 

Date queste premesse, in cui, come si vide, non 
entra menomamente in gioco l'interesse dell'impero 
ottomano, sibbene esclusivamente l'interesse dell'Italia, 
o meglio dell* Italia nuova, la quale si è assunta una 
grandiosa missione coloniale, chiaro appare che la solu- 
zione ideata dai nostri negoziatori, sotto colore di con- 
cedere qualche soddisfazione formale alla Turchia, in 
realtà è quella che meglio giova agli interessi della co- 
lonia e quindi della madre patria. 

Il problema era più complesso di quello risoluto 
dalla Francia a Tunisi. Nella Tripolitania e nella Cire- 
naica invero non esisteva disgraziatamente alcuna di- 
nastia locale che potesse servire nelle mani del governo 
metropolitano a tenere devoti gli arabi. Una dinastia 
nuova non si improvvisa; ne i discendenti attuali dei 
Caramanli di Tripoli, i quali del resto non avevano do- 



— 62 — 

minato nella Cirenaica, nel Fezzan e nella regione sir- 
tica, parevano adatti all'uopo. La permanenza della 
sovranità ottomana, con un protettorato italiano, 
avrebbe sul serio menomato la sovranità italiana e sa- 
rebbe stata cagione probabilmente di attriti non lievi. 

La soluzione attuata col firmano del Sultano e col 
decreto del Re d'Italia appare in verità pienamente ri- 
spondente agli scopi che noi dobbiamo raggiungere 
nella nostra azione coloniale. Poiché la sovranità ita- 
liana, il Naib-ul-Sultan, il Cadì, le prescrizioni dello 
Sceriat, la commissione mista italo-araba per preparare 
ordinamenti locali inspirati al rispetto degli antichi co- 
stumi, l'affermazione implicita della necessità di un 
bilancio locale, la continuazione degli impegni finan- 
ziari dipendenti dal debito pubblico * ottomano, sono 
tutti elementi di governo i quali, se sviluppati secondo 
la loro logica intima, possono essere utilissimi agli in- 
teressi della collettività che dovrà a poco a poco sorgere 
nella nuova colonia. Altra è la parola scritta, ed altro 
è lo sviluppo che possono gli istituti politici prendere 
col tempo. 

Ed invero, ciò che massimamente importava era che 
le popolazioni indigene — che sono oggi e saranno per 
lunghissimo tempo, per le considerazioni sovra svolte, 
la grande maggioranza degli abitanti della colonia — 
avessero contemporaneamente due sensazioni ben vive; 
di cui l'una è quella della sovranità italiana, e l'altra di 
non essere abbandonate in balìa di un dominatore, che 
esse apprezzeranno senza dubbio col tempo, ma che 
per ora non conoscono abbastanza. Esse dovevano ve- 
dere la sovranità italiana inquadrata nella cerchia delle 
istituzioni sacre e rappresentative che a loro erano dive- 



— 63 — 

nute abituali e che male avrebbero potuto essere d'un 
tratto abbattute. Se la guerra avviene tra due Stati civili 
europei, ed una parte del territorio viene smembrata 
da uno Stato a profitto dell'altro, nessuna difficoltà si 
oppone al vincitore che voglia estendere i proprii ordi- 
namenti al territorio annesso. Si cambia, occorrendo, il 
nome ai sindaci ed ai prefetti, si mandano in una nuova 
capitale i deputati; e formalmente l'annessione è com- 
piuta. Invece in paesi, come quelli africani, dove non 
esiste l'organizzazione burocratica civile europea, dove 
non esiste od è una parvenza la rappresentanza parla- 
mentare, il passaggio è estremamente più difficile. 
Qualche cosa di simile avveniva in Europa nei secoli 
scorsi; e chi non ricorda quale tenacissima vita avessero 
nelle provincie di nuovo acquisto gli istituti politici ere- 
ditati dai dominii precedenti? Per citare soltanto ciò che 
accadeva da noi, basti ricordare che la sovranità del 
Re di Sardegna si estendeva, al 1792, su numerosi ter- 
ritori : la Savoia, il Piemonte antico, il Ducato di Aosta, 
Nizza, Oneglia, il Monferrato antico ed il Monferrato 
nuovo, le Provincie conquistate sullo Stato di Milano, 
tra cui la Valle Sesia si distingueva dal Novarese, dal- 
l'Oltrepo-pavese, dal Vigevanasco, ecc. T ecc., la Sarde- 
gna. Su tutte queste regioni si estendeva indiscussa la 
sovranità sabauda; ma in ognuna assumeva aspetti di- 
versi, rispettosa sempre degli ordinamenti locali; qua 
assoluta, là limitata da parlamenti locali; in qualche 
regione con fervida vita municipale, altrove con predo- 
minio della provincia. E queste diversità derivavano 
tutte da un ossequio, garantito da trattati, ad istituti 
che erano sorti durante la sovranità antica ed erano 
stati per trattato mantenuti, a garanzia delle popola- 



— 64 — 

zioni, anche dopo la instaurazione della sovranità 
nuova. 

Ecco quale sembra a me il significato profondo degli 
istituti politico-religiosi, consacrati nei documenti del 
trattato di Losanna. Il firmano ottomano storicamente 
può essere considerato come una affermazione fatta 
dal sultano che i governi sono creati per il bene dei 
popoli e non i popoli a beneficio dei governi; esso 
afferma che ciò che tiene insieme le popolazioni delle 
due Provincie, ciò che ne fa un popolo non è l'autorità 
sua, la quale egli confessa impotente; ma è l'esistenza 
di un comune affetto degli indigeni per « il loro paese »; 
la perpetuazione delle leggi sacre dello Sceriat, le quali 
costituiscono il fondamento della vita civile e famiglia- 
re, la esistenza loro autonoma, organizzata secondo 
leggi a cui essi devono essere chiamati a collaborare, 
che devono essere applicate mediante un ordinamento 
amministrativo imperniato su un bilancio « locale ». 
In sostanza il Sultano, spogliandosi della propria sovra- 
nità ha desiderato si sapesse che egli non abbandonava 
i suoi antichi sudditi alla balìa di un conquistatore, libero 
di imporre istituzioni estranee ai costumi ed all'indole 
delle popolazioni conquistate. E l'Italia, facendo pro- 
prie queste esigenze della conquista, non ha compiuto 
cosa che non fosse sopratutto ad essa sommamente 
benefica. Perchè, essendo nell'interesse dell'Italia che 
gli arabi diventino suoi collaboratori, è puranco nel suo 
interesse che essi sappiano di poter vivere secondo gli 
ordinamenti religiosi, che regolano i loro rapporti fami- 
gliari, testamentari, ecc., ecc. Ed a ciò provvede la 
gerarchia del Cadì e dei suoi naib subordinati; la quale 
gerarchia non poteva non essere legittima, nel solo 



modo in cui dinanzi agli occhi dei musulmani è legit- 
tima una autorità religiosa, ossia mercè la nomina da 
parte dello sceicco dell'Islam. 

A questa organizzazione spirituale si aggiunge la 
organizzazione finanziaria. Dopo aver pregato Dio, gli 
arabi dovranno pur pagare il suo rappresentante in terra 
perchè egli mantenga lordine e la sicurezza e la giu- 
stizia. Ma pagare un tributo destinato ad un bilancio 
non proprio del paese o destinato al paese per pura 
condiscendenza del dominatore sarebbe stato avvilente 
per i nuovi sudditi e pernicioso per la madre patria. 
Prova ne sia la Francia, la quale, dopo aver fuso il 
bilancio dell'Algeria col suo, si avvide di avere grave- 
mente errato e ricostruì il bilancio proprio della colonia, 
a determinare il quale concorrono gli indigeni. Mercè 
il trattato di Losanna, l'Italia sapientemente avverte che 
essa si terrà lontana dagli errori che ad altri paesi costa- 
rono e costeranno la perdita di grandi colonie. Essa 
avverte gl'indigeni che essi avranno un bilancio locale, 
a cui favore andranno le imposte che essi pagheranno. 
Li avverte che le entrate locali saranno destinate esclu- 
sivamente a favore della colonia, e che la madre pa- 
tria farà dei sacrifici a prò della colonia senza richie- 
derne direttamente vantaggi pecuniari pel proprio bilan- 
cio. E, come primo affidamento, fa gravare sulle en- 
trate locali le spese necessarie per il funzionamento del- 
la gerarchia religiosa ed anche per l'assegno del « rap- 
presentante del Sultano ». 

Con quest'ultima disposizione, forse la più interes- 
sante di tutte, si pongono le fondamenta di quella gra- 
duale evoluzione che col tempo trasformerà il rappre- 
sentante del Sultano (per le funzioni consolari dell'Ini- 



— 66 — 

pero ottomano si potrà trovargli un sostituto, un se- 
gretario) in quel personaggio indigeno, scelto da noi 
con accortezza, di cui ogni grande potenza coloniale ha 
urgente bisogno per esercitare praticamente di fatto la 
sovranità sugli indigeni. La nomina potrà col tempo 
assumere il carattere di una investitura formale, simile 
a quelle che avevano reso nei secoli scorsi leggendario 
e misterioso il Sacro Romano Impero, morto legalmente 
soltanto nel 1806 dopo una vita durata per secoli nelle 
pergamene della Corte di Vienna; di fatto il rappre- 
sentante del Sultano potrà trasformarsi in un rappresen- 
tante degli interessi indigeni presso l'autorità italiana. 
Scegliere i rappresentanti degli indigeni colle forme 
elettorali in uso nei paesi europei sarebbe una farsa 
leggermente comica; mentre la genialità nostra negli 
espedienti saprà adattare certamente le forme vecchie 
agli istituti nuovi, in guisa da avere una rappresentanza 
dell'indigenato, che non si senta serva perchè nominata 
in virtù di leggi proprie e di costumi aventi una san- 
zione quasi sacra da parte del Califfo dei credenti, e 
nel tempo stesso volonterosa collaboratrice della sovra- 
nità italiana, alla cui opera il bilancio locale avrà do- 
vuto la sua floridezza, ed i loro stipendi la sicurezza che 
forse non avevano sotto l'antico regime. Trovare la via 
per cui i naib, i cadì, i membri della commissione mi- 
sta italo-indigena siano chiamati a collaborare insieme 
per la prosperità della colonia è certo impresa singolar- 
mente diffìcile; la quale però viene, a parer mio, facili- 
tata dal fatto che tutte queste istituzioni appariranno 
agli indigeni un diritto consacrato nell'atto della trasmis- 
sione della sovranità. 



67 



li trattato di Losanna crea uno stato giuridico delle 
popolazioni arabe; stato giuridico corrispondente alla 
loro mentalità, e quindi utile strumento di governo per 
il sovrano. 

Il rispetto ai diritti delle fondazioni pie, mentre as- 
sicura gli indigeni che essi potranno trovare sempre 
quell'aiuto che dalle fondazioni essi si ripromettevano, 
simile a quello che i poveri ottenevano nel medio evo 
dai conventi ed oggi presso di noi dalle istituzioni di 
beneficenza, non nuocerà menomamente alla coloniz- 
zazione italiana, ove questa sia possibile e nei limiti 
in cui lo sarà. 

La permanenza, garantita per trattato, di quegli al- 
tri beni vakufs che sono destinati non direttamente a 
sollievo dei poveri, ma al mantenimento di moschee, 
scuole, ospedali, biblioteche, alberghi, cimiteri, ecc., 
è utile all'Italia, in quanto la popolazione indigena vie- 
ne per tal modo assicurata di conservare quegli istituti 
autonomi, viventi di vita propria, che sono stati consti - 
tuiti dalla pietà delle generazioni passate e che in Ita- 
lia con ogni sforzo cerchiamo di crescere e far prospe- 
rare. 

Quanto alla colonizzazione dei beni vakufs da parte 
di nostri coloni, dato sempre che essa sia conveniente, 
il diritto musulmano conosce infiniti artifizi, con cui 
permanendo la proprietà e la rendita attuale dei beni 
vakufs nelle fondazioni pie, il dominio utile può essere 
trasferito ad altri. Oserei dire che, quando li conosce- 
remo, verrà voglia a noi di applicare quegli artifizi in 
Italia. 

Con la tesi ora sostenuta, sembrami sentir dire, qua j 
si si afferma che il governo della Tripolitania e della 



— 68 — 

Cirenaica dovrà essere in mano degli indigeni, ad esclu- 
sione delle altre razze e dei coloni italiani. No. La tesi 
non giunge a queste conseguenze. Afferma soltanto che 
sul territorio della colonia le popolazioni arabe hanno 
un proprio stato giuridico, obbediscono a leggi fonda- 
mentali religiose e famigliari che l'Italia ha ricevuto e 
rispetterà; hanno diritto a non essere tassate a prò di 
altri popoli o ceti. L'Italia poi regolerà, rispettando le 
leggi e gli istituti fondamentali degli indigeni, i rap- 
porti di costoro con i coloni italiani, con gli israeliti, 
ecc., ed i rapporti di tutti con la madre patria e con 
l'estero. Noi dobbiamo dirci fortunati che i principi così 
saggiamente incorporati nelle carte del trattato di Lo- 
sanna pongano l'Italia sulla buona via nell'esercizio 
della sovranità. Che è, ripetiamolo ancora, per chi vo- 
glia conservare e far prosperare le colonie, il rispetta 
degli istituti degli indigeni, la collaborazione con essi, 
l'esclusione di qualsiasi esclusività di rappresentanza ai 
coloni italiani od assimilati ad essi; la creazione di tanti 
statuti politici quante sono le sezioni della popolazione 
(indigeni, israeliti, coloni italiani), in guisa che nessuna 
di esse possa opprimere l'altra. 

Certo la creazione di questa nuova struttura politica 
sarà opera faticosa e difficile; ma di essa il trattato di 
Losanna ha tracciato già le somme linee. La storia giu- 
dicherà l'opera italiana dai frutti che saremo capaci di 
trarre dai germi fecondi di cui quel trattato è ricco. 

(Dal Corriere della Sera, 1° novembre 1912). 



L'ABOLIZIONE DELLE CAPITOLAZIONI 
IN TURCHIA 

La giornata del 10 settembre rimarrà storica negli 
annali dell'Impero turco. L'abolizione delle capitola- 
zioni può invero segnare il principio del rinnovamento 
nella vita di quel paese e può produrre effetti profondi 
e benefìci sia alle popolazioni dell'Impero sia agli stra- 
nieri i quali dimorano nel territorio turco o vengono in 
rapporto di commerci e di industrie con i suoi abitanti. 

I trattati, comunemente detti capitolazioni — mercè 
cui i sultani di Costantinopoli si obbligarono in per- 
petuo a garantire agli stranieri il diritto di esser giudi- 
cati dai propri consoli o tribunali misti, di non pagare 
imposte, e si vincolarono a non aumentare i dazi doga- 
nali sulle merci importate ed esportate senza il consen- 
so dei governi europei — potevano forse essere adatti 
alle necessità dell'epoca storica in cui sorsero. In un'e- 
poca in cui l'esercizio delle libertà elementari di traf- 
fico si considerava come un privilegio, era naturale che 
i Veneziani, i Genovesi, e le nazioni che a costoro suc- 
cedettero, cercassero di garantirsi il privilegio della li- 
bertà di traffico, allo scopo di non vedersi vietato l'ac- 
cesso alle contrade del Levante. In momenti storici in 
cui l'esazione delle imposte era arbitraria e oppressiva, 
era opportuno che le colonie straniere cercassero di 



70 - 



ottenere l'immunità dalle imposte, come il solo mezzo 
per non essere taglieggiate a sangue. Il fanatismo re- 
ligioso e le persistenza nel mondo mussulmano delle 
idee medievali di statuto personale spiegano poi come 
siano sorti i tribunali consolari e le giurisdizioni privi- 
legiate a favore degli stranieri. 

Certo è però che tutta questa struttura antiquata era 
divenuta oggi un anacronismo storico e un impedimento 
gravissimo al progresso civile ed economico dell'impero 
turco. Le giurisdizioni consolari menomavano la sovra- 
nità dello Stato e creavano, in seno all'impero, tante 
sovranità diverse quanti erario gli Stati di capitolazione. 
Ogni colonia straniera si considerava come accampata 
sul territorio turco e riconosceva, dentro lo stesso terri- 
torio, una sovranità diversa da quella territoriale. Chi 
consideri che una delle caratteristiche fondamentali del- 
lo Stato moderno è l'abolizione di ogni altra sovra- 
nità all'infuori di quella dello Stato territoriale, chi ri- 
cordi che l'abolizione del foro ecclesiastico fu conside- 
rata un trionfo del diritto, non può a meno di ricono- 
scere che l'abolizione delle giurisdizioni consolari era 
un ideale che ogni turco, animato da senso di amore 
verso il proprio paese, doveva perseguire con fermezza, 
non trascurando alcuna occasione, alcun pretesto per 
conseguirlo. Tutti i paesi europei, quando si impadro- 
nirono di colonie di capitolazione, si affrettarono ad 
abolire questo marchio di sudditanza verso lo straniero; 
e noi in Libia seguimmo, bene a ragione, l'esempio al- 
trui. Il Giappone, risorto a civiltà, abolì subito i tribu- 
nali consolari. 

Unica obbiezione : la scarsa garanzia di giustizia che 
offrono i tribunali indigeni in Turchia. Ma è obbiezione 



71 



la quale persuade soltanto ad esigere che si passi gra- 
datamente, con opportune cautele, dallo stato attuale 
di privilegio* alla condizione di diritto comune; non è 
motivo per conservare indefinitamente lo stato di pri- 
vilegio. Il quale torna, in definitiva, di danno anche e 
forse sovratutto agli stranieri. Poiché la separazione as- 
soluta, la quale esiste tra la giustizia indigena ed i tri- 
bunali consolari, fa sì che la prima non sia soggetta al 
controllo e alla critica degli stranieri e la immobilizza 
nel suo stato corrotto e imperfetto attuale. 

Ora — e qui è il punto essenziale del problema — 
a che vale una giustizia perfetta tra gli stranieri, quando 
essi sono condannati a vivere in un ambiente dove l'at- 
bitrio è regola e dove la giustizia è misconosciuta? In 
un ambiente siffatto la cultura e la ricchezza non pos- 
sono progredire; la popolazione indigena giace oppressa 
e povera. E gli stranieri, invece di essere un elemento 
di progresso, di critica, di controllo, diventano, come 
purtroppo in molti casi accade ordinariamente in Tur- 
chia, gli alleati della ingiustizia. Dalla loro condizione 
di privilegio traggono motivo per ottenere favori dalle 
autorità turche e concessioni di ogni fatta, a detrimento 
delle popolazioni indigene. Invece di essere i pionieri 
del progresso, talvolta diventano gli struttatori del pae- 
se. Di ciò si giovano non i molti stranieri, i lavoratori, 
i commercianti, gli industriali che poggiano soltanto 
sulle proprie iniziative e sui propri capitali, ma i pochi 
più furbi, i quali, giovandosi delle influenze delle am- 
basciate e dei consolati, riescono a strappare conces- 
sioni e privilegi, per lo più onerosissimi al pubblico era- 
rio e contrari all'interesse generale. 



— 11 — 

Le quali osservazioni si debbono ripetere rispetto 
alia immunità dalle imposte e al regolamento dei dazi 
doganali. La immunità dalle imposte a favore degli stra- 
nieri produce in Turchia i medesimi effetti che analoghe 
immunità produssero in passato in Italia e in ogni al- 
tro paese d'Europa. Ricordisi il detto di quel granduca 
di Toscana, il quale, contemplando l'estendersi dei la- 
tifondi ecclesiastici e nobiliari esenti da imposte, escla- 
mò : <( presto al granduca di Toscana non rimarrà un 
palmo di territorio su cui potere assidere imposte e con 
cui mantenere lo Stato! ». È gloria degli Stati moderni, 
venuti dopo la rivoluzione francese, di avere abolito 
ogni immunità tributaria di classe e di persone; ed è 
doveroso perciò riconoscere alla Turchia il diritto di 
seguire il nostro esempio. La immunità produce invero 
in Turchia gli stessi effetti deleteri che produceva da 
noi in passato. La classe più ricca e più operosa della 
popolazione non paga balzelli, mentre pur si giova dei 
servizi pubblici; dal che deriva il disagio permanente 
delle finanze, la incapacità dello Stato a provvedere ai 
doveri fondamentali della pubblica sicurezza, della giu- 
stizia, dell'igiene, dell* istruzione. Il peso dei tributi in- 
cide maggiormente sui coltivatori indigeni della terra, 
i quali per tal guisa immiseriscono e sono scoraggiati 
dal migliorare le loro colture. Il privilegio degli stra- 
nieri ridonda così in definitiva a loro proprio grandis- 
simo danno; poiché essi certamente lucrerebbero di più, 
ove potessero vivere in uno Stato a finanze assestate, 
con imposte equamente ripartite e con una popolazione 
indigena prospera e progressiva, Gli stranieri, rimanen- 
do in Turchia attaccati all'immunità tributaria, per un 



73 



piccolo bene presente rinunciano a un grande beneficio 
futuro. 

Il divieto fatto alla Turchia di aumentare i dazi do- 
ganali senza il consenso delle potenze per sé medesimo 
non presta il fianco ad alcuna obbiezione, ed anzi in 
definitiva è utile così agli indigeni come agli stranieri, 
instaurando un regime di perfetto libero scambio, di 
dazi prettamente fiscali e di uguaglianza di trattamento 
fra indigeni e stranieri e fra stranieri fra di loro; tutte 
cose che la scienza economica grandissimamente loda 
e reputa utili all'universale. Ma v'è da osservare — e 
l'osservazione è doverosa nella penna di un liberista 
— che i benefizi anche grandissimi paiono sempre odio- 
si quando sono imposti dallo straniero; che è preferi- 
bile di gran lunga uno stato di libertà di scambi, rag- 
giunto in seguito all'esperienza di errori protezionisti, 
che non un libero scambio imposto dalla civiltà alla 
barbarie. Poiché il primo si attua presso un popolo ric- 
co; mentre il secondo è l'appannaggio dei popoli mise- 
rabili, a cui poco giova l'osservanza delle buone regole 
economiche. Finalmente, e sovratutto, notisi che le po- 
tenze europee non si sono rifiutate in passato di consen- 
tire all'aumento dei dazi doganali dal 4 insino al 15 per 
cento odierno; ma hanno fatto dipendere il loro con- 
senso dall'ottenimento di concessioni e di favori, intor- 
no ai cui malefici risultati sovra mi sono già abbastanza 
espresso . 

Ben fece perciò l'Italia, nel trattato di Losanna a 
consentire all'abolizione condizionata delle capitolazio- 
ni. Dimostrava con ciò di essere la patria del diritto e 
di avere a cuore gli interessi sostanziali della massa dei 
suoi connazionali più che quelli apparenti di pochi pri- 



74 



vilegiati tra di essi. E io mi auguro che, in questi fran- 
genti, l'Italia indichi la via regia lungo la quale l'aboli- 
zione delle capitolazioni potrà avvenire con le maggiori 
possibili garanzie per i nostri connazionali di oggi e di 
domani. Queste garanzie sono necessarie; poiché è ra- 
gionevole la diffidenza nostra verso la classe politica ot- 
tomana, in cui sovrabbondano i saltimbanchi e gli av- 
venturieri, appartenenti a razze diverse da quella ot- 
tomana e poco curanti dei destini futuri della loro pa- 
tria. Abbandonare i nostri Italiani senza difesa in mano 
di costoro sarebbe delitto; sebbene il pericolo grave non 
debba farci preferire l'errore di concorrere al manteni- 
mento del dannoso istituto, che per somma ventura è 
stato abolito. 

Scendendo a qualche particolare intorno alle garan- 
zie a cui si dovrebbe subordinare il consenso all'abo- 
lizione delle capitolazioni, pare a me che le principali 
dovrebbero essere le seguenti : 

1. l'istituzione di assessori stranieri nei tribunali 
territoriali, per quei casi nei quali si dovessero giudi- 
care cittadini stranieri. Gli assessori potrebbero essere 
designati dai consoli e nominati dallo Stato ottomano, 
per salvare il principio dell'unica sovranità territoriale. 
La Turchia dovrebbe obbligarsi a introdurre nella pro- 
pria legislazione commerciale, civile e penale principi 
e regole informati al diritto comune europeo; e questo 
diritto dovrebbe essere obbligatorio per tutti coloro i 
quali non preferissero il diritto mussulmano. Fino all'in- 
troduzione del nuovo codice, i tribunali indigeni do- 
vrebbero applicare agli stranieri le stesse norme di di- 
ritto finora applicate dai tribunali consolari. Nessun giu- 
dizio potrebbe essere iniziato a carico di uno straniero, 



— 75 — 

senza che ne fosse fatta preventiva denunzia al console 
del suo paese; cosicché il console possa eventualmente 
provvedere alla difesa. Con queste e simigliane norme, 
che i periti agevolmente potrebbero indicare, parmi che 
il passaggio dal vecchio al nuovo regime sarebbe faci- 
litato, dandosi nel tempo stesso le opportune garanzie 
agli stranieri; 

2. il divieto di imporre sugli stranieri balzelli di- 
versi e più alti di quelli imposti agli indigeni situati 
nelle stesse condizioni. A garantire l'esatta osservanza 
di questo principio, dovrebbero essere chiamati rap- 
presentanti delle varie categorie di stranieri in seno alle 
commissioni ed ai corpi ottomani incaricati della ripar- 
tizione delle imposte. Gli stranieri non possono preten- 
dere nulla di più, fuori che essere trattati alla stessa 
stregua degli indigeni; e la presenza di loro delegati in 
seno ai corpi ripartitori sarebbe, oltreché una garanzia 
per l'esatta osservanza della regola della parità, un 
mezzo efficace per introdurre ordine e giustizia nella 
amministrazione fiscale, anche a beneficio degli indi- 
geni; 

3. i dazi doganali potrebbero essere variati ad li- 
bitum, dallo Stato ottomano, subordinatamente ad una 
condizione : che essi debbano essere variati nello stesso 
senso e nella stessa misura per tutte le provenienze 
straniere. Dovrebbe insomma essere garantita la parità 
di trattamento per tutti gli Stati importatori ed esporta- 
tori; così da evitare che si possa da qualche Stato più 
inframmettente, con mezzi corruttori, ottenere una con- 
dizione di favore per i propri connazionali. Faccia la 
Turchia gli esperimenti protezionisti che ad essa meglio 
talentino; ma tratti tutti gli stranieri alla stessa stregua. 



— 76 — 

La quale condizione è quella che massimamente giova 
all'Italia, come alla nazione che, per fortuna, è meno 
abile nelle triste arti del corrompere la burocrazia turca 
e più ha da giovarsi, per il buon mercato di molti suoi 
prodotti, della parità di trattamento. 

4. il regime delle concessioni governative sia sta- 
bilito su basi chiare, semplici, legali. Anche qui la Tur- 
chia dovrebbe, del resto nel suo vantaggio, stabilire un 
sistema di pubblicità nelle concessioni di ferrovie, di 
lavori pubblici, di sfruttamenti minerari, dando la pre- 
ferenza a chi offre condizioni migliori all'erario otto- 
mano, sia egli indigeno o straniero ed a qualunque na- 
zionalità appartenga. Ove questo principio fosse adot- 
tato, grande vantaggio ne ricaverebbero gli Italiani, il 
cui spirito d'intraprendenza dovrebbe essere stimolato 
ad assumere per proprio conto l'appalto di imprese che 
oggi gli stranieri ottengono grazie a favoritismi, giovan- 
dosi poi della mano d'opera italiana per condurle a 
termine. 

(Dalla « Minerva », 1° ottobre 1914). 



DECADENZA INGLESE? 

Nell'atto in cui, con la morte di Vittoria e l'assunr 
zione al Trono di Edoardo VII, si chiude il più impor- 
tante e forse più glorioso periodo della storia inglese, 
e uno nuovo se n'apre, una grande incognita si pre- 
senta a chi guarda il futuro della potenza economica 
e politica d'Inghilterra 

Il grido d'allarme, che un terzo di secolo fa innal- 
zava il Jevons, ha trovato oggi nuovamente un'eco pro- 
fonda ed una discussione vivissima ed interessante si 
prolunga su per le riviste e per i giornali per sapere se 
l'Inghilterra si trovi giunta al culmine della sua potenza 
industriale e stia per discendere la china della deca- 
denza, oppure ancora le sia aperta dinanzi la via del 
progresso. 

L'imperialismo è una manifestazione sterile di or- 
goglio da parte di un paese che vede di non poter 
oltre progredire, oppure è la genuina espressione di una 
vita esuberante che cerca di espandersi al di là dei con- 
fini della patria? 

Gli argomenti non mancano a coloro i quali riten- 
gono prossima la decadenza britannica. La concorrenza 
ognora più formidabile della Germania e dell'America, 
la perduta supremazia nelle grandi industrie del ferro e 
dell'acciaio e sopratutto rincarimento progressivo del 
costo di estrazione del carbone, sono fenomeni i quali 



— 78 — 

fanno seriamente dubitare essere giunta l'ora in che 
l'Inghilterra dovrà scendere alla condizione di potenza 
industriale di second'ordine e ritenersi paga di venire 
ricordata con affetto e con venerazione dalle numerose 
colonie anglo-sassoni fondate dai suoi figli nelle varie 
parti del mondo. 

L'Inghilterra fu grande nel secolo nostro, in special 
guisa perchè le ricchissime miniere di carbone e di ferro 
le permisero di diventare la fornitrice di manufatti per 
tutto il mondo e di trasportare sulla sua flotta mercan- 
tile i prodotti dei paesi più lontani. Ma oggi che in ogni 
luogo si scoprono nuove miniere coltivabili a bassissi- 
mo costo e che le miniere inglesi vanno esaurendosi di 
giorno in giorno, l'Inghilterra non potrà più mantenere 
l'antica posizione. A poco a poco, una dopo l'altra le 
innumerevoli fabbriche esuleranno dal suolo britannico, 
trasmigrando verso luoghi meno favoriti dai doni della 
natura. In Inghilterra rimarranno solo alcuni opifici di 
oggetti di lusso e le opulenti case dei ricchi colonizza- 
tori del mondo; ma la vita febbrile ed intensa dell'oggi 
più non si vedrà. 

Tale il quadro che Jevons faceva dell'Inghilterra fu- 
tura; ed il quadro oscuro viene oggi nuovamente trac- 
ciato coi medesimi colori da altri indagatori pessimisti. 
Le nere previsioni meritano di essere discusse anche 
da noi, perchè nessun paese potrebbe rimanere insen- 
sibile dinanzi ad un fatto che muterebbe la carta in- 
dustriale dell'Europa e, spostando le sedi della ricchez- 
za economica, sposterebbe necessariamente altresì le 
sedi della potenza militare e politica. 

È perciò che noi crediamo opportuno riassumere in 
breve gli argomenti, coi quali uno dei più illustri eco- 



— 79 — 

nomisti e statisti inglesi, sir Robert Giffen, nell'ultimo 
fascicolo dell' Economie Journal ha voluto neramente 
opporsi alla tendenza pessimista che vuole intravedere 
nel futuro un'Inghilterra decaduta ed impotente. 

La prosperità inglese, egli afferma, non è un fatto, 
il quale sia destinato a cessare collo scomparire di una 
o due delle condizioni che l'hanno resa possibile nel 
passato. Essa è andata crescendo continuamente nei 
due ultimi secoli e la rapidità del suo incremento è di- 
venuta ognora maggiore. Le cause occasionali e mo- 
mentanee di questa grandezza economica, possono es- 
sere state tali che il tempo può farle scomparire... Così 
scomparve l'industria della lana che un giorno formava 
la gloria della nazione; e si alternarono con vicende 
or prospere or avverse, le manifatture del cotone, del 
ferro, del carbone, della costruzione di navi. La colo- 
nizzazione dell'America e dell'Australia, ed ora quella 
del Sud-Africa, i progressi commerciali dell'India e per- 
sino la guerra franco-tedesca contribuirono a crescere 
la ricchezza nazionale. 

Ma, se queste condizioni esterne e parziali potran- 
no forse nel futuro far difetto, non scompariranno giam- 
mai — è da sperare — quelle condizioni fondamentali 
su cui poggia la vera grandezza dell'Inghilterra : voglia- 
mo dire le qualità ingenite ed acquisite della popola- 
zione e la grande copia di capitale accumulato. 

Non c'è nessun motivo per credere che la popola- 
zione inglese vada degenerando e che il capitale cessi 
di cumularsi in masse prodigiose ed atte a sopportare 
i crudi colpi della concorrenza estera e della scompar- 
sa di taluni speciali industrie, come quella del ferro e 
del carbone. 



— 80 — 

La generazione presente è altrettanto e forse più vi- 
gorosa di quelle passate, e se la ricchezza già acquisita 
ne ha scemata alquanto l'antica rabbiosa smania di ele- 
varsi con energia incessante, pure non sembra che i 
figli siano meno dei loro padri disposti a cercar nuove 
vie all'impiego dei capitali e delle intelligenze. 

La concorrenza estera medesima divenendo più ac- 
canita, stimola continuamente gli imprenditori ed im- 
pedisce loro di addormentarsi sugli allori conquistati. Il 
rivale straniero, arricchendo se stesso, giova contempo- 
raneamente all'industria inglese. I suoi clienti, com- 
prando a minor prezzo, possono ottenere un risparmio 
che altrimenti non avrebbero avuto e possono impi© 
garlo in compre addizionali. Da tempo immemorabile 
in tutte le epoche in cui la prosperità dell'Inghilterra 
più velocemente cresceva, si udirono lagnanze inces- 
santi contro i concorrenti esteri e previsioni continue di 
disastri e di mine. Il fatto che coteste previsioni non si 
verificarono' mai nella realtà, è arra che anche nel fu- 
turo si può fare a fidanza sulle qualità preziose di ener- 
gia e di intraprendenza del popolo inglese per superare 
quelle crisi che ai padri non ostacolarono il cammino 
sulla via del progresso. 

Nemmeno crede il Giffen che si debba far gran 
conto della innegabile decadenza nelle industrie del 
ferro e del carbone. Se la produzione del ferro e del 
carbone fosse il solo fondamento della prosperità del 
paese, certamente si dovrebbe essere allarmati. Ma ciò 
è vero? Non ha forse la nazione progredito e non con- 
tinua forse a progredire in mirabil guisa, malgrado che 
essa debba provvedersi all'estero di quasi tutte le ma- 
terie greggie, e delle derrate alimentari? Nel mondo 



— 81 — 

moderno la diminuzione dei prezzi di trasporto fa sì 
che fitta popolazione possa prosperare e numerose fab- 
briche possano essere esercitate in luoghi diversi da 
quelli ove si producono le materie greggie e gli alimenti. 
Quanto al carbone, i sistemi perfezionati nell* utilizzarlo, 
lo rendono sempre meno necessario ad una nazione 
manifatturiera. Una volta era necessario consumare 50 
lire di carbone per produrre oggetti del valore di L. 100 
che si vendevano a 105. In quelle condizioni una dif- 
ferenza del 10 per cento nel costo di produzione del 
carbone a vantaggio di un concorrente estero avrebbe 
avuto un'importanza grandissima, assorbendo l'intiero 
profitto dell'impresa. Grazie alle invenzioni moderne, 
50 lire di carbone bastano ora per produrre 1000 lire di 
manufatti. Una differenza del 10 per cento nel prezzo 
del prodotto assorbirebbe solo un decimo del profitto 
e potrebbe essere sopportato con facilità. 

È uno sbaglio perciò credere che una industria spe- 
cifica sia necessaria ad una nazione che ha una grande 
varietà nella popolazione, nelle industrie e nei commerci 
e possiede un grande capitale. Non c*è nessuna indu- 
stria che sia veramente indispensabile alla vita di un 
paese. La società deve seguire i tempi e mutare conti- 
nuamente, cosicché l'industria « indispensabile » di un 
periodo può scendere senza danno ad un grado affatto 
secondario di importanza e forse scomparire del tutto, 
lasciando il luogo ad altre industrie « indispensabili ». 
Forse l'Inghilterra di domani sarà molto diversa dal- 
l'Inghilterra del ieri, ma non sarà perciò meno ricca e 
potente. 

(Dal Corriere della Sera, 4 febbraio 1901). 



LE DUE VIE DELL'IMPERIALISMO 

In un eloquente articolo sul Corriere della Sera del 
17 settembre scorso, il senatore Pasquale Villari ha ri- 
preso, ragionando di due libri sull'Inghilterra, l'uno 
scritto dall'italiano professor Dalla Volta e l'altro dal- 
l'inglese Lord Milner, un antico* dibattito che in Inghil- 
terra dura da tempo fra liberisti e imperialisti, fra i 
Little Englanders, fautori del piede di casa, della mas- 
sima libertà e indipendenza concessa alle colonie, e gli 
esaltatori della Greater Britain, i quali vogliono dalla 
più grande Inghilterra far sorgere il fatto grandioso del- 
l'Impero inglese, di uno Stato mondiale, composto di 
nazioni autonome, ma insieme riunite da stretti vincoli 
politici ed economici. Lord Milner rivendica la tradi- 
zione di Disraeli (Lord Beaconsfield), si inspira ai con- 
cetti imperialisti svolti nelle celebri opere del Dilke e 
del Seeley e vivacemente difende il programma colo- 
nialista e imperialista e protezionista del Chamberlain 
contro le accuse dei liberisti, tenaci oppugnatori di ogni 
dazio doganale di favore per le colonie, e seguitatori 
delle idee dei Cobden e dei Bright, che ai loro tempi 
avevano ottenuto la abolizione dei dazi doganali protet- 
tivi e avevano anche propugnato 1* abbandono delle 
colonie e della politica conquistatrice e imperialista. 

Contro questi liberisti dal cervello piccino, incapaci 
di larghe vedute politiche e storiche, Lord Milner, il 



84 



quale volle la guerra coi Boeri e fu il primo proconsolo 
inglese nel Sud Africa riunito sotto il dominio inglese, 
si arrabbia. Questi micromani, questi ostinati Little En- 
glanders — dice il Milner — guardano solo al soldo; 
si oppongono all'introduzione di un dazio di 2 scellini 
per quarter — circa 80 centesimi per ettolitro — sul 
grano forestiero, perchè rincarirebbe di altrettanto il 
prezzo del pane consumato dall'operaio inglese; e non 
s'avvedono che il piccolo sacrificio è voluto da noi im- 
perialisti non per sé stesso, ma solo come un mezzo per 
permettere alle colonie di venderci esse il loro frumento 
in esenzione di dazio ad esclusione del grano prove- 
niente dagli Stati Uniti, dall'Argentina, dalla Russia! 
Non vogliono comprendere che il piccolo dazio contro 
il grano straniero è un mezzo per creare il grande im- 
pero britannico, in cui la metropoli e le colonie forme- 
ranno tutt'un complesso economico, insieme riunito da 
vincoli strettissimi di interessi. Che cosa sono le dispute 
piccole e grette su alcuni dazi protettivi contro lo stra- 
niero e a prò delle colonie, quando si tratta di cemen- 
tare un impero di 400 milioni di uomini, di rassodare 
la pax britannica in un territorio immenso e di trasfor- 
mare la vaga e sciolta confederazione odierna, riunita 
da vincoli quasi soltanto nominali, in uno Stato com- 
patto, mondiale, deciso a perpetuarsi nella storia di 
fronte agli altri organismi potenti che nel mondo si 
vanno formando? 

La disputa è interessante non solo per 1* Inghilterra; 
che anche noi dovremo scegliere presto e seriamente 
la via da seguire per creare vincoli non di dominio puro 
ma di interessi e di affetti tra la madrepatria e le nostre 
ingrandite colonie. Anche da noi, come in Inghilterra, 



— 65 — 

come in Francia, come in Germania, si porrà il proble- 
ma del modo migliore di creare l'Impero e renderlo 
duraturo. Perciò mi sembra opportuno di esporre quello 
che io credo essere il vero fondamento del trionfante 
imperialismo britannico, ben diverso dal protezionismo 
coloniale additato da Lord Milner e dai suoi compagni 
di fede imperialista. 

Sì, è vero: Cobden, Bright e gli altri apostoli del 
liberismo furono dei Little Englanders; volevano ricca 
e prospera la madrepatria e volevano lasciare le colonie 
liberissime di provvedere a se stesse; ne avrebbero 
rimpianto un pacifico distacco delle colonie dalla ma- 
drepatria. Perciò essi furono detti adoratori della pic- 
cola Inghilterra e nemici dell'Impero inglese. Mentre 
il Chamberlain e Lord Milner sono detti imperialisti, 
perchè proclamano la necessità dell'Impero, e vogliono 
vincoli doganali più stretti fra le colonie e la madre- 
patria. 

Tutto ciò è verissimo; ma è anche vero che queste 
sono parole e discorsi. La storia non si fa con le parole 
e coi discorsi, ma con gli atti e coi fatti. Lo storico non 
deve guardare a ciò che gli uomini dissero; ma alle 
conseguenze vere delle azioni compiute dagli uomini; 
e dichiarare creatori dell'impero quelli che lo crearono 
di fatto o coi loro atti lo cementarono, anche se a pa- 
role essi non se ne curarono O' gli erano nemici; e con- 
siderare come distruttori dell'impero quelli che compi- 
rono od avrebbero compiuto atti destinati a rompere 
i vincoli tra le diverse parti dell'impero, anche se essi 
da sé medesimi si erano proclamati i banditori dell'im- 
perialismo. 



66 



Ora, a me sembra che, se noi guardiamo la storia 
da questo punto di vista, niun dubbio vi possa essere 
sull'intima virtù imperialista degli atti compiuti dai li- 
beristi inglesi e in genere dai cosidetti Little Englanders 
e sulla forza distruttiva dell'impero che avrebbero, se 
tradotte in fatti, le idee dei neo-imperialisti e protezio- 
nisti alla Chamberlain o alla Milner. 

Che cosa fecero invece i liberisti inglesi? Abolirono 
i dazi protettori che gravano sull'importazione delle 
merci straniere e coloniali nella Gran Bretagna. Li abo- 
lirono sulle merci e sulle derrate di ogni provenienza, 
sia che venissero da paesi stranieri o dalle colonie. E 
quale fu l'effetto di questa politica? Che mentre prima, 
all'epoca del sistema coloniale e del protezionismo, gli 
inglesi compravano pochissimo dalle colonie, perchè i 
dazi aumentavano il prezzo delle merci e rincaravano 
la vita e diminuivano la capacità di consumo delle 
masse, dopo acquistarono assai di più dalla Germania 
e dalla Francia e dagli Stati Uniti, ma divennero anche 
ottimi clienti delle proprie colonie. Il Canada, l'Austria 
lia, l'India non vendettero mai tanto alla madrepatria 
come quando furono costretti a subire ivi la concorrenza 
dei produttori stranieri, a perfetta parità di condizioni; 
poiché furono altresì costretti a inventar modi di ri- 
durre i costi per ribassare i prezzi, dovettero indirizzare 
lavoro e capitale a produrre ciò che ai concorrenti non 
sarebbe riuscito di produrre con altrettanta perfezione. 

Oggi i vincoli economici tra la madrepatria e le co- 
lonie sono intensi e saldissimi perchè fondati sul libero 
volere dei consumatori metropolitani, i quali trovano 
convenienza a comprare certe merci e certe derrate più 



— 87 — 

dalle colonie che dai paesi stranieri. Togliete questa 
libertà di scelta, costringete i consumatori metropolitani 
a comprare piuttosto il grano del Canada che il grano 
degli Stati Uniti, perchè su questo grava un dazio di 
2 scellini per quarter da cui il primo è esente, e voi 
avrete reso odioso il Canada alle masse popolari in- 
glesi; voi avrete gettato un germe di dissoluzione nel- 
l'edificio superbo' dell'impero inglese, poiché avrete 
dato motivo all'oratore popolare nei comizi elettorali 
inglesi di scagliarsi contro i canadesi affamatoli del 
popolo, contro la alleanza malvagia dei farmers del 
Far-west canadese coi grandi proprietari inglesi allo 
scopo di affamare le classi operaie. Ed un impero, il 
quale vive provocando il malcontento delle masse me- 
tropolitane, non può durare. 

Che cosa vollero, ancora, i Little Englanders per le 
colonie? Vollero lasciarle libere e padrone di se; vollero 
che l'autorità del governo e del parlamento britannico 
su di esse fosse puramente nominale. E così ottennero 
che quel complesso di popoli, i quali nel primo otto- 
cento erano invidiosi fra di loro e malfidi verso la ma- 
drepatria, divenisse un impero saldo e fortemente unito 
in cui le colonie vanno a gara nell'offrire navi da guerra 
alla madrepatria per la difesa comune. Chi riconosce 
nel Canada leale, devoto e fedele d'oggi, il Canada 
turbolento di prima del 1850, le cui sollevazioni dove- 
vano essere represse colla forza? Chi riconosce nel lea- 
lissimo Sud Africa d'oggi, a capo di cui sta il generale 
boero Botha, il torbido paese a cui presiedeva dieci 
anni addietro Lord Milner? 

Se la storia vuole essere giusta, deve riconoscere 
che questa mirabile e profonda trasformazione è stata 



— 88 - 

dovuta all'adozione delle idee dei liberisti e dei Little 
Englanders. Quelli vollero che le colonie potessero li- 
beramente colpire di dazi tanto i prodotti metropolitani 
come quelli stranieri; e nessuna preferenza vollero fosse 
concessa ai prodotti della madrepatria in confronto ai 
prodotti stranieri. E così accadde che mentre prima, 
col sistema coloniale, i coloni si inferocivano contro la 
madrepatria che vietava loro di provvedersi altrove a 
buon mercato delle cose necessarie all'esistenza, delle 
macchine e dei vestiti e li obbligava ad acquistarli a 
caro prezzo sul suo mercato, dopo le si affezionarono, 
quando videro che essa li lasciava liberi di comprare 
altrove, sforzandosi però di produrre ed offrire le stesse 
merci a più basso prezzo degli stranieri per attirare a 
se la clientela coloniale. Coli' antico sistema protezioni- 
sta ed imperialista, la madrepatria vendeva poco alle 
colonie, perchè vendeva a caro prezzo; ne credeva di 
aver interesse a vendere a buon mercato, essendo forte 
del monopolio di cui godeva sul mercato coloniale, a 
causa dei dazi differenziali che le colonie erano costrette 
a mettere sui prodotti stranieri; sicché la madrepatria 
era diventata odiosissima ai coloni, che la guardavano 
come un sfruttatrice e le si rivoltavan contro procla- 
mando la libertà degli Stati Uniti. 

Il Seeley, che è senza dubbio il maggior teorico 
dell'imperialismo britannico, ben fa vedere come la 
distruzione della Greater Spain, del Greater Portugal, 
della Greater Holland, della Greater France e della 
Greater Britain, le quali esisterono lungo i secoli XVI, 
XVII e XVIII, fu in notevole parte dovuta ai vincoli onde 
le colonie erano legate alla madrepatria. E se oggi la 
nuova Greater Britain è più salda assai della Greater 



— 89 — 

Britain del secolo XVIII, la maggior saldezza e la spe- 
ranza di più lunga durata sono dovute all'assenza di 
ogni vincolo economico legale che asservì le colonie 
alla madrepatria. Che se oggi, ancora, le colonie man- 
dano i loro primi ministri a sedere col primo ministro 
e col segretario degli esteri inglesi in una « Conferenza 
britannica » a Londra, se spontaneamente le colonie 
votano milioni e corazzate per la difesa imperiale, se 
la costituzione di « Senato imperiale » non è più un 
sogno assurdo, ma sta diventando una realtà concreta, 
ciò non è dovuto ai nefasti progetti del Chamberlain, 
ma alla politica dei vecchi e nuovi Little Englanders 
i quali vollero dare alle colonie libertà di rispondere 
di no ai desideri e ai voleri della madrepatria e, dando 
loro questa libertà, le indussero ad assentire volonta- 
iamente, nelle maniere discusse insieme, d'accordo con 
la madrepatria, ai nuovi grandi piani di unione im- 
periale. 

Dio salvi dunque l'impero inglese dagli imperialisti 
e dai protezionisti che, per interesse o per infatuazione, 
lo vogliono rovinato; e Dio salvi il nostro paese dallo 
stesso pericolo, nella opera appena iniziata di forma- 
zione di una più grande Italia! La storia insegna che 
quelle sole colonie si conservano alle quali si dà libertà 
di vivere come esse vogliono; e che quei soli vincoli 
coloniali sono duraturi e fecondi che poggiano sull'in- 
teresse, liberamente veduto e seguito dalle due parti, 
non sulla forza di leggi imposte dalla madrepatria. Vor- 
remo noi seguire questa lezione della storia? 

(Dalla Minerva, 15 ottobre 1913). 



CHE COSA È L* IMPERO BRITANNICO 

Che la guerra europea, benché sia combattuta sul 
continente e benché richieda alle nazioni continentali 
il sacrifìcio maggiore di vite, sia in realtà una lotta per 
il primato fra Germania ed Inghilterra, è verità di cui 
sono ugualmente convinti inglesi e tedeschi. I quali ul- 
timi, mentre non nascondono le intime simpatie del 
cuore per i francesi e non repugnano ad accordi con la 
Russia, considerano l'Inghilterra come la loro vera irre- 
ducibile nemica. 

È un odio che nelle classi meno colte della Germania 
trae forse principalmente origine dalla credenza di una 
supposta necessità di lotta a morte con l'Inghilterra per 
la rovina economica dell* avversario e la conseguente 
grandezza propria; mentre nell'Inghilterra e presso le 
medesime classi sociali si diffondono credenze altret- 
tanto erronee e funeste intorno alla necessità di schiac- 
ciare la Germania per salvare l'economia britannica 
dalla rovina. 

Pur non negando che queste false immagini dei pe- 
ricoli, .che discenderebbero dal vigoreggiare della con- 
trada rivale, abbiano grandemente contribuito alla se- 
minagione dell'odio da cui scaturì la guerra, io non 
intendo qui occuparmene. Certamente anche chi, al par 
di me, sia persuaso che la rivalità tedesca fu invece 
non ultima causa del rifiorire grandioso della economia 



— 92 - 

britannica dopo il 1900 e ritenga d'altro canto che il 
contributo del mercato monetario londinese alla risur- 
rezione dei paesi nuovi dell'America, dell'Africa e del- 
l'Asia fu cagione non trascurabile dello sviluppo mera- 
viglioso della ricchezza tedesca negli ultimi 25 anni, 
deve riconoscere che le credenze erronee degli uomini 
partoriscono talvolta effetti più grandiosi delle verità più 
certe e profondamente meditate. E quindi può darsi 
che i tedeschi si sentano animati alla lotta contro l'In- 
ghilterra dalla speranza di diventare più ricchi e po- 
tenti nel giorno in che siano riusciti ad annientare la 
loro rivale ricca e potente d'oggi. 

Ma è doveroso riconoscere che non tutti i tedeschi 
ragionano in cotal maniera materialistica e predatoria. 
Anzi gli uomini veramente rappresentativi della Ger- 
mania, quelli che dai connazionali sono reputati i veg- 
genti ed i profeti della missione storica germanica abor- 
rono da questa maniera di ragionare. Udiamo il vangelo 
di Treitschke, alla cui fonte si sono abbeverate tutte 
le classi intellettuali e dirigenti della Germania d'oggi. 
Egli non predica la crociata contro 1* Inghilterra, perchè 
essa sia una temibile e forte e sana concorrente della 
Germania. Egli invece la odia perchè la reputa una 
maschera, una entità non esistente, una vergogna che 
non ha diritto di esistere. « In questo nostro mondo 
— egli afferma — la cosa che è intieramente una ma- 
schera, una falsità, una falsità corrotta, può trascinare 
la sua vita per qualche tempo, ma non può durare per 
sempre ». Ed altrove: « Non fu la grandezza della sua 
condotta politica che, come già creò Venezia, ha creato 
ora l'Impero inglese; bensì l'azzardo della sua situazione 



93 



geografica, la remissività supina delle altre nazioni e 
la naturale ed innata ipocrisia della nazione inglese. 
Vecchia Inghilterra! decrepita e corrotta fino al mi- 
dollo! ». 

Se fosse vero che l'impero inglese è una cosa falsa, 
ipocrita e corrotta, se esso fosse davvero una maschera 
priva di contenuto, un colosso dai piedi di creta, sen- 
z'ai cun dubbio il suo fato sarebbe indeprecabile e la 
storia dovrebbe registrarne ben presto la rovina. Nes- 
suno Stato ha, non dirò il diritto ma la possibilità di 
vivere quando esso è fondato sull'inganno e sull'astuzia, 
fortificato dall'ipocrisia e raccom|andato ad un'idea 
falsa di una forza inesistente. I tedeschi — e dico i te- 
deschi per indicare quel qualunque popolo che si sen- 
tisse la forza di rovesciare l'idolo — non avrebbero, se 
fosse esatta la rappresentazione che essi si fanno del- 
l'impero inglese, ragione di odiare l'Inghilterra perchè 
essa è la loro rivale economica. Essi avrebbero ragione 
di odiarla e di rovesciarla perchè in realtà essa non 
sarebbe veramente una rivale degna di misurarsi con 
loro nel campo aperto e libero delle competizioni com- 
merciali; ma una tiranna che colla forza dell'astuzia e 
dell'inganno cercherebbe di ottenere lucri, a cui sarebbe 
incapace di giungere onestamente, col lavoro emulatore 
e fecondo. 

La guerra contro l'Inghilterra sarebbe una cosa 
turpe e dannosa, se essa mirasse a distruggere una na- 
zione che ha il solo peccato di rivaleggiare con la Ger- 
mania colle oneste arti dell'industria e del commercio 
in campo aperto. La guerra, come la predicò per tanti 
anni il Treitschke, sarebbe invece una santa impresa 
perchè mirerebbe a togliere di mezzo un mostruoso 



— 94 — 

colosso, chiamato impero inglese, sorto coll'inganno e 
vivente di frodi diuturnamente commesse a danno del- 
l'umanità. Siccome la vittoria delle idee vere, profon- 
damente rispondenti a realtà, è irresistibile, la caduta 
della Inghilterra sarebbe inevitabile. Più o meno presto, 
attraverso la varia fortuna delle armi, l'impero inglese 
dovrebbe andar distrutto e sulle sue rovine si instaure- 
rebbero altri imperi mondiali. Di fronte a questo pro- 
blema : della vittoria della cosa viva e reale, dell'idea 
vera e sana contro la cosa vuota ed ipocrita, contro 
l'idea falsa; scompare l'altro problema : chi debba vin- 
cere tra il business-man inglese ed il commesso viaggia- 
tore tedesco. Costoro sono soltanto le fronde esteriori 
di un albero che ha le sue profonde radici nella terra; 
e cadranno prime le fronde di quell'albero le cui ra- 
dici sono marcie e decrepite. 

Il problema è dunque : l'impero inglese è una cosa 
falsa, una apparenza vana, sorta colla frode e man- 
tenuta coli' ipocrisia? Rispondere chiaramente a questa 
domanda è nell'interesse così degli inglesi come degli 
altri popoli; degli inglesi, perchè un popolo consapevole 
dei propri difetti, è sulla via della redenzione; degli 
altri, poiché non giova a nessuno farsi un'idea falsa 
delle virtù e dei vizi degli amici e degli avversari. 

Ora, mentre gli inglesi hanno contribuito moltissimo 
alla conoscenza di se stessi; mentre tutta la loro lette- 
ratura politica è una analisi per lo più straordinaria- 
mente oggettiva e critica della loro storia e della for- 
mazione del loro impero; non mi sembra che fuori del- 
l' Inghilterra si sia seguito con abbastanza attenzione 
il movimento di idee e di fatti che tendono alla rinno- 
vazione dell'impero inglese. L'ultimo dei grandi italiani 



— 95 — 

che conobbe a fondo, nello spirito e nelle linee essen- 
ziali, l'Inghilterra fu una mente politica sovrana : Ca- 
millo di Cavour. Dopo di lui e presso le nuove gene- 
razioni, l'Inghilterra non è ancora quella cosa irreale 
e grottesca che ha immaginato il Treitschke, ma è di 
nuovo la nazione di mercanti astuti, che sfrutta le fa- 
tiche degli altri, che esce arricchita dalle guerre combat- 
tute fuori dall'isola superba e padrona delle terre irro- 
rate dal sangue dei popoli ingenui, l'ipocrita che predica 
in casa d'altri l'ideale della nazionalità ed intanto 
freddamente commette gli eccidi indiani, annette l'E- 
gitto, distrugge l'indipendenza boera; la nazione missio- 
naria che tuona contro i delitti dei belgi nel Congo e 
si macchia, senza batter ciglio, degli orrori dei campi 
di concentrazione del Transvaal. Ed è innegabile che 
presso gli inglesi si trova suppergiù quella medesima 
percentuale di gente falsa, ipocrita e crudele che, in 
identiche circostanze, è esistita ed esisterebbe presso 
ogni altro popolo della terra. Ma non è di questi in- 
cidenti che si compone la gran trama della storia; ne 
da questi fatti possiamo trarre argomento a giudicare 
della posizione che ebbe ed ha nella storia e nella vita 
del mondo l'impero inglese; così come nessuno di noi 
vorrebbe giudicare l'opera grandiosa dell'impero ro- 
mano sull'unico fondamento delle crudelissime azioni 
che non di rado i romani commisero contro i popoli ne- 
mici e soggetti. 

No. L'impero inglese si deve giudicare ricordando 
che esso è l'unico sopravvivente di quattro anzi di 
cinque grandi imperi che dal secolo decimosesto al 
decimottavo si succedettero nel mondo : l'impero por- 



% 



toghese, l'impero spagnuolo, l'impero olandese, l'im- 
pero francese ed il vecchio impero inglese. Piuttosto 
si deve dire, poiché la parola « impero » non è del tutto 
appropriata, come, prima che sorgesse la odierna « più 
grande Inghilterra » erano sorte e si erano dileguate 
cinque altre « più grandi » formazioni storiche, che 
avevano preso il nome dalla contrada europea relativa- 
mente piccola che aveva allargato il suo dominio nei 
paesi nuovi d'America e d'Asia; il Portogallo, la Spa- 
gna, l'Olanda, la Francia e l'Inghilterra medesima. 
Tutte queste cinque « più grandi » nazioni avevano 
contribuito alla formazione del mondo moderno; ma 
tutte scomparvero; e solo qua e là si veggono galleg- 
giare ancora i resti di quelli che parevano un giorno 
dominii mondiali destinati a sfidare i secoli. Scomparve 
il « più grande Portogallo »; perchè all'opera ambiziosa 
di popolare e civilizzare il Brasile, le Indie e gran parte 
delle coste africane male rispondevano la piccolezza 
della popolazione della madrepatria e sovratutto la re- 
pugnanza ai lavori dell'industria, l'intolleranza religiosa, 
la corruzione amministrativa degli avventurieri posti a 
capo delle fattorie commerciali nelle colonie, la libidine 
del lucro rapido, che li indusse a voler escludere a forza 
gli arabi dal commercio indiano e ad instaurare dapper- 
tutto un monopolio geloso e sterilizzatore a prò dei ne- 
gozianti della madrepatria. 

Cadde la « più grande Spagna » e nella sua caduta 
trascinò con se la madrepatria; perchè gli spagnuoli 
considerarono le Americhe come un terreno da sfrut- 
tare, come una riserva di caccia, dove gli indiani fos- 
sero stati da Dio creati pef scavare Toro a prò dei do- 



97 



minatori. La superstizione dell'oro non produsse forse 
mai nella storia una decadenza altrettanto tragica come 
quella dell'impero su cui il sole non tramontava mai. 
Lasciate in abbandono le terre e le industrie, gli spa- 
gnuoli considerarono come la loro vera industria nazio- 
nale quella del guadagnare oro nelle Americhe; e loro 
accumulato sperperarono in guerre incessanti combat- 
tute per conservare un dominio odioso in Italia e nei 
Paesi Bassi ed il predominio nell'Europa. Epperciò, 
malgrado i galeoni d'oro che formavano l'invidia d'Eu- 
ropa, il tesoro spagnuolo era poverissimo, gli abitanti 
della madrepatria disusati al lavoro fecondo, i coloniali 
malcontenti e desiderosi di libertà. 

Lo stesso sogno di supremazia europea pèrdette 
l'impero francese; a cui tuttavia non avevan fatto di- 
fetto le concezioni geniali dei Sully e dei Colbert ed il 
valore di generali meravigliosi. Anche la Francia volle 
che le colonie servissero alla madrepatria; pretese che 
esse dovessero fornirle materie prime e prodotti colo- 
niali, in cambio dei manufatti, di cui in patria si pro- 
muoveva l'incremento con privilegi gelosi. 1 francesi, 
come è loro costume antico, mandarono nelle colonie 
funzionari numerosi e brillanti ufficiali di corte : e per 
correre dietro alle apparenze dimenticarono quella co- 
lonia del Canada che ancora oggi è la dimostrazione 
vivente dei miracoli che avrebbe potuto compiere nel 
mondo la Francia religiosa, prolifica, patriarcale, rurale 
dell'antico regime, se la classe politica dirigente del 
secolo XVIII non fosse stata così inferiore alla sua 
missione; e se non avesse ritenuto di potere conservare 
con guerre incessanti e depauperanti in Europa il do- 
minio del mondo. 



— 98 — 

Ne potè essere salvata dalla decadenza « la più 
grande Olanda », a cui il possesso di Giava, Sumatra 
e delle isole della Sonda non basta a conservare lo 
scettro di impero mondiale, che per un istante pareva 
avesse conquistato. Abitanti di un paese troppo piccolo 
per aspirare permanentemente ad una grande situazione 
europea, privi dei caratteri di una nazione veramente 
autonoma territorialmente ed idealmente, gli olandesi 
sovratutto non vollero l'impero, con tutte le responsa- 
bilità e gli oneri gravissimi che esso comportava. Essi 
si preoccuparono soltanto di conservare quelle colonie 
da cui potevano ricavare un reddito pecuniario diretto. 
Ottimi mercanti; esperti e benemeriti amministratori 
delle isole che sono loro rimaste, mancarono dello spi- 
rito imperialistico, avventuroso, idealistico che spiega 
il fiorire delle colonie di popolamento. L'Africa del Sud 
avrebbe potuto essere una loro grande creazione; ma 
gli olandesi 1* abbandonarono a se stessa e se ne ricorda- 
rono solo, meravigliando, nei giorni dell'eroica resisten- 
za boera. 

E cadde finalmente la « più grande Inghilterra » del 
secolo XVIII; quella che si era silenziosamente e quasi 
inavvertitamente formata sulle coste dell'Atlantico dopo 
il 1600. Gli Stati Uniti si separarono perchè l'Inghilterra 
del secolo XVIII, l'Inghilterra di Giorgio II e di Gior- 
gio III, di Walpole, di Lord North e della Cabala non 
aveva nulla da dire agli uomini religiosi, puritani, che 
da sé avevano assunto la missione di conquistare la 
foresta e la prateria al regno di Dio. Nessun vincolo 
ideale riuniva i fondatori delle f3 colonie nord-ame- 
ricane alla madrepatria; ed essi erano dntimamente 
scandalizzati nel vedere con quanta leggerezza il Par- 



— 99 — 

lamento inglese, tutto occupato intorno a piccoli intrighi 
di corte e di piazza, attentava senza accorgersene alle 
loro franchigie. Le casse di tè, che i coloni buttarono 
nel porto di Boston indicarono non solo che essi non 
intendevano di pagare imposte senza avervi prima dato 
il loro consenso; bensì anche che essi non avevano alcun 
ideale comune con gii uomini che allora rappresenta- 
vano l'Inghilterra. 

Era un conflitto di coscienze, dal quale pareva che 
l'idea di un impero inglese non potesse più risollevarsi. 
Per anni e per decenni si credette in Inghilterra che 
non fosse ne possibile ne utile la conservazione di un 
ampio dominio coloniale. Le colonie si consideravano 
come il frutto che, giunto a maturanza, si stacca da se 
dall'albero che gli ha dato vita. Fatte adulte e robuste 
le colonie erano destinate a diventare indipendenti, 
conservando con la madrepatria vincoli puramente 
ideali e morali; ed il compito della vecchia Inghilterra 
doveva essere quello di una madre e nutrice amorosa, 
paga di sacrificare se stessa ai figli e lieta di vederli 
sciamare pel mondo in cerca di avventure, dimentichi 
quasi di chi aveva loro dato e conservato la vita. 

Questa la teoria dominante dal giorno in cui l'Inghil- 
terra si adattò a riconoscere l'indipendenza delle colonie 
nord-americane fino a ben oltre la metà del secolo XIX. 
Malgrado essa, noi vediamo oggi l'impero inglese più 
compatto, più unito, più conscio della necessità di con- 
servare e di intensificare i legami che uniscono le varie 
sue parti quanto non sia stato mai. La « più grande 
Inghilterra » del secolo XVIII è scomparsa; ed al posto 
di essa sono sorti due grandi imperi, tra i maggiori che 
mai si siano visti nella storia : gli Stati Uniti e l'impero 



— 100 — 

inglese. Come accadde il miracolo della risurrezione 
di questa che parve 140 anni fa una cosa morta; e quali 
sono le ragioni per cui gli uomini, che vivono nell'im- 
pero, sono concordi nel volerlo rendere, per quanto 
è possibile in loro, più solido e più forte? Gli imperi 
portoghese, spagnuolo, olandese, francese ed inglese 
dei secoli XVI, XVII e XVIII caddero tutti per cause 
interne. L'urto che venne dal di fuori affrettò soltanto 
un processo di dissoluzione che si era iniziato ed aveva 
fatto grandi progressi all'interno. Potrà darsi che sta- 
volta l'impero inglese cada soltanto per l'urto esteriore 
di una infelice battaglia navale, la quale tolga agli in- 
glesi il dominio del mare. Ma è certo che un disastro 
navale inglese sembrerebbe corrispondere ad una ne- 
cessità storica, parrebbe lo strumento fatale dell'attua- 
zione di un nuovo ideale umano solo quando, come 
dicono i teorici tedeschi, l'impero inglese fosse una 
maschera vuota; una cosa vana e falsa, senza eco nel 
cuore degli uomini. Perchè gli uomini oggi non sono 
disposti a salutare il giorno del disastro navale inglese, 
come quello della liberazione dal dominio della falsità 
e dell 'irrealità? 

Procurerò di esporre, ordinatamente, i principali tra 
i perchè di questo problema storico, che tanto appas- 
siona inglesi e tedeschi e, di riverbero, non può essere 
indifferente a noi. 

Una prima caratteristica dell'Impero inglese è che 
esso non si estende al continente europeo. Dopo l'ama- 
rissima esperienza della guerra dei 100 anni invano 
durata fino al 1453 per soggiogare la Francia, l'Inghil- 
terra ha abbandonato ogni sogno di conquiste imperiali 
europee. Conserva qualche rupe e qualche isola, che 



— IO! — 

ritiene necessarie per la libertà delle sue comunicazioni 
marittime; ma ha restituito le isole Jonie alla Grecia; 
ria evacuato la Sicilia e la Spagna; ha venduto Heligo- 
land. Continua a combattere nelle guerre europee e 
spesso è avversario temibilissimo fra tutti, come nelle 
guerre contro Luigi XVI, contro Napoleone ed oggi 
contro la Germania. Ma il suo scopo non è di conqui- 
stare un dominio su altri popoli europei; bensì di im- 
pedire che uno degli Stati d'Europa acquisti il predo- 
minio sugli altri; il che vorrebbe dire a breve o lunga 
scadenza l'annientamento della sua potenza navale e 
quindi del suo impero extra-europeo. Così operando, 
l'azione oramai secolare dell'Inghilterra coincide con 
l'interesse comune di tutti i popoli d'Europa, salvo di 
quell'uno che vorrebbe acquistare il predominio sugli 
altri. 

Un'altra caratteristica dell'impero britannico, che 
strettamente si allea con quella ora ricordata ed è an- 
ch'essa negativa, si è che esso non è, a parlar propria- 
mente, un impero. Il concetto di un impero non si dis- 
socia dall'idea di una dominazione di un popolo su altri 
popoli soggetti ad un'unica amministrazione centrale; 
in cui tutte le parti obbediscono, almeno nelle linee 
generali, ad una volontà comune, a cui non possono 
sottrarsi se non con una aperta ribellione. Nulla di tutto 
questo nell'impero inglese; di cui le parti vivono di- 
sunite ed indipendenti tra di loro; senza neppure l'ob- 
bligo, almeno per il più gran numero delle colonie, che 
sono quelle autonome, di soccorrere la madrepatria nei 
momenti di guerra. Il Canada, l'Australia, la Nuova 
Zelanda, l'Africe. del Sud sono venute in soccorso del- 
l'Inghilterra perchè così esse vollero; e non perchè così 



— 102 — 

potesse loro comandare la madrepatria. La ribellione di 
alcuni gruppi di boeri nel Sud Africa non sarebbe stata 
una ribellione se il governo del Sud Africa non avesse 
liberamente deciso di prendere le parti dell'Inghilterra. 
Se il governo sud-africano, che emana dalla maggioran- 
za boera del Parlamento locale, avesse creduto oppor- 
tuno di incrociare le braccia, la guerra non sarebbe stata 
proclamata nel Sud Africa e la ribellione non sarebbe 
sorta. Tutto ciò è poco imperiale, poco euritmico e fa 
senso a chi pensi ad un impero nella maniera solita; 
mentre non meraviglia chi ricordi di trovarsi di fronte 
ad una agglomerazione di Stati, uniti da una vaga pro- 
fessione di fedeltà al medesimo sovrano, e tenuti in- 
sieme da vincoli, che sono fortissimi e di fatto spingono 
ad un'azione comune e fìnanco ad una guerra combat- 
tuta solidari amente, solo perchè trattasi di vincoli non 
legali, sibbene morali e spirituali. Ciò che fa esistere 
questa entità indefinibile e strana non è la forza delle 
leggi o delle armi, ma il sentimento di una unità im- 
periale. 

L'impero — ed è questa un'altra delle sue caratte- 
ristiche essenziali, forse quella che dà più ai nervi ai 
grandi teorici tedeschi, i quali concepiscono la missione 
della Germania al dominio mondiale come la attuazione 
di un'idea organica ed organizzatrice di incivilimento 
che la Germania deve, anche colla forza, far trionfare 
sistematicamente sulla terra — è sorto per caso. Fu per 
caso che alcuni gruppi di puritani e di quacqueri, per 
fuggire all'oppressione religiosa in patria, si rifugiarono 
nei territori deserti del Nord-America. Perdute le 13 
colonie, per caso si scopri che il Canada, conservato 
sopratutto per la repugnanza di parte dei coloni inglesi 



103 



ad abbandonare la madrepatria, era un paese di grande 
avvenire. Il Sud Africa fu il prezzo di baratti accidentali 
durante le grandi guerre napoleoniche e poco mancò 
fosse dato alla Svezia. Ancora : l'Australia presa per 
fame una colonia di deportati; la Rodesia conquistata 
da un uomo, Cecil Rhodes, in mezzo all'apatia ed al- 
l'avversione della madrepatria; la Nigeria e l'Africa 
Orientale dovute all'iniziativa indipendente di Sir Geor- 
ge Taubman Goldie e di Sir W. Mackinnon. Persino 
l'India, la maggiore delle colonie inglesi, non fu dovuta 
ad un'opera deliberata del governo britannico. Furono 
compagnie di avventurieri, in lotta con avventurieri 
portoghesi e francesi che, profittando della dissoluzione 
dell'impero del Gran Mogol conquistarono alla madre- 
patria questo immenso dominio. Fnchè durò la conqui- 
sta, fino al celebre ammutinamento del 1857, per un 
secolo quasi non si trovano traccie nel bilancio dello 
Stato inglese di spese fatte per la conquista dell* India. 
Sorto senza una teoria, l'impero inglese vive sovratutto 
grazie al sentimento della convenienza dei suoi abitanti 
di conservare reciproci legami politici e della necessità 
di formare una unità politica più vasta di quella dei 
singoli Stati sostanzialmente indipendenti che formano 
l'impero. 

Uno dei motivi che hanno spinto questi popoli ad 
un'azione comune e che li tengono legati strettamente 
tra di loro è l'appartenenza alla medesima schiatta in- 
glese. Il fondo della popolazione bianca del Canada, 
della Federazione australiana, della Nuova Zelanda, 
della Federazione sud-africana è inglese; il che spiega 
come quegli Stati sentano il bisogno- di tenersi stretti 
alla madrepatria per averne protezione e difesa e per 



— 104 — 

avere la sensazione di partecipare alla vita morale, po- 
litica, religiosa di una grande nazione. Non si tratta più, 
come nel secolo XVII per le colonie nord-americane, 
di gente la quale sia fuggita dalla madrepatria perchè 
aveva un ideale di vita diverso da quello ivi dominante. 
L'ideale nazionale è sempre anglo-sassone e gli abitanti 
di quelle, che noi chiamiamo colonie inglesi ma sono 
in realtà Stati liberi facenti parte dell'impero inglese, 
lo vogliono far trionfare nel mondo e sentono perciò la 
necessità di una stretta comunanza di rapporti con la 
madrepatria e con gli altri Stati dell'impero. 

Vero è che nell'impero vi sono altri nuclei di popo- 
lazione non anglo-sassone; di cui i più interessanti sono 
i Franco-Canadiani del Canada, i boeri del Sud Africa 
e gli Indiani. Ma il modo con cui queste popolazioni 
estranee alla razza britannica sono tenute fedeli all'im- 
pero è una delle più singolari caratteristiche di questa 
formazione storica. Esso si può riassumere tutto nel 
rispetto illimitato, spinto talvolta fino alla esagerazione, 
delle tradizioni di razza e di cultura, e delle autonomie 
e libertà locali. È difficile trovare una popolazione più 
lealista dei franco-canadesi, ai quali le leggi riconoscono 
l'uso della lingua e del diritto francesi, istituzioni par- 
ticolari amministrative, pienissima libertà di governo 
locale e perfetta parificazione nel governo federale. È. 
difficile sottrarsi all'impressione che i franco-canadesi 
abbiano goduto, sotto il cosidetto domnio inglese, di 
una più ampia libertà ed autonomia che non i francesi 
in Francia; e che per vari rispetti il franco-canadese sia 
un'individualità altrettanto originale e potente come il 
francese della madrepatria. Né possiamo dimenticare 
come il primo atto compiuto nel Sud Àfrica dalla na- 



— 105 — 

zione dominatrice, dopo la vittoria cruenta e vogliamo 
anche ammettere odiosa, sia stata la concessione della 
più larga ed assoluta libertà di governo e di ammini- 
strazione ai boeri. Cosicché si potè affermare a ragione 
che una guerra, intrapresa per dare agli inglesi, che già 
lo avevano nel Capo e nel Natal, il predominio anche 
nel Transvaal e nell'Orange, per sottrarre le miniere 
d'oro alle imposte eccessive boere e per aumentare 
quindi i profitti degli azionisti inglesi auriferi ebbe per 
effetto invece : la estensione del dominio della maggio- 
ranza boera dal Transvaal e dall' Orange anche al Capo 
ed al Natal, essendosi le quattro colonie riunite in una 
sola federazione» il cui governo è boero; la permanenza 
e l'incremento delle imposte preesistenti e la diminu- 
zione dei profitti delle miniere aurifere. 

Non voglio, neppure di passata, discutere e risolvere 
il gravissimo problema indiano, problema dalle mille 
faccie, avere affrontato il quale costituirebbe da sola 
la gloria di un popolo. E' però probabile che se la pax 
britannica riuscirà un giorno a ridestare il sentimento, 
oggi inesistente, di una nazionalità indiana tra il con- 
glomerato di genti innumeri, varie per razza, per reli- 
gioni, per lingua, per costumanze che compongono 
l'India, il miracolo si sarà adempiuto perchè l'Inghil- 
terra avrà tenuto fede al programma suo tradizionale 
di rispettare le costumanze, le fedi, il diritto, i regimi 
dei popoli viventi all'ombra della sua bandiera. Nessuno 
può oggi preveder se gli inglesi riusciranno a risolvere 
il problema indiano; certo è che finora nessuno dei 
popoli dominatori, che l'India ebbe, fece tanti sforzi 
e così ostinati e sinceri per risolverlo secondo lo spirito 
e le aspirazioni dell'India medesima. Gli scrittori ger- 



— 106 — 

manici fanno gran colpa agli inglesi di non essere riu- 
sciti a creare nell'India una religione nuova, che desse 
una impronta originale e progressiva a quella antichis- 
sima civiltà. Creda chi vuole, dopo l'insuccesso italiano 
del Sacro Romano impero germanico, e dopo la larga 
eredità di effetti lasciata dagli austriaci nel Lombardo- 
Veneto, alla capacità dei tedeschi di guadagnare le 
popolazioni soggette ai loro ideali spirituali; ma ci con- 
senta di considerare preferibile il metodo inglese, il 
quale permette alle popolazioni dell'India di svilupparsi 
secondo i propri ideali e, mantenendo la pax britan- 
nica, si sforza di introdurre solo quelle idee occiden- 
tali che gli indiani volontariamente sono disposti ad 
accogliere. 

*** 

Coloro che guardano soltanto alle piccole cose, si 
compiacciono di affermare che l'Inghilterra sfrutta 
l'India o l'Egitto o qualche altra colonia perchè queste 
debbono pagare stipendi non piccoli ai proconsoli ed 
ai funzionari inglesi che sono inviati dalla madre- 
patria per l'amministrazione coloniale; ed in aggiunta 
debbono loro pagare larghe pensioni quando essi si ri- 
tirano a riposo. Sarebbe questo, in ogni caso, Y unico 
tributo che l'Inghilterra preleva sulle colonie, anzi sulle 
sole colonie della corona; poiché nelle colonie auto- 
nome l' unico funzionario inglese inviato dalla madre- 
patria e pagato sul bilancio delle colonie è il Viceré 
o Governatore, figura puramente rappresentativa e 
senza alcun potere reale. Ma anche quello non è un 
tributo; poiché per considerarlo tale farebbe d'uopo 
supporre che i servigi forniti dai funzionari inglesi non 



— 107 — 

valessero almeno quanto gli stipendi e le pensioni pa- 
gati dalle colonie. Il che, chiunque conosca quanto più 
costassero i ceti dominanti indigeni prima della con- 
quista inglese e quanto rendessero di meno, non potrà 
ammettere mai. 

La vera caratteristica sostanziale dei rapporti eco- 
nomici e finanziari fra la madrepatria e le colonie in- 
glesi è un'altra : la madrepatria deve essere disposta 
sempre a subire dei sacrifici a favore delle colonie. 
Questa è l'aurea massima che ha consentito finora al 
nuovo Impero inglese di durare : la madrepatria deve 
tutto alle colonie; le colonie non devono essere obbli- 
gate a dare nulla alla madrepatria. Per avere violato 
questa norma fondamentale cadde il più grande Porto- 
gallo, cadde la più grande Spagna, e caddero le più 
grandi Olande, Francie ed Inghilterre dei secoli scorsi. 
Io non voglio fare un merito all'Inghilterra di oggi di 
avere spontaneamente applicata la regola aurea; ma è 
certo che essa ha appreso assai bene la lezione della 
amara esperienza della perdita delle colonie nord- 
america. Da quando essa dovette consentire alla in- 
dipendenza degli Stati Uniti, l'Inghilterra si convinse 
che, per conservare le colonie, non v'era che un solo 
mezzo : essere sempre pronta a spendere largamente 
per la loro protezione navale e militare e per le opere 
ncessarie al loro attrezzamento economico; ma non ri- 
chiedere in cambio alcuna restituzione, sotto forma di 
tributi o di preferenze economiche a proprio vantag- 
gio. Non solo le colonie inglesi non pagano un cen- 
tesimo di tributo alla madrepatria e questa sostiene al 
contrario da sola il carico di spese militari, navali e di 
interessi di debiti pubblici contratti per la protezione 



— 106 — 

dell'impero; ma l'Inghilterra ha consentito alle coionie 
autonome la più ampia facoltà di maltrattare con dazi 
protettivi le merci provenienti dalla madrepatria. Am- 
maestrata dagli insuccessi antichi del regime di prefe- 
renze doganali l'Inghilterra non soltanto consente alle 
colonie di respingere con dei dazi le sue merci; ma non 
pretende neppure di ottenere alcuna preferenza in con- 
fronto alle merci tedesche, italiane, francsi, nord- 
americane. Le colonie autonome, ossia sovr atutto il 
Canada, l'Australia, la Nuova Zelanda e l'Africa del 
Sud, essendo praticamente degli Stati indipendenti, 
possono applicare a favore o contro l'Inghilterra i dazi 
che esse credono più opportuni. E se, in questi ultimi 
anni, grazie al crescente movimento di solidarietà fra 
le parti dell'Impero, le colonie autonome, pure tas- 
sando fortemente le merci inglesi, si decisero a tassarle 
alquanto meno delle altre merci straniere, ciò accadde 
spontaneamente, per iniziativa libera dei parlamenti 
coloniali. 

Io non dico che la lezione della rovina dei grandi 
imperi portoghese, spagnuolo, olandese, francese ed 
inglese dei secoli scorsi fosse molto difficile ad appren- 
dersi; il buon senso dimostrando che, a rendere le co- 
lonie fedeli ed affezionate, giova grandemente il dar 
molto e il non imporre nessun tributo in cambio. È in- 
dubitato però che quella lezione non fu, per sua di- 
sgrazia, appresa dalla Francia, quando dopo il 1870 
ricostituì un impero coloniale, ed è certo che la Spagna 
perdette gli ultimi residui delle sue colonie ed il Por- 
togallo sta apprestandosi la fossa perchè non vollero 
convincersi che gli imperi si costruiscono e si manten- 
gono con sacrifici continui, mentre i benefici possono 



— 109 — 

essere solo indiretti ed ottenuti per lo spontaneo con- 
senso delle colonie. E poiché dovere di chi scrive è 
di usare la più stretta giustizia verso tutti, giova no- 
tare che lo Stato libero del Congo è la dimostrazione 
chiarissima che la politica inglese della porta aperta è 
considerata oramai dagli Stati europei come l'ottima 
fra tutte; e si deve aggiungere che la Germania rese 
omaggio alla dottrina britannica quando, con imperi- 
tura sua benemerenza, ottenne che il Marocco fosse 
un paese aperto a tutte le importazioni straniere a pa- 
rità di condizioni. 

*** 

Su questi fondamenti ed in virtù di queste idee 
fondamentali di libertà, di autonomia, di rispetto illi- 
mitato alla lingua, agli usi, alle leggi dei paesi assog- 
gettati sorse l'Impero inglese. Su questo fondamento, 
quello che era un conglomerato di Stati indipendenti 
sta, sotto i nostri occhi, trasformandosi in un vero im- 
pero. Perchè quella parola « impero », la quale fino 
a qualche anno addietro non aveva quasi significato, 
sta ora acquistandolo. Quei popoli diversi, a cui l'In- 
ghilterra aveva dato un'indipendenza pratica assoluta 
ed insieme l'esenzione da ogni peso tributario per la 
difesa della indipendenza medesima, cominciarono ad 
avere vergogna di se stessi. Come, essi dissero, pos- 
siamo noi continuare a godere della protezione della 
flotta e dell'esercito britannici contro gli assalti dei ne- 
mici stranieri, senza contribuire in nulla alle spese del 
mantenimento della flotta e dell'esercito? Appena 
posto il quesito, la situazione di sfuttatori della madre- 
patria parve alle colonie libere insopportabile. 



— 110 — 

Ma il problema era irto di difficoltà; perchè non 
parve possibile una contribuzione delle colonie alle 
spese imperiali comuni senza una partecipazione delle 
colonie nel governo dell'Impero. Se la costituzione del- 
l'impero inglese fosse il prodotto intellettuale di una 
congrega di dotti o il frutto della conquista di un po- 
polo dominante, il problema sarebbe stato facilmente 
risolubile. Fu relativamente facile dare una costituzione 
al rinnovato impero germanico nelle sale di Versaglia, 
in seguito ad una guerra vittoriosa. Dare una costitu- 
zione all'impero inglese è sommamente difficile; per- 
chè si tratta di creare organi nuovi di governo per un 
impero che non ha finora alcun organo comune, ser- 
bando nel tempo stesso l'indipendenza reciproca sia 
della madrepatria che delle colonie autonome e te- 
nendo conto anche della situazione singolarissima del- 
l'India e delle colonie della corona. Come al solito, gli 
inglesi cercano di risolvere il problema alla meglio, con 
temperamenti pratici, senzia costruire nessuna nuova 
teorìa alla maniera tedesca o francese. Che cosa na- 
scerà fuori dalle conferenze imperiali dei primi mi- 
nistri inglesi e coloniali che si vanno periodicamente 
convocando e costituiscono l'iniziale, informe e finora 
unico organo di governo comune imperiale, non si sa. 
Forse è inutile preoccuparsi di prevederlo, perchè la 
nuova costituzione imperiale probabilmente non sarà 
mai scritta in uno statuto, ne potrà dare occasione a 
nessuna elegante ed euritmica costruzione di diritto 
pubblico alla foggia germanica. Sarà una costituzione 
formatasi gradualmente, quasi a caso, per rispondere 
a bisogni immediati, rafforzata dall'interesse degli Stati 
confederali, cementata dal sentimento e dalla consue- 
tudine. Sarà una cosa bizzarra ed irregolare; un per- 



fezionamento di quella magnifica creazione spontanea 
che è l'attuale impero britannico. 

Anche esso, forse, quando gli inglesi avranno per- 
duto le loro virtù odierne e quando la dissoluzione in- 
terna sarà cominciata, andrà col tempo distrutto. Nes- 
sun impero è perpetuo. Sulle rovine dell'impero in- 
glese forse sorgeranno altri imperi più belli, più utili 
all'umanità. Se in quel giorno gli italiani avranno sa- 
puto perfezionare se stessi ed acquistare le energie 
intime che creano i grandi imperi, essi dovranno ri- 
cordarsi che il loro orgoglio maggiore dovrà consistere 
nel creare un tipo di organizzazione politica più per- 
fetto e più alto dell' impero inglese. Poiché questo e 
non il Sacro Romano Impero e non l'Impero Germa- 
nico odierno e non lo Stato francese napoleonico è il 
vero erede spirituale ed il perfezionatore della più bella 
creazione politica che il mondo abbia visto : l'impero 
romano. Al pensiero che un disastro navale dovuto alla 
fortuna di guerra può mettere in forse il processo stu- 
pendo di cementazione politica dell'impero britannico, 
il quale si sta oggi compiendo e che è straordinaria- 
mente accelerato dalla guerra ci stringe il cuore. Poiché 
quel disastro navale sarebbe un'offesa alla civiltà: e noi 
italiani, se vogliamo conservare la speranza di essere 
un giorno i creatori di una nuova civiltà più perfetta, 
abbiamo bisogno che si rafforzino nel mondo le forme 
più perfette e libere di organizzazione politica : tra le 
quali niente di più meraviglioso, di più spontaneo, di 
più vivo e mutevole, di più atto a suscitare la nostra 
emulazione e di meno geloso di essa, oggi esiste del- 
l' impero britannico. 

(Dal Corriere della Sera, 18 e 19 gennaio 1915). 



APOLOGIA DI WILSON 

Torino, 24 ottobre 1914. 
Caro Prezzoli™, 

ì'erchè lei è così ingiusto verso il presidente Wil- 
son? Per chiamarlo « ipocrita » bisognerebbe dimo- 
strare che egli ostenta sentimenti onesti, alti, umani- 
tari ed agisce da egoista e da cialtrone; per dirlo « truf- 
fatore all'americana » occorrerebbe che egli avesse car- 
pito il voto degli elettori americani ed il favore degli in- 
genui europei promettendo, quando era candidato, di 
agire in un modo ed operando diversamente quando 
giunse al potere. 

1 fatti non consentono finora, di esprimere un giu- 
dizio di queso genere; ossia i fatti finora accaduti (di 
quelli che potranno accadere in futuro, non so nulla) 
mi persuadono che sulla scena politica nord-americana 
non è comparso, dopo Lincoln, nessun presidente così 
sincero, fedele ai propri programmi, coraggioso e fer- 
vido nell'operare come Wilson. Ignoro se, dopo ed 
astrazion fatta da Cavour, in Italia sia sorto un uomo 
politico paragonabile al signor Wilson; ne se 1* Inghil- 
terra possa vantare, dopo Roberto Peel e Gladstone, 
uomini da mettersi a pari di lui. 

Qui non si tratta di simpatie, ma di fatti; ed i fatti 
sono quattro : riforma della tariffa doganale; riforma 



— 114 — 

della circolazione monetaria; canale di Panama e 
Messico. 

I. Riforma della tariffa doganale. — Da ventanni 
la si aspettava; e da ventanni tutti i partiti l'avevano 
messa nel proprio programma, salvo a non fame nulla 
quando giungevano al potere. L'ultima volta che i de- 
mocratici furono al governo, col presidente Cleveland, 
— e vi erano giunti promettendo il ribasso delle tariffe 
doganali affamatoci — si vide questa vergogna indi- 
cibile : che il progetto originario, concepito nel senso 
di una maggiore libertà doganale, venne per l'influenza 
degli interessati, potentissimi nella stampa e nei cor- 
ridoi della Camera e del Senato, imbrogliato in modo 
da cagionare un aumento della protezione. I due ultimi 
presidenti repubblicani non avevano osato affrontare il 
problema : Taft era debole e Roosevelt preferiva ap- 
prestarsi a fare, tra una presidenza ed una campagna 
elettorale, il domatore dei leoni ed il nemico, frattanto 
ed a parole, dei trusts, guardandosi però bene di mi- 
narne il piedistallo e cioè la tariffa doganale. Il signor 
Wilson, un semplice professore, arrivato da pochissimi 
anni nella politica, promise agli elettori che avrebbe 
ribassato le tariffe. E mantenne. Assunse l'ufficio il 
4 marzo 1913 e nell'autunno del 1913 la tariffa era ri- 
bassata. Nessuno credeva che ci sarebbe riuscito. Do- 
vette far star a segno il turbolento Senato minacciando 
e facendo eseguire inchieste sul modo con cui gli in- 
dustriali protetti si procacciavano i voti dei senatori. 
La riforma di Wilson non è ancora il libero scambio 
puro; ma non lo erano nemmeno, da sole e in sul prin- 
cipio, le riforme di Huskisson, di Peel e di Cavour. 
È certo però che egli in pochi mesi ha fatto nel suo 



— 1 15 — 

paese fare all'idea più cammino di quanto non aves- 
sero fatto più generazioni di politicanti. 

II. Riforma della circolazione monetaria. — È un 
argomento tecnico, non facile a spiegarsi in breve; e su 
cui è inutile diffondersi qui. Basti dire che se la riforma 
tariffaria fu opera grande, questa fu forse ancor più 
grande. La legislazione monetaria nord americana era 
una cosa deplorevole. In tempi difficili, di guerra e di 
crisi economica, provocava il panico, demoralizzava le 
borse ed il commercio; arrestava la vita economica. Da 
anni, da decenni, tutti ne erano persuasi; tutti grida- 
vano che bisognava riformare. Ma nessuno osava far 
niente. Il sistema vigente, dannoso ai più, era utile ad 
alcuni pochi. 

II signor Wilson promise di far qualcosa; e man- 
tenne la parola. In questi mesi si stanno appunto già 
organizzando le banche di riserva, che egli riuscì a far 
votare dal Congresso e che sono il nucleo di tutta una 
nuova organizzazione bancaria e monetaria più agile, 
più perfetta, più adatta ai bisogni del paese. E tutti 
sono persuasi che senza la fermezza di volontà, la capa- 
cità di persuasione, la dirittura del carattere, la noncu- 
ranza di tutto ciò che è parlamentarismo, amore della 
vita tranquilla, politica di corridoio, che sono caratteri- 
stiche del signor Wilson, questa grande riforma non 
sarebbe un fatto. 

III. Canale di Panama. — In virtù del trattato 
Clayton-Bulwer del 1850 e del trattato Hay-Pauncefote 
del 1901 gli Stati Uniti, in compenso di importanti van- 
taggi ottenuti dall' Inghilterra, si erano obbligati, qua- 
lora essi avessero costruito un canale attraverso ristmo 
di Panama, a garantire uguaglianza di trattamento alle 



6 — 



navi di tutti i paesi del mondo. Quando il canale era 
prossimo al compimento, il congresso americano votò 
ed il signor Taft sanzionò il 24 agosto 1912 una legge 
con la quale si concedeva un trattamento di favore alle 
navi americane. Era una manifesta violazione del trat- 
tato, violazione operata nell'interesse del naviglio ame- 
ricano ed a danno della bandiera inglese, tedesca, fran- 
cese, italiana ecc. ecc. Ma, purtroppo, non v'era ri- 
medio. Nessuno poteva costringere gli Stati Uniti a ri- 
mangiarsi la legge. L'Inghilterra protestò per via diplo- 
matica, invocò un arbitrato; ma erano proteste plato- 
niche. Gli Stati Uniti non hanno nulla da temere dal- 
l'Europa; e se vi è cosa certa al mondo, è questa : che 
mai e poi mai l'Inghilterra oserà mettersi in contrasto 
con gli Stati Uniti. Sarebbe la rottura sicura dei legami 
teorici che l'avvincono ancora al Canada. 

Era però uno scandalo che gli Stati Uniti mancas- 
sero così sfrontatamente alla parola data. Ma era uno 
scandalo voluto. Il signor Taft aveva trovato gli op- 
portuni protesti legali; la maggioranza del Senato 
— che in materia di trattati internazionali è, in virtù 
della costituzione, onnipotente — gioiva di aver potuto 
fare un dispetto all'Inghilterra; i protezionisti trionfa- 
vano; l'opinione pubblica strepitava al pensiero che 
gli stranieri (inglesi, francesi, italiani e via dicendo) po- 
tessero passare attraverso il canale alle stesse condizioni 
degli americani che ne erano i costruttori ed i legittimi 
proprietari. Il signor Wilson pensò invece che qui si 
trattava della firma del suo paese e di un debito d'o- 
nore. Gli Stati Uniti avevano promesso parità di tratta- 
mento a tutte le nazioni del mondo. Gli Stati Uniti 
potevano infischiarsi della parola data e ridere sul muso 



— 117 — 

ai diplomatici protestanti. Nessuno avrebbe torto un 
capello ad un solo americano. Appunto poiché nes- 
suno poteva pretendere il mantenimento della parola 
data ed appunto perchè la maggioranza della stampa, 
della cosidetta opinione pubblica americana, dei gin- 
goisti ecc. ecc. plaudiva al bello scherzo fatto agli stra- 
nieri, il signor Wilson presentò un disegno di legge per 
revocare la legge Taft. E riuscì a farlo approvare. Oggi, 
grazie a lui, le navi italiane, che passeranno attraverso 
al canale di Panama, pagheranno le stesse tariffe di 
passaggio delle navi nord-americane. Una rivista inglese 
(non una rivista americana) commentando questo straor- 
dinario risultato, conclude : « Pagare i debiti d'onore 
è stato sempre fatto rarissimo tra gli Stati sovrani. Colla 
revoca della legge Taft l'America ha dato un esempio 
di condotta onorevole e diritta al mondo civile ». 

IV. Messico. — Che cosa avrebbe fatto un altro al 
posto di Wilson? È impossibile negare che il Messico, 
quando il signor Wilson venne al potere — ella non 
vorrà chiamarlo responsabile degli atti dei suoi ante- 
cessori ed avversari — era, rispetto agli Stati Uniti, un 
vicino più fastidioso della Serbia per l'Austria, del Ma- 
rocco per l'Algeria, del Transvaal per la Colonia del 
Capo. Gli abitanti di un paese, solo perchè vi son nati 
dentro, non possono pretendere di malversare i doni 
naturali che la provvidenza ha voluto largire alle loro 
terre ed essere una ragione perenne di pericoli e di di- 
sturbi per i paesi vicini, i quali vorrebbero conservare 
con quel paese pacifiche relazioni di commercio e di 
industria. Che cosa avrebbe fatto uno Stato Europeo 
potente che si fosse trovato vicino ad uno Stato più 
debole e turbolento, con l'assoluta sicurezza di non in- 



18 



contrare nessuna opposizione, neppure verbale, da parte 
di nessun altro Stato potente? Sarebbe saltato addosso, 
colle buone o colle cattive, con la forza o con l'astuzia, 
allo Stato debole e se lo sarebbe annesso o ne avrebbe 
fatto un suo protettorato. È, quasi certo, date le idee 
dominanti nelle classi politiche europee, che la stessa 
sorte sarebbe capitata al paese debole, anche se questo 
fosse stato un modello di ordine, di buona amministra- 
zione e di compostezza nei rapporti internazionali, sem- 
pre fatta l'ipotesi della certezza dell'impunità. 

Che cosa avrebbero fatto Taft e Roosevelt, se si fos- 
sero trovati al posto di Wilson? Avrebbero colto, senza 
scrupolo, i frutti della loro precedente politica rispetto 
al Messico. Che io mi sappia, non fu il Wilson a pro- 
vocare la caduta di Porfirio Diaz nel Messico e le sus- 
seguenti rivoluzioni. Non fu egli ad incoraggiare i 
trust americani ed i soliti banditi della finanza inter- 
nazionale ad impiantare industrie nel Messico per avere 
il pretesto d'invocare la protezione degli Stati Uniti. 
Come si è sempre costumato dal governo nord-ameri- 
cano e dai governi europei, scoppiati i torbidi, gli ante- 
cessori di Wilson sarebbero intervenuti per chiedere 
enormi indennità e per trovare un pretesto di intervento 
e di protettorato nella incapacità del Messico a pagare 
senz'altro tutto ciò che i nord- americani chiedevano. 

Che io mi sappia, il signor Wilson non ha fatto nulla 
di tutto questo. Prima di essere eletto, egli aveva pro- 
clamato che la politica nord-americana di tutelare ed 
appoggiare le pretese dei suoi connazionali nei paesi 
stranieri era falsa e dannosa; ed aveva avvertito gli elet- 
tori che l'intervento doveva avvenire secondo principi 
diversi. Gli Stati Uniti non dovevano cioè farsi i pala- 



— 119 — 

dirvi dei loro nazionali nella richiesta indennità per pre- 
tesi malefici sofferti. No, i nord-americani dovevano 
sapere che andando al Messico, nel Venezuela, nel 
Costarica correvano i rischi del paese : ossia correvano 
il rischio di governi cattivi, di magistrature pessime ecc. 
ecc. Sapendo tutto ciò, non potevano pretendere dal 
loro paese alcuna tutela contro le conseguenze inevi- 
tabili di circostanze che dovevano valutare prima. L'u- 
nica ragione di lagnanza che potevano avere i nord- 
americani nei paesi arretrati era quella di non essere 
governati da governi indigeni regolarmente nominati 
secondo le leggi del paese. Di qui l'origine del contegno 
che il Wilson tenne in confronto al Messico : il rifiuto 
di riconoscere un governo che non fosse eletto secondo 
le norme della costituzione messicana. Egli non appog- 
giò Carranza contro Huerta, perchè il primo fosse suo 
amico ed il secondo no. Lo avversò perchè Huerta non 
era un presidente eletto; ed egli voleva avere a che fare 
con un presidente eletto secondo le norme del paese. 
Se si guarda bene, questo contegno non solo era con- 
forme ai principi posti nel suo programma elettorale, 
ma è contegno diametralmente opposto agli interessi 
dei fautori dell'intervento nel Messico. Almeno agli 
Stati Uniti lo interpretano così; ed a ragione. I trusts 
nord- americani, i quali avevano provocato e fomentato 
la rivolta nel Messico, speravano che il Presidente in- 
tervenisse e proclamasse il protettorato od in altro modo 
riducesse il Messico alla sua mercè, allo scopo di poter 
pretendere indennità d'ogni sorta, concessioni (di pe- 
trolio) a favore proprio e revoche di concessioni agli 
inerì esi. 



20 



Invece il Wilson ai fautori dell'intervento disse e dice 
ancora : io posso chiedere e chiedo solo un governo 
regolare. Se poi questo governo regolare non vi darà 
le indennità e le concessioni che desiderate, ammini- 
strerà una giustizia antipatica, è affar vostro, lo non 
c'entro. Non dovevate andare in un paese, che sapevate 
non essere governato come il paese vostro. 

Che io sappia, questo è il linguaggio del Wilson ai 
gruppi capitalisti del suo paese. Le truppe nord-ame- 
ricane finora non si sono mosse da Vera-Cruz, dove 
sono scese per protestare contro un sfregio alla bandiera 
nord-americana. Il Messico non è una colonia degli 
Stati Uniti; la guerra non è scoppiata; e non vi è pro- 
babilità che scoppi. Proseguono le trattative pacifiche 
per regolare il governo del paese. Indennità non sono 
state chieste ne date ai privati industriali per danni ar- 
recati alle loro intraprese. 

Può darsi che la politica del signor Wilson rispetto 
al Messico muti in avvenire. Se stiamo però ai fatti 
finora accaduti, essa non può essere giudicata ne ipo- 
crita ne truffatrice. Gli imperatori ed i re ed i presidenti 
europei, che avevano l'amore della pace al sommo della 
bocca ogni altro giorno, hanno scatenato una guerra 
terribile; il signor Wilson che ha forse firmato qualche 
trattato di arbitrato, ma non ha redatto troppi telegram- 
mi pacifici, finora ha cercato di non fare la guerra al 
Messico, non ne ha distrutta la indipendenza ed ha 
fatto tutto il possibile per promuovere la formazione 
di un governo messicano solido e stabile e perciò capace 
di resistere alle pressioni dei futuri presidenti nord- 
americani. 



12 



Lei potrà dire che il principio di Wilson è ingenuo, 
è inattuabile, non che il Wilson non abbia fatto ogni 
onesto possibile sforzo per attuarlo. I lanzichenecchi 
della finanza in America dicono che il Wilson è un pro- 
fessore, il quale si è fisso in capo di applicare le sue 
teorie anche al Messico. Tutti coloro, i quali vogliono 
cacciare le grinfie nelle tasche altrui, se trovano un uomo 
di Stato, deciso ad impedire le loro male fatte, dicono 
che è un professore ed un teorico. Come se in parecchie 
parti del mondo, non fossero precisamente i professori 
a fare d'ogni erba fascio, appena arrivano al potere. Io 
dico che nei riguardi del Messico il Wilson applica una 
teoria utile alle grandi masse nord-americane, ai veri 
lavoratori, commercianti ed industriali degli Stati Uniti. 

Quando egli dice di desiderare un governo onesto 
e regolare pel Messico, perchè ciò darebbe la pace e 
la ricchezza ai messicani, possiamo anche credere che 
egli ripeta un luogo comune, il quale fiorisce sulla bocca 
di tutti i conquistatori : anche nei. proclami odierni 
dei russi, degli austriaci e dei prussiani. Ma quando egli 
afferma che tutte queste cose egli le vuole nell'interesse 
della grande maggioranza inconsapevole e silenziosa dei 
suoi concittadini, dei coloni, degli industriali, dei com- 
mercianti nord-americani e le vuole in contrasto alla 
piccola minoranza, potente e rumorosa, dei cacciatori 
nord-americani di concessioni e di privilegi, noi dob- 
biamo ammettere che qui si inizia uno sperimento nuovo 
nella storia dei rapporti degli Stati potenti con gli Stati 
deboli e semi-organizzati. Finora tanto il governo nord- 
americano come i governi europei hanno creduto che 
fosse dovere strettissimo della diplomazia e delle armi 
di difendere coloro che in Turchia, in Cina, nelle re- 



— 122 — 

pubbliche del centro e del sud America, nell'Africa 
avevano per fas o per nefas ottenuto concessioni di 
miniere, di ferrovie, di porti, di foreste, identificando 
1 interesse di costoro con l'interesse del proprio paese. 
Viene Wilson e dice : non so se l'interesse di costoro 
sia la stessa cosa dell'interesse degli Stati Uniti. Od al- 
meno so cne i due interessi coincidono solo in quanto 
i concessionari non pretendono privilegi e protezione 
per se (capitolazioni in Turchia), ma si limitano a voler 
vivere sotto un governo regolare, il quale amministri 
secondo le leggi del paese. Questo è il solo interesse 
degli Stati Uniti. Se i governi indigeni non piacciono 
ai miei concittadini, se ne vadano via dal Messico. Se 
vogliono restarci, procurino di agire dal "di dentro, mi- 
gliorando i ceti governanti e le leggi indigene. Finche 
i governi sono eletti nelle maniere costituzionali, io ri- 
conoscerò i governanti indigeni e non mi lagnerò del 
modo da essi tenuto nell' amministrare le leggi del 
paese. 

Chi parla ed agisce così, non può essere chiamato 
un ipocrita. Potrà diventarlo in avvenire; ed io non 
faccio nessun pronostico al riguardo, tanto più che è 
vivissimo negli Stati Uniti il malcontento di gruppi po- 
tenti contro il Wilson per la sua condotta e potrà darsi 
che egli non sappia o non possa resistere sino alla fine 
alla loro pressione. Comunque vada a finire, lo speri- 
mento è degno della massima attenzione e del maggiore 
rispetto. Non sembra anche a Lei? 

(Da La Voce ,13 novembre 1914). 



DEMOCRAZIA, COLLETTIVISMO E GUERRA 

Lno dei luoghi comuni, che si sentono più comu- 
nemente ripetere intorno alla presente guerra, dice che 
essa è una guerra combattuta tra il progresso e la rea- 
zione, tra la libertà e la schiavitù, tra le nazioni demo- 
cratiche, dove al potere sono i radicali e i radicali-so- 
ciaiisti, come la Francia e l'Inghilterra, e le nazioni 
aristocratiche, come la Germania e l'Austria, dominate 
ancora da classi feudali e dove i partiti d'avanguardia, 
ossia i socialisti, sono messi al bando dal governo. 

È diffìcile poter dare un giudizio sicuro su queste 
affermazioni generiche, sovr atutto perchè è quasi im- 
possibile definire con precisione che cosa vogliono dire 
le parole « libertà », « progresso », « reazione », « de- 
mocrazia », e simigliatiti astrattezze. Ma non è impos- 
sibile porsi un problema più concreto, che sarebbe il 
seguente : supponendo che il progresso sia caratteriz- 
zato dal passaggio dalle idee e dai partiti di destra 
alle idee e ai partiti di sinistra, supponendo cioè che sia 
esatta la terminologia ordinaria della maggior parte dei 
giornali italiani e dei loro lettori, i quali considerano 
un'idea, un programma tanto più « moderno », « pro- 
gressivo », « avanzato », « illuminato », quanto più si 
avvicina alle idee e ai programmi dell'estrema sinistra 
e particolarmente dei socialisti, i quali formano l'ala più 
avanzata dell'estrema; supponendo che siano corri- 
spondenti a realtà gli elogi di « audacia » e di « moder- 



— 124 — 

nità » e di « illuminismo >> che si rivolgono dall'opinione 
pubblica ordinaria agli uomini di governo conservatori, 
i quali fanno proprio il programma dei socialisti o ta- 
luni punti di esso e dimostrano così che il socialismo 
non è un appannaggio esclusivo dei socialisti, ma quel 
che c'è di buono in esso, e sarebbe quasi tutto — salvo 
la violenza, la rivoluzione, la lotta di classe, salvo cioè 
i mezzi per ottenere il fine — è un ideale comune a tutti 
i partiti; supponendo tutto questo, che oramai è patri- 
monio del pensiero democratico più avanzato; quale 
dei due gruppi combattenti, il blocco austro-tedesco o 
la triplice intesa, si avvicina maggiormente alla conse- 
cuzione dell'ideale sovra menzionato e deve quindi 
essere reputato come il campione della civiltà e del 
progresso? 

Naturalmente, col porre il quesito in cotal maniera, 
non voglio affermare che quella posizione risponda al 
mio modo di pensare, né che essa sia vera ed esatta, 
essendo chiara invece l'impossibilità della accettazione 
di quelle premesse da parte mia. Voglio soltanto porre 
il problema in un modo qualunque che sia compren- 
sibile, e che, per la sua corrispondenza al modo cor- 
rente e comune di pensare e di parlare in Italia, possa 
farci alla meglio uscire fuori dal complicatissimo imbro- 
glio di definire il « progresso », la « democrazia », la 
« modernità n e altrettanti parole. 



Se poi partiamo da questa premessa, appare subito 
evidente che almeno una delle potenze appartenenti 
alla triplice intesa deve essere senz'altro esclusa del no- 
vero dei paesi progressivi e moderni : ed è la Russia. 



— 125 — 

Non perchè in Russia si adoperi il fenur, o vi sia lo Zar 
ed accadano dei progroms di israeliti. Tutto ciò può 
essere variamente giudicato e non può essere conside- 
rato come un indizio specifico di reazione, quando in 
Francia, a cui tutti guardano come all'antesignana della 
democrazia, sono o erano prima della guerra in tanto 
onore i progetti di cacciata e di persecuzione fiscale 
degli operai stranieri. L'esilio e la esclusione dalla terra 
e dal fuoco sono sempre stati nella storia metodi sim- 
paticissimi alle democrazie più evolute. La vera ragione 
per cui non vi è dubbio che la Russia deve essere repu- 
tata un paese reazionario sta in ciò, che le classi domi- 
nanti sono riuscite astutamente a iniziare ed a condurre 
innanzi su vasta scala la distruzione di un istituto socia- 
listico per eccellenza : la proprietà collettiva della terra. 
Fino a pochi anni or sono la, terra in. Russia, per quella 
parte che non apparteneva alla nobiltà o allo Stato — 
e quest'ultima, estesissima, era anch'essa proprietà col- 
lettiva — apparteneva quasi interamente ai mir, ossia 
alla collettività dei contadini del comune, ed era colti- 
vata secondo regole collettivistiche. Attraverso ai se- 
coli, i contadini russi erano riusciti a conservare intatta 
la fiamma dell'ideale collettivo, ricongiungendo gli ul- 
timi e più moderni postulati della scienza occidentale 
coi mitici ricordi dell'età dell'oro. Tutto questo magnifico 
edificio va ora sgretolandosi ad opera delle reazionarie 
classi dominanti; le quali, giovandosi di vani pretesti, 
come sarebbe la mala coltivazione dei terreni dei mir, 
approfittarono del momento in che dalla Duma erano 
stati espulsi gli. spiriti più audaci e rivoluzionari, per 
decretare l'abolizione del vincolo della proprietà col- 
lettiva e per autorizzare ed in varie maniere aiutare e 



— 126 — 

promuovere la divisione della proprietà comune dei mir 
in proprietà individuali private dei contadini. Questi, 
avidi di terra, abboccarono all'amo teso loro dalle classi 
conservatrici, vogliose soltanto di creare attorno a sé 
una guardia del corpo dei piccoli proprietari contro i 
moti degli operai progressivi e industriali della città. 
Così si sta oggi commettendo il più grande delitto so- 
ciale del nuovo secolo : la distruzione del regime col- 
lettivo della proprietà in Russia. Quando i partiti socia- 
listi d'avanguardia prevarranno in quel paese, dovranno 
durare sforzi colossali per ricostituire quegli istituti che 
la reazione ha oggi distrutto. Come si può, dopo ciò, 
sostenere che la Russia sia un paese democratico? 



Tra l'Inghilterra e la Francia da un lato e la Germa- 
nia e l'Austria dall'altro non vi è possibilità di dubbio 
nella scelta. Noi non possiamo invero considerare come 
antesignani del progresso e delle idee avanzate quei 
paesi i quali vanno a scuola di progresso e di socialismo; 
bensì quelli che insegnano agli altri il verbo novello e 
sono i pionieri delle sue feconde applicazioni. 

Ora è indubitato che non la Francia e l'Inghilterra 
hanno insegnato alcunché altrui; sibbene esse sono state 
rimorchiate dalla Germania; ed è certissimo che la ini- 
ziatrice delle riforme sociali più moderne, la antesi- 
gnana del collettivismo è la Germania. II generale von 
Bernhardi non è solo quando assevera che, per consenso 
universale, la Germania occupa il primissimo posto, 
innanzi a tutte le altre nazioni, nel socialismo scienti- 
fico. Veramente il bravo generale attribuisce alla Ger- 



— 127 — 

mania il primo posto nelle scienze economiche Ma è 
evidente che si tratta di un lapsus calami dell'illustre 
scrittore pangermanista. È impossibile che egli potesse 
considerare degne di nota le analisi dei Gossen, dei 
Bohm Bawerk, dei von Wieser, ecc., che possono pa- 
rere finissime solo ai seguaci della economia classica 
inglese; ne è presumibile che egli volesse lodare le di- 
mostrazioni, serrate ed elegantissime bensì, ma troppo 
intinte di manchesterrianismo, con cui il Dietzel addi- 
tava i danni della politica doganale tedesca odierna. 
È chiaro che il Bernhardi voleva alludere a Carlo Marx 
ed ai suoi interpreti e commentatori Schmoller e Wagner 
e rispettivi discepoli, saliti agli onori delle cattedre uni- 
versitarie, grazie a quella intima fusione, purtroppo non 
abbastanza apprezzata all'estero, che in Germania si 
nota fra tutte le classi sociali, per cui il vangelo delle 
classi proletarie è divenuto carne della carne della 
scienza universitaria. Nella sola Germania è avvenuto 
che il pensiero economico si sia talmente imbevuto di 
socialismo, da far quasi del tutto dimenticare l'antica e 
reazionaria Economia politica, ormai condannata a me- 
ritato oblio e sostituita) dalla nuova e moderna « scienza 
economica socialista » o, più brevemente, « socialismo 
scientifico. Non l'orgoglio tedesco, ma il consenso uni- 
versale addita nella Germania l'innovatrice profonda nel 
campo scientifico economico e l'iniziatrice delle riforme 
sociali più audaci. Chi, se non Carlo Marx, ha dimo- 
strato che la scienza economica inglese degli Smith, dei 
Malthus, dei Ricardo, dei Senior era un volgare trucco 
delle classi capitalische e plutocratiche per tenere a 
bada nella miseria le classi proletarie? Chi, se non Carlo 
Marx, ha esposto la nuova teoria del valore, dimostran- 



— 128 — 

do che esso non ne altro che lavoro coagulato e che 
quindi solo il lavoratore ha diritto all'intiero valore delle 
merci da lui solo prodotte? Chi, se non lui, ha detto : 
operai di tutto il mondo, organizzatevi!) 

L'organizzazione, ecco la grande scoperta della Ger- 
mania moderna, che tutti gli altri paesi vanno a gara 
ad imitare. Organizzazione, che vuol dire sforzo col- 
lettivo e cosciente, organizzato in vista di un fine comu- 
ne, senza mire particolari, per il raggiungimento del 
maggior benessere della collettività. Neil* applicare il 
principio collettivista dell'organizzazione, tutte le classi 
sociali sono concordi. I socialisti italiani si sono mera- 
vigliati della quasi unanimità con cui i socialisti tedeschi 
hanno appoggiato il governo imperiale in occasione 
della odierna guerra. Ma chi abbia letto e meditato il 
volume di Roberto Michels su La Sociologia del partito 
politico nella democrazia moderna (Torino, U. T. E. T ., 
1912) non ha provato alcuna meraviglia. Come si voleva 
che la democrazia sociale tedesca, dopo avere consu- 
mato tanti anni, tanti sforzi e tanto denaro per creare 
una organizzazione di partito, di leghe operaie socia- 
liste, di propaganda, di stampa, tanto minuta e perfetta, 
dopo aver costituito una gerarchia così bene conge- 
gnata, così solidale, così agevolmente manovrabile dai 
capi supremi, potesse arrischiare di distruggere l'opera 
propria col permettere l'introduzione in Germania, al 
seguito degli eserciti francese ed inglese, dello spirito 
di individualismo, di anarchia, di irrequietudine, pro- 
prio degli « agitati » compagni d'oltre Vosgi, o d'oltre 
Manica? Essi, i socialisti tedeschi, ben sanno che il 
socialismo di marca francese è tutta spuma e si esau- 
risce nei discorsi incendiari e nella violenza; mentre in 



— 129 — 

realtà è lo strumento, non si sa se inconsapevole, del- 
l'alta finanza parigina. I socialisti o meglio gli anar- 
chici francesi sono le scolte del capitalismo individua- 
listico e reazionario. Mentre in Germania le cose vanno 
ben diversamente. Tutto è organizzato: il capitalismo 
e lo Stato. 1 capitalisti hanno imparato che era inutile 
farsi concorrenza, coi solo scopo di danneggiare la col- 
lettività, sovratutto la collettività dei lavoratori; ed 
hanno costituito, in ogni ramo industriale, i cartelli o 
sindacati, mercè i quali la produzione è organizzata in 
modo scientifico e moderno. In nessun paese del mondo 
il capitalismo è proceduto tant'oltre sulla via della or- 
ganizzazione collettivistica; in nessuno la concorrenza, 
con la unificazione delle imprese, è stata egualmente ri- 
dotta al minimo. In nessuno è così breve il passo ne- 
cessario a farsi affinchè i lavoratori organizzati dal par- 
tito socialista possano partecipare e alla perfine dive- 
nire i dirigenti dell'organizzazione industriale e com- 
merciale. 

Lo Stato, spinto dalla fervida parola degli Schmoller 
e dei Wagner e degli altri socialisti della cattedra, ha 
compiuto anch'esso miracoli sulla via del collettivismo. 
A non parlare delle foreste, delle ferrovie e delle mi- 
niere di ferro e di carbone e di potassa che gli Stati 
tedeschi esercitano meravigliosamente, lo Stato germa- 
nico ha potentemente aiutato — con dazi protettivi, con 
un'equja distribuzione nelle ordjinazìioni di rotaàe, di 
materiale mobile ferroviario, di navi da guerra e di 
quant' altro gli occorre — gli industriali tedeschi a for- 
marsi una coscienza collettiva. Ormai essi sono abituati 
a seguire un indirizzo comune; non più lavorano sol- 
tanto per conseguire un utile e per sfruttare gli operai, 



— 130 — 

come nei paesi dove domina ancora l'individualismo 
reazionario. No; essi lavorano per la consecuzione di 
un fine comune, secondo le linee di massima stabilite 
dal governo, come rappresentante della collettività; e 
se ottengono spesso utili ingenti, superiori a quelli dei 
concorrenti inglesi o francesi o italiani, quegli utili sono 
il meritato compenso dell'azione sviluppata nell'inte- 
resse comune; non sono il profitto del capitalista, ma 
quasi l'onorario di chi conserva ancora del capitalista 
le parvenze esteriori, ma in realtà è già la crisalide di 
un futuro ministro o funzionario della produzione in 
uno Stato collettivista. 

La stessa coscienza degli interessi collettivi la Ger- 
mania ha cercato di ispirarla nelle -masse lavoratrici, 
mercè la meravigliosa legislazione sociale, di cui essa 
è indiscutibilmente la maestra al mondo. Poiché si può 
essere scettici intorno al valore degli altri contributi 
politico-sociali dati dalla Germania airincivilimento 
mondiale. Si può considerare la creazione dell* impero 
tedesco come un fatto di prim'ordine solo dal punto di 
vista storico e come mediocre il suo valore dal punto 
di vista del tipo di organizzazione politica. Si può quin- 
di credere che la unità germanica valga moltissimo ma 
non più dell'unità italiana o francese; e che la forma 
politica dell'impero sia un adattamento, ne migliore ne 
peggiore di un altro, alle esigenze del momento. Ma 
nessuno può negare che la legislazione sociale tedesca 
sia quanto di più collettivisticamente complesso, di più 
tecnicamente perfetto sia mai stato attuato nel mondo : 
con le sue assicurazioni contro gli infortuni, la malattia, 
la invalidità e la vecchiaia, con i suoi sanatori, i suoi 
ospedali, i suoi parchi di convalescenza, i suoi investi- 



13 



menti in case popolari, in opere di pubblica utilità, il 
sistema assicurativo tedesco forma un tutto armonico, 
con tutti gli elementi del meccanismo meravigliosa- 
mente ingranati uno nell'altro, il quadro migliore di ciò 
che su scala più vasta sarà in avvenire la società col- 
lettivistica organizzata del mondo intiero. 

Le masse operaie ne sono così persuase che esse si 
rifiutano, per noni perdere i bentefizi della mutualità e 
delle assicurazioni sociali, ossia del collettivismo in 
azione, ad abbandonare il suolo germanico. Da quando 
in Germania invero si è iniziata l'attuazione del nuovo 
regime sociale, i tedeschi più non emigrano. Invece 
delle parecchie centinaia di migliaia di emigranti del- 
l'epoca feudale e capitalista, sono ridotti a poche mi- 
gliaia gli emigranti dell'epoca nuova collettivista. E quei 
pochi che emigrano sono i missionari delle nuove for- 
me di civiltà organizzata, che è compito della Germania 
diffondere nel mondo. 

*** 

Di fronte a questi miracoli, Francia e Inghilterra so- 
no degli scolaretti balbettanti. In apparenza il socia- 
lismo ha fatto dei grandi progressi in ambidue i paesi : 
in Francia nel ministero vi sono uomini rappresentativi 
del partito, e in Inghilterra il signor Lloyd George ha 
scatenato contro di sé le ire della Camera dei Lordi e 
di tutti i conservatori. In realtà, se il baccano è stato 
grande ,i fatti sono stati piccolissimi. La Francia è e 
pare debba rimanere un paese di piccoli proprietari ir- 
riducibili agli ideali nuovi, di plutocrati che non hanno 
nemmeno consentito finora 1* applicazione dell'imposta 
sul reddito, neppure nella forma che in Italia abbiamo 



— 132 — 

da 50 anni; un paese dove le camere votarono, per 
fare del bluff elettorale, una legge per pensioni di vec- 
chiaia, salvo poi a tollerare che gli operai non pagas- 
sero la loro quota di contribuzione e che il tutto si ri- 
ducesse a un guazzabuglio inestricabile. In Inghilterra 
le leggi per le assicurazioni sociali sono appena all'inizio 
della loro applicazione; le famigerate imposte Lloyd- 
georgiane contro la proprietà fondiaria rendono delle 
somme ridicole, segno che non sono neppure riuscite 
a scalfire l' epidermide del privilegio; gli operai conti- 
nuano a votare per i partiti storici della borghesia, la 
quale, detentrice del potere politico, continua ad avere 
gli stessi ideali antichi di scimmiottatura della aristo- 
crazia. No; non è verso la Francia e l'Inghilterra che ci 
dobbiamo volgere per vedere attuati i postulati più au- 
daci del socialismo scientifico; non è ivi che possiamo 
credere di vedere presto i collettivisti al governo del 
paese. Tutt'al più ivi vedremo dei « compagni » farsi 
strada presso le masse elettorali con la predicazione del 
rivoruzionarismo più acceso, dell'abbasso le armi!, 
salvo a diventare, appena saliti al potere, i più fedeli 
sostenitori della plutocrazia conservatrice e i presidenti 
— a 100 mila lire Tanno di onorari — delle grandi so- 
cietà capitalistiche viventi dei favori governativi. In 
Germania invece noi vediamo, affratellate dalla guerra, 
fondersi insieme le due burocrazie, quella statale e 
quella socialista, che già prima erano tanto affini di 
spirito; e la fine della guerra, se vittoriosa per la Ger- 
mania, vedrà forse il primo Kaiser socialista diventare 
T evangelizzatore del mondo a prò dei nuovi ideali della 
solidarietà organizzata collettivista. Né sarà cosa strana 
o ripugnante; poiché le teorie del socialismo scientifico 



— 133 — 

sono lo svolgimento razionale e logico dei principi che 
in germe già si leggevano negli scritti e sovrattutto nelle 
opere degli organizzatori dello Stato prussiano, dai 
tempi del Grande Elettore insino agli anni in cui fiorì 
Carlo Marx. 



V'è bisogno di dire che le cose dette sopra — le 
quali sono state nello scrivere forse leggermente colo- 
rite, ma rispondono sostanzialmente alla verità, non 
come la vedo io, ma come, se fossero logici, la dovreb- 
bero vedere i democratici e i socialisti italiani — non 
bastano ne a farci ritenere utile ed augurabile l'ideale 
collettivistico germanico e neppure ad indurci a pren- 
dere partito per l'una o l'altra delle due parti conten- 
denti, a seconda che i nostri ideali si avvicinino di più 
agii ideali individualistici inglesi o collettivistici germa- 
nici? Ho voluto soltanto — mettendo in bocca un di- 
scorso immaginario a un ipotetico demo-socio-moderno- 
evoluto teorico italiano — mettere in chiaro come ra- 
gionino falsamente quei democratici italiani i quali vor- 
rebbero che l'Italia scendesse in campo per la difesa 
degli ideali democratici francesi e inglesi contro la rea- 
zione germanica. La verità si è che Francia e Inghil- 
terra stanno — pur troppo a mio parere — attingendo 
i loro ideali più moderni e più nuovi a purissime fonti 
tedesche; cosicché, se i democratici fossero logici do- 
vrebbero combattere per la Germania, che oggi è 
maestra al mondo di democrazia collettivista. Ma ragio- 
nano del pari falsamente quei conservatori più stretti, 
frequentatori dei clubs del Whist o della Caccia, i quali 
adorano la Germania perchè essa ha il pugno forte ed 



— 134 — 

è il solo Stato capace; di domare gli straccioni socialisti. 
Li doma, assorbendone tutto lo spirito e attuandone 
tutti gli ideali. Chi voglia vedere ancor coi suoi occhi 
le delizie dello Stato collettivista, costui auguri alla 
Germania la vittoria e quindi l'egemonia mondiale. Bu- 
rocratismo e socialismo sono due fratelli siamesi; e se 
noi accettiamo come un ideale il collettivismo, dob- 
biamo inchinarci a quella Germania la quale — come 
ha detto queirOstwald, il quale pare sia illustre tra i 
chimici — ha il privilegio di possedere lo spirito orga- 
nizzatore. 

La verità si è che il problema della guerra non si 
può discutere sulla base di parole di contenuto incertis- 
simo, come a democrazia », « reazione », « ideali mo- 
derni »; ogni popolo e principalmente noi italiani dob- 
biamo discuterlo partendo dalle nostre concrete e pre- 
cìse esigenze nazionali. Le quali sono di lingua, di cul- 
tura, di razza, di confini militari, di equilibrio di forze. 
E tra queste necessità principalissima è quella di non 
lasciarci a organizzare » da nessun altro popolo, fosse 
pure il sapientissimo tra i popoli della terra, e di non 
imparare da nessun altro quali siano gli ideali politici, 
nazionali e sociali a cui vogliamo attingere. Facendo 
così, noi forse riusciremo a non cadere nel circolo vi- 
zioso dei francesi e degli inglesi, che a malincuore com- 
battono la Germania, dopo averla per tanti anni am- 
mirata e adorata, specialmente per ciò che essa ha di 
meno ammirabile : l'organizzazione », ormai degene- 
rata in un collettivismo morti ficatore delle più belle 
ed originali energie individuali. 

(Dalla Minerva, 16 gennaio 1915). 



GLI IDEALI DELLA INCAPACITÀ' 

Ognuno di noi vede a modo suo i fatti caratteristici 
della guerra odierna; ed a me uno dei fatti più singolari 
di essa parve sempre la meraviglia, raccontata dalle 
gazzette, del maresciallo von der Goltz quando, essendo 
governatore del Belgio, vide gli operai belgi accogliere 
con scarso entusiasmo il suo proposito di importare nel 
Belgio gli istituti di assicurazione sociale, per cui va 
celebre la Germania. Non so se siano veri il proposito 
e la meraviglia, perchè di ogni fatto raccontato dalle 
gazzette in tempo di guerra fa d'uopo dubitare; ma 
sono certamente verosimili, in questo senso, che rispon- 
dono da un lato all' altissima e, secondo l'universale, 
meritatissima opinione che i tedeschi hanno della pro- 
pria legislazione sociale, e dall'altro lato al naturale 
senso di repugnanza dei belgi verso i doni recati da 
quello che essi considerano ingiusto oppressore della 
loro patria. Essendo opinione corrente e pacifica di tutti 
i popoli che la legislazione sociale tedesca sia quanto 
di più perfetto il mondo abbia in tal campo veduto, è 
naturale l'onesta meraviglia del maresciallo nel vedere 
i belgi repugnanti a tanto beneficio. E si comprende 
come in taluni tedeschi sia sorta l'idea di una loro mis- 
sione di diffondere nel mondo i principi e le applica- 
zioni di queste più alte forme di civiltà di cui essi sono 
gli antesignani. Ad essi o almeno ad una parte — che 



— 136 — 

è difficile valutare quale importanza abbia — di essi si 
può soltanto rimproverare di volersi servire degli eser- 
citi e della forza per affrettare ed assicurare la propa- 
ganda delle nuove forme di civiltà; e il rimprovero ap- 
pare giustificato quando si rifletta all'ardore, alla fre- 
nesia con cui pensatori e uomini politici andavano da 
tempo propugnando in Francia, in Inghilterra, negli Stati 
Uniti e nella nostra Italia l'applicazione di metodi fog- 
giati sul modello germanico. 

La guerra forse ha ritardato la attuazione degli ideali 
tedeschi nel mondo; poiché potrà darsi che, per una 
legittima reazione, i paesi che con la Germania si tro- 
varono in lotta ritardino a riconoscere la bontà degli 
istituti tedeschi o vogliano cercare nuove vie diverse da 
quelle che fatalmente avrebbero seguito. * 

Comunque sia di ciò che in futuro potrà accadere, 
certo è che nell'opinione universale gli istituti tedeschi 
di assicurazione paiono ancora adesso la conquista più 
alta della moderna civiltà nel campo economico-sociale. 
Benedetto Croce non ha forse in una lettera recente 
ad un amico (pubblicata nell'Italia nostra del 27 dicem- 
bre 1914) fatta questa confessione? « Vedi : io ho pal- 
« pitato un tempo pel socialismo parlamentare alla 
« Marx, e poi pel socialismo sindacalistico alla Sorel; 
« ho sperato dall'uno e dall'altro una rigenerazione 
« della presente vita sociale. E tutte le due volte ho 
« visto corrompersi e dileguare il mio ideale di lavoro 
« e di giustizia. Ma ora mi si è accesa la speranza di 
« un movimento proletario inquadrato e risoluto nella 
« tradizione storica, di un socialismo di Stato e nazione; 
« e penso che ciò che non faranno, ó faranno assai male 
« e con finale insuccesso, i demagoghi di Francia, di 



— 137 — 

« Inghilterra e d'Italia (che aprono la via non al prole- 
« tariato e ai lavoratori, ma, come dice il mio venerato 
(( amico Sorel, ai noceurs), lo farà forse la Germania, 
« dandone l'esempio e il modello agli altri popoli. Per- 
« ciò giudico assai diversamente dai socialisti italiani 
« l'atto compiuto da quelli di Germania; e credo che 
(( quei socialisti tedeschi, che si sono sentiti tutt'uno 
« con lo Stato germanico e con la sua ferrea disciplina, 
« saranno i veri promotori dell'avvenire della loro 
<( classe ». 

Nelle quali idee del Croce molto vi è di accetta- 
bile; poiché i demagoghi d'Italia e di Francia sono vera- 
mente spregevoli, ed è assai deplorevole che, invasati 
dalla manìa di imitazione germanica, i demagoghi in- 
glesi abbiano fatto getto delle loro più belle tradizioni 
nazionali. Ed è degno di rispetto grande l'atto dei so- 
cialisti tedeschi che, in questo principio di guerra, si 
strinsero attorno allo Stato nazionale; e sarà ancor più 
ammirevole se, comunque volga prospera o avversa la 
fortuna, essi seguiteranno sino alla fine della lottta nel 
loro atteggiamento di solidarietà. 

Ma il problema posto dalla vera o immaginata mera- 
viglia del generale governatore del Belgio e dalla let- 
tera del Croce è, parmi, un altro : il socialismo di Stato, 
di cui la manifestazione più caratteristica è la organizza- 
zione statale, suffragata oggi anche dal consenso soli- 
dale dei lavoratori, dei più svariati rami di assicurazione 
sociale, è davvero un ideale così alto di vita che la 
speranza di vedere il movimento proletario inquadrato 
e risoluto in essa debba sorriderci dinanzi agli occhi 
della mente e debba farci guardare con fiducia all'av- 
venire ? 



— 138 — 

Poiché io non ho questa speranza e non nutro questa 
fiducia, credo opportuno di dire le ragioni del mio scet- 
ticismo. Può darsi che il dissidio sia meramente contin- 
gente; e che i fautori del socialismo di Stato tedesco mi- 
rino agli stessi ideali miei, volendoli raggiungere per 
una strada che ad essi può sembrare più sicura. Ad ogni 
modo, poiché un certo dissenso, almeno iniziale, esiste, 
è opportuno porre il problema. 



Il quadro del socialismo di Stato tedesco* è certo 
magnifico. Tutti gli operai, un po' per volta tutti gli 
uomini al disotto di un certo livello di fortuna, vengono 
irreggimentati in casse di assicurazione, gerite ini parte 
dai rappresentanti degli stessi assicurati, che facendo 
pagare adeguate quote agli assicurati, ai loro impren- 
ditori e ai contribuenti in genere, e ripartendo i rischi, 
li assicurano contro i darmi della invalidità, della vec- 
chiaia, delle malattie, della maternità, degli infortuni e 
li assicureranno contro i danni della disoccupazione e 
della morte. In tal modo l'operaio, sicuro di sé e del 
proprio avvenire, attende alle opere della produzione, 
si abitua al maneggio degli affari delle proprie organiz- 
zazioni e si eleva via via ad un più alto tenore di vita, 
materiale e spirituale. 

E sta bene. Questo è il diritto della medaglia. Il ro- 
vescio sta nella premessa fondamentale da cui parte 
tutto l' edificio del socialismo di Stato, ossia di orga- 
nizzazione e di assicurazione universale ed obbliga- 
toria : la incapacità dell'operaio, dell'uomo dotarlo di 
scarsi beni di fortuna a provvedere da sé alle cose prò- 



139 



prie. Se noi facciamo questa ipotesi di incapacità, tutto 
l'edificio si sviluppa logicamente. Si spiega come faccia 
d'uopo costringere gli uomini a diventare previdenti, 
a prelevare dal proprio salario varie quote per prov- 
vedere alle diverse esigenze della vita, come occorra 
organizzare ed inquadrare il movimento operaio nella 
macchina statale per farlo funzionare in guisa da con- 
durre al massimo benessere collettivo. Ma è pur sempre 
una perfezione, un ideale che si muove entro una bas- 
sura : l'esistenza di masse umane le quali hanno bi- 
sogno di essere costrette alla previdenza, alla organiz- 
zazione, alla solidarietà. 

Che, se noi supponiamo di essere usciti da queste bas- 
sure e di essere giunti a un momento storico in cui gli 
uomini da sé sappiano curare i propri interessi, in cui 
essi sappiano fare il confronto tra la convenienza di 
spendere oggi o domani o fra un anno i propri guada- 
gni, in cui sappiano valutare la convenienza di unirsi 
volontariamente tra di loro per raggiungere un fine co- 
mune, e sappiano calcolare quando' convenga lottare con 
gli altri uomini o venire a una transazione, se noi fac- 
ciamo questa avventurata ipotesi, il quadro cambia. 
Il socialismo di Stato e le assicurazioni sociali germani- 
che diventano una macchina ingombrante e inutilmente 
costosa. L'uomo previdente sceglie da sé le vie di ri- 
sparmiare e di prevedere; ed è probabilissimo che sce- 
glierà le vie le quali siano più adatte ai suoi bisogni, al 
suo temperamento, alle sue condizioni di famiglia. Che 
bisogno ha egli di impiegare i propri risparmi aì 
3 o 4 %, ossia all'interesse minimo che è compatibile 
con l'assoluta sicurezza che deve essere tenuta di mira 
da una organizzazione pubblica, e per giunta di lasciar 



40 



prelevare su questo scarso reddito una fortissima per- 
centuale per le spese di gestione? Le spese della mac- 
china sono false spese, le quali diventano convenienti 
solo quando esse servano a sormontare l'ostacolo della 
incapacità degli uomini a provvedere a se stessi. Ma, 
rimosso l'ostacolo, la macchina funziona a vuoto, solo 
per' procacciare stipendi agli amministratori e agli 
impiegati. 

Parimenti una cassa di disoccupazione è utile finche 
si ha da fare con una massa operaia incapace a rispar- 
miare volontariamente, nei periodi di occupazione sta- 
bile e di prosperità economica, la somma necessaria a 
superare le morte stagioni e i periodi di crisi. Ma se 
l'operaio o l'impiegato» sa ragionare e sa prevedere, egli 
preferirà di gran lunga tenere per sé tutte le 6 lire di 
salario, versandone una su un libretto di cassa di ri- 
sparmio. Quando, dopo aver lavorato 250 giorni, verrà 
la morta stagione dei 50 giorni, egli si ritroverà l'intiero 
gruzzolo delle 250 lire e potrà tranquillamente consu- 
marle tutte, a 5 lire al giorno. La cassa di assicurazione 
contro la disoccupazione, che non può far miracoli, gli 
avrebbe restituito le sue 250 lire, meno le 25 o le 50 
necessarie per il suo proprio funzionamento. Facendo 
così, la cassa compie opera utile se l'operaio è dedito 
all'imprevidenza, all'intemperanza e ai consumi imme- 
diati; ma inutilmente costosa e quindi dannosa se 
l'operaio è capace di provvedere a se stesso. 

E si potrebbe seguitare. La legislazione relativa agli 
arbitrati di lavoro è buona per quelle società in cui im- 
prenditori e operai sono sforniti di educazione econo- 
mica; e, partendo da ignoranze diverse, hanno bisogno 
che qualcuno li consigli o li costringa a mettersi d'ac- 



— 141 — 

cordo. Mentre, se l'educazione economica è diffusa, se 
le parti contendenti hanno saputo darsi dei capi colti, 
intelligenti e accorti, le contese vengono risolute dai 
rappresentanti delle due parti, discutendo, con criteri 
tecnici accettati pacificamente, sui dati concreti delle 
condizioni dell'industria, della sua produttività, dei 
prezzi e dei costi, variabilissimi da caso a caso. E si 
può, con molto fondamento di ragione, affermare che 
quanto più cresceranno la educazione e la capacità dei 
lavoratori, tanto meno essi avranno interesse di ricorrere 
alle organizzazioni, non solo obbligatorie ma persino 
volontarie, coi propri compagni. A che prò sopportare 
le false spese della organizzazione quando gli identici 
o migliori risultati possono ottenersi con l'azione indi- 
viduale? 



Laonde il socialismo di Stato alla tedesca ci con- 
tinua ad apparire come una organizzazione mirabile 
bensì, ma adatta soltanto a uno stadio inferiore di ci- 
viltà. Non sarebbe del resto il suo maggior difetto. Co- 
me, invero, togliersi di dosso il dubbio che esso sia al- 
tresì uno strumento efficacissimo per fare rimanere gli 
uomini nella condizione inferiore in cui essi si trovano? 
Finche non sia dimostrato che la costrizione è il modo 
migliore per educare gli uomini a essere previdenti, vo- 
litivi, consapevoli dei propri fini, io continuerò a du- 
bitare che esso sia invece il modo più efficace per con- 
servarli in istato di servitù. Che differenza sostanziale vi 
è fra lo schiavo, a cui, doveva paternamente provvedere 
il padrone, e l'operaio, cui lo Stato insegna con la forza 
quanto deve risparmiare per le malattie, per gli infortuni, 



— 142 — 

per la vecchiaia, per la famiglia, a cui il tribunale fissa 
il salario, a cui la lega, inquadrata in un organismo sta- 
tale, consiglia se e quando deve litigare col padrone e 
quando accordarsi con lui per spennare, d'accordo con 
lo Strato, l'anonima e inafferrabile folla dei consumatori? 
Confesso candidamente che quando mi si dice che 
in Germania vi sono 7 od 8 o 10 o 12 milioni di lavo- 
ratori obbligatoriamente assicurati per una pensione di 
vecchiaia o di invalidità, non mi sento menomamente 
commosso. Sì, quando sento dire che in Italia vi sono 
300,000 associati volontari alla Cassa nazionale per la 
invalidità e la vecchiaia. Non mi commuovono i 12 mi- 
lioni, perchè essi non hanno fatto, per essere assicurati, 
alcun atto di volontà. È probabile che essi siano o stiano 
diventando previdenti, per proprio conto, per altre vie 
diverse da quella della assicurazione obbligatoria. 
Questa, in quanto tale, non li trasforma. Restano inca- 
paci, quali erano. Almeno in generale. Per sapere qual- 
cosa delle virtù della assicurazione obbligatoria, biso- 
gnerebbe poter rispondere alla domanda : quanti di 
quei 12 milioni sono stati spinti, dalla sicurezza di avere 
una pensione statale di vecchiaia di 200 lire, a rispar- 
miare ulteriormente? La assicurazione obbligatoria è be- 
nefica solo entro i limiti in cui è capace di produrre 
questo effetto, ossia di trasformare psicologicamente gli 
uomini 1 e di preparare generazioni venture migliori, più 
volitive delle attuali. Ha essa questo effetto ed entro 
quali limiti? Questo bisognerebbe sapere; ed! a questa 
stregua bisognerebbe valutare la virtù di elevazione, la 
quale potrà essere elevatissima e di pregio superiore al 
costo, della legislazione sociale tedesca. Frattanto so co- 
me cosa certa che i 300,000 assicurati alla cassa nazio- 



— 143 — 

naie italiana, o almeno la parte di essi che non furono 
assicurati dai propri principali ma liberamente da se si 
associarono alla cassa, sono già trasformati, ossia ap- 
partengono a quella eletta schiera di persone che si 
sono sapute trarre su dal gregge di coloro a cui è gioco- 
forza provvedere con la verga degli schiavi o con la 
legislazione e le inquadrature dei professori di socia- 
lismo di Stato. 

(Dalla Minerva, 1° aprile 1915). 



GERMANOFILI ED ANGLOFILI 

Mario Borsa, il quale, essendo vissuto dodici anni 
in Inghilterra ha amato quel paese ed a differenza di 
quasi tutti i suoi colleghi corrispondenti dei giornali ita- 
liani, ha cercato di penetrare dentro nella vita e nella 
storia del popolo britannico, si chiede, in un suo re- 
cente opuscolo (Italia ed Inghilterra, Milano, Società 
Editoriale italiana, 1916) quale sia la ragione « di quello 
« strano e sottile spirito di diffidenza e di antipatia che 
« si è infiltrato nel popolo nostro contro l'Inghilterra ». 

Mi sia consentito di aggiungere, a quelle acutamente 
osservate dal Borsa, un'altra ragione potentissima di an- 
tipatia; e sono gli anglofili italiani. 

Credo di avere il diritto di parlar male di costoro, 
prima che la marea ci soffochi. Siamo stati dei pochis 
simi in Italia, noi del gruppo degli scrittori di questa 
rivista, ad avere il cultoi dell'Inghilterra : non della ric- 
chezza inglese e delle cifre grosse dei bilanci inglesi, ma 
delle idee inglesi e del modo di ragionare e del modo 
di concepire la vita, la libertà e la politica che si usa 
in Inghilterra. E poiché, dopo avere molto letto e stu- 
diato, eravamo persuasi di non sapere ancora nulla, ci 
sia lecito dire che quella dei nuovissimi ammiratori del- 
l'Inghilterra è una fastidiosa e velenosa fugaia. 

Costoro minacciano di diventare una peste peggiore 
dei tedescofili di non lontana memoria. Adesso, non si 



— 146 — 

trova più un tedescofilo a volerlo pagare un occhio. Ma, 
se si guarda bene in fondo, si osserva senza meraviglia 
che essi si sono tutti tramutati in anglofili, e predicano 
la necessità di stringere intimi rapporti con quella che 
prima usavano chiamare « la perfida Albione ». 

Erano già insopportabili in qualità di germanofili; 
ma almeno non erano assurdi. Alcuni avevano viaggiato 
in Germania ed avevano « ammirato » la pulizia, l'or- 
dine, il rispetto alle autorità, i treni in orario, le bir- 
rerie e la birra. Altri erano andati a visitare le fabbriche 
tedesche, ed erano rimasti stupefatti dinanzi alle enor- 
mi superfici occupate, alle macchine potenti, agli ar- 
chivi sterminati dove tutte le esperienze chimiche, elet- 
triche, ecc. sono catalogate, afnncate e messe in ordine 
e s'erano persuasi che i tedeschi fossero, i soli genii or- 
ganizzatori del mondo; e per poco non avevano imma- 
ginato che solo i tedeschi sapessero con la organizza- 
zione costringere carbone e minerali di ferro a cacciarsi 
nel loro sottosuolo, od i fiumi a scorrere placidamente 
attraverso a pianure artefatte. Altri era andato a spen- 
dere T importo del premio di perfezionamento nelle uni- 
versità germaniche ed era rimasto commosso per l'onore 
fattogli di un invito a pranzo da parte del direttore del 
laboratorio o di una collaborazione col « celebre » pro- 
fessore tedesco in una prima monografia sperimentale. 
Tutti costoro erano germanofili nati ed erano perciò grot- 
teschi. Ma almeno erano stati in Germania ed erano di- 
venuti ammiratori perchè c'era qualcosa che aveva fatto 
colpo su di loro. S'erano persuasi, vedendo tutto grosso, 
enorme, colossale, potente, che il popolo provvisto di 
tutto questo ben di dio fosse destinato a dominare il 
inondo; ed, anime di servi, s'erano affrettati a predi- 



— 147 — 

care che gli italiani dovevano mettersi alla coda dei te- 
deschi, se volevano diventare anch'essi grossi, enormi, 
colossali, potenti ed avere, alla fine della guerra, Nizza, 
Corsica, Tunisia, Siria, e forse anche il Madagascar ed 
il Tonchino. 



Ma almeno i germanofili erano stati in Germania; 
od avevano fatti affari con dei commessi-viaggiatori te- 
deschi, od avevano comperato da essi buone macchine 
che lavorano magnificamente, od avevano venduto in 
Germania, con lucro, merci italiane. 

Gli anglofili sono peggiori e più noiosi dei germa- 
nofili. Ho il vago sospetto che siano quegli stessi aspi- 
ranti-professori, viaggiatori perditempo, clienti di com- 
messi-viaggiatori tedeschi di prima della guerra, che 
ora, dovendo per forza ammirar qualcuno, si sono fatti 
pedissequi dell' Inghilterra. La « perfida Albione », è 
divenuta « l'antica e tradizionale amica dell'Italia ». 
Suppergiù questa frase è tutto ciò che gli anglofili ita- 
liani sanno dell'Inghilterra. Hanno sentito dire nei di- 
scorsi e letto sui giornali che Cavour, Garibaldi, Mazzini, 
Ruffini e gli altri apostoli e costruttori dell'Italia nuova 
erano vissuti in Inghilterra, ovvero ivi erano stati am- 
mirati, incoraggiati ed aiutati; sanno che Gladstone 
scrisse un famoso opuscolo contro i Borboni; e con 
questo pesante bagaglio letterario sono divenuti ammi- 
ratori ed amici del paese che oggi è nostro alleato. 

L'animo del servo e lo stupore dell'asino non sono 
l»erò venuti meno. Coloro che un tempo manifestavano 
il loro servilismo e la loro ignoranza citando il signor 
Berselbe nelle dotte note del titolo da concorso, oggi 



— 143 — 

che la guerra ha costretto anche i professori a scendere 
in piazza ad evangelizzare i popoli, spropositano comi- 
camente nel discorrere dei loro nuovi amici inglesi. V'è 
un modo rapido, poco costoso, ma sicuro di individuare 
gli anglofili che non hanno mai letto nessun libro inglese 
e non sono neppure arrivati a scalfire la pelle della col- 
tura inglese; ed è l'uso dei prefissi Mr., Sir, Lord. Gli 
anglofili reduci dalla germanofilia non sospettano nep- 
pure che lo scrivere « Lord Asquith » invece di « Mr. 
Asquith » è un delitto atto a far fremere nelle loro tom- 
be i custodi delle più belle tradizioni politiche del par- 
tito liberale; e che un grammatico inglese potrà passar 
sopra ad un errore di sintassi, ma non perdonerà giam- 
mai a chi osi scrivere « Sir Grey » invece di « Sir Edward 
Grey ». Perchè chi commette questi errori, come pure 
chi nello scrivere premette al nome di un deputato in- 
glese l'adulatorio aggettivo italiano ori. invece di far suc- 
cedere al nome le lettere M. P. (member of parliament), 
o tratta correntemente con Y eccellenza i ministri inglesi, 
dimostra di ignorare, oltreché la grammatica, parecchie 
cose le quali non possono essere rimaste ignote anche 
al più modesto conoscitore della storia, delle consuetu- 
dini e delle tradizioni politiche inglesi od al più distratto 
lettore di romanzi di Dickens e di Walter Scott. Dimo- 
strano i nostri anglofili di ignorare, per citare solo qual- 
che esempio, che una grande tradizione vuole che il 
premier in un governo liberale, se già non appartenga 
per nascita alla nobiltà, non accetti titoli di nobiltà o 
cavallereschi : Gladstone volle sempre rimanere un sem- 
plice Mr. o signore e l' Asquith ne segue l'esempio. 

E, s'intende, codesti anglofili, che conoscono così 
bene i caratteri più esteriori e noti della vita politica in- 



— 149 — 

glese, pretendono ad ogni altro giorno che l'Inghilterra 
debba in furia mettersi a studiare l'Italia. Poiché la 
caratteristica di codesti anglofili è la smania di insegnare 
agli inglesi che cosa sia l'Italia. Vorrebbero che gli edi- 
tori inglesi cambiassero le loro guide, cosicché i viag- 
giatori britannici potessero visitare, oltreché le pinaco- 
teche ed i musei ed i ruderi, anche le opere « pulsanti » 
della vita moderna; a rischio di far fuggire inorriditi i 
forestieri, i quali in Italia cercano sensazioni riposanti 
e tranquille e diverse da quelle, dopotutto assai noiose 
esteticamente, del fumo e dei camini e del baccano dei 
saloni delle moderne manifatture. 

Sanno, anche, gli anglofili che l'Inghilterra è ricca. 
I discorsi del bilancio del signor Mac Kenna hanno dato 
loro alla testa. Vedono miliardi e sterline dappertutto. 
Al culto dell' <( organizzazione » tedesca hanno sostituito 
il culto della « sterlina » inglese. 

Vorrebbero, perciò, codesti anglofili l'elemosina dal- 
l'Inghilterra. Si possono perdonare loro gli errori di 
grammatica, il seicentismo italo-tedesco nelle titolature 
verbali, la smania di far visitare fabbriche e bonifiche a 
chi vuol vedere quadri e monumenti; ma non si può 
perdonare loro la miserabile figura di pezzenti che ci 
fanno fare dinanzi agli alleati. 

Aumentano i noli, perchè il tonnellaggio marittimo 
è ridotto alla metà; e perchè da che mondo è mondo, 
quando una merce è rara, è impossibile impedire che 
i prezzi aumentino, o che, a prezzi uguali, la quantità 
sia razionata colla forza e che quindi, nel caso del na- 
viglio, molta minor merce sia trasportata? E subito si 
chiede che l'Inghilterra debba assegnare, il che vuol 
dire regalare prò tempore, navi all'Italia a noli di favore. 



50 



Crescono i cambi ed occorrono 32 lire italiane per 
comperare quella lira sterlina che prima ci comprava 
con 25 lire? E subito i soliti anglofili od adoratori della 
borsa inglese, come prima lo erano della borsa tedesca, 
gemono sulla sconoscenza da parte dell'Inghilterra della 
bontà della lira italiana; ed invocano non si sa che, es- 
sendo il loro linguaggio singolarmente vago, ma in so- 
stanza vogliono che l'Inghilterra ci dia prova di amici- 
zia accettando 25 lire soltanto in cambio della sua lira 
sterlina. 

Il che, in lingua povera e chiara, è un chiedere l'ele- 
mosina; ed è intollerabile per un paese come l'Italia il 
quale è entrato in guerra per il raggiungimento dei suoi 
ideali nazionali. Nessun popolo è capace di raggiun- 
gere un ideale quando nel tempo stesso si abbassa al- 
l'atto servile di chiedere l'elemosina di una merce a 
sotto-prezzo. Noi dobbiamo, sì, chiedere all'Inghilterra 
di aiutarci con denaro e con navi e con carbone; noi 
abbiamo diritto di partecipare, insieme con gli altri al- 
leati e prò rata, al limitato fondo di denaro, di carbone 
e di navi che gli Alleati, compresa l'Inghilterra, posseg- 
gono. È augurabile che un modo si trovi per ripartire 
prontamente, efficacemente denaro, carbone, navi fra 
gli Stati a norma dei loro bisogni militari; perchè ciò 
è necessario al successo della causa comune. L'Italia non 
deve pagare nulla più del minimo prezzo corrente delle 
cose ad essa necessarie; ed è ragionevole che per scopi 
militari si cerchi di ottenere prezzi non superiori a quelli 
che possono essere considerati prezzi normali di costo. 
Ma l'Italia deve aver l'orgoglio di pagare, sui capitali 
ricevuti a prestito dall'Inghilterra, nulla di meno dei 
tasso contente di interesse; e di non accettare carboni 



15 



e noli a prezzi di favore. L'Italia non sa che farsene de- 
gli anglofili che di volta in volta hanno bisogno di lec- 
care gli stivali ad un nuovo padrone. L'amicizia si ce- 
menta coli 'opera comune, collo sforzo per raggiungere 
ideali affini; si distrugge quando è basata su mal chieste 
ed a stento concesse elemosine. 



* 

In realtà ad essere anglofili sul serio è cosa ardua, 
come era cosa ardua essere prima veramente germano- 
fili. Ma quando lo si è, si rimane tali, guerra o non 
guerra, per tutta la vita, perchè l'essere germanofili od 
anglofili sul serio vuol dire soltanto che si è riconosciuto 
che nel pensiero o nella vita di un altro paese vi era 
qualcosa che meritava di essere appreso e meditato e 
trasformato in pensiero proprio ed in forza modificatrice 
della vita del proprio paese. 

Io non sono mai stato — d'accordo, del resto, in ciò 
con la maggior parte degli studiosi italiani di scienze 
economiche — germanofilo. Ma non per odio irragio- 
nevole verso quel paese; o perchè disconoscessi quali 
grandi contributi i tedeschi abbiano recato al progresso 
di altri rami scientifici. Bensì perchè il contributo ger- 
manico al progresso delle scienze economiche è stato 
mediocrissimo, assai inferiore, per non parlar dell* In- 
ghilterra, a quello dell'Italia, della Francia ed oggi anche 
degli Stati Uniti. Specialmente i massimi baccalari uffi- 
ciali viventi della scienza economica tedesca, i Wagner, 
gli Schmoller, a cui ora si può aggiungere il Sombart, 
mi erano sempre sembrati mediocri economisti. Perciò 
la cultura tedesca mi interessava poco ed i suoi scrittori 



52 



più rimarchevoli mi erano sempre sembrati quelli che 
godevano minor fama nella loro patria e recavano meno 
spiccata l'impronta germanica. Ma comprendo perfet- 
tamente che i giuristi ammirassero e studiassero il Sa- 
vigny, lo Jehring ed altri sommi, gli storici il Mommsen 
ed il Ranke, i filosofi la pleiade di menti sovrane fiorite 
nella Germania del passato. In che cosa la guerra ha 
potuto mutare questo atteggiamento spirituale? I giuri- 
sti, almeno quelli degni di questo nome, se non gli scim- 
miotti dei Derselhe, seguiteranno a studiare ed a citare 
il Savigny, gli storici il Mommsen, i filosofi Kant ed He- 
gel, ed i chimici ed i fisici gli scienziati che hanno sco- 
perto nuove verità nel campo loro. O che gl'italiani do- 
vrebbero diventare ignoranti, scrivere degli spropositi, 
reinventale le verità già scoperte solo perchè il popolo, a 
cui quei grandi appartennero, si è reso colpevole della 
guerra odierna? Io seguiterò a non studiare ed a non 
citare i Wagner, gli Schmoller ed i Sombart; ma non 
perchè siano tedeschi, sibbene perchè, a parer mio, 
scrissero cose di poco conto e fecero dell'economia e 
della storia economica di quart'ordine. 

Per la stessa ragione — scarsa originalità e scarsa 
bellezza di sviluppo spontaneo — le istituzioni politiche 
e sociali germaniche hanno destato sempre in me scarso 
interesse. Il volgo può trovare ammirabili le a organizza- 
zioni » politiche germaniche, perchè il volgo ammira le 
cose regolari, gerarchiche;, macchinose. Ma, in fatto di 
organizzazione politica centralizzata, qual cosa mai po- 
tevano i tedeschi aggiungere al meraviglioso organismo 
ricreato dalla mente geniale del primo Napoleone sulle 
traccie dell'opera dei Re di Francia? La macchina te- 
desca delle assicurazioni sociali può tutt'al più sembrare 



— 153 — 

degna di interesse scientifico ad un amatore di regola- 
menti. Poiché, quando si sia deciso di obbligare alcuni 
milioni di uomini a fare certe cose, qualunque funzio- 
nario che abbia una perizia tecnica del piccolo proble- 
ma da risolvere, può elaborare gli articoli di regolamento 
necessari all'uopo; e con regolarità meccanica i milioni 
di assicurati sussidiati, pensionati, indennizzati si alli- 
neano nelle colonne delle statistiche periodiche. Che 
cosa vi è di interessante in tutto ciò e di realmente utile 
al perfezionamento intimo dell'uomo? 

Per contro, se anche la sventura avesse voluto che 
l'Italia dovesse trovarsi, per ipotesi assurda, o per po- 
tenza di triplicisti, in guerra con l'Inghilterra, avrei po- 
tuto cessare di essere un lettore appassionato, quasi mo- 
nomaniaco, di libri inglesi, come sempre sono stato fino 
dai banchi dell'università? La guerra potrebbe forse far 
sì che non siano nati in Inghilterra Adamo Smith e Da- 
vide Ricardo e che insieme con essi una pleiade di 
grandi economisti non abbia fatto per il progresso della 
scienza economica più di quanto non poterono fare tutti 
gli scrittori delle altre nazioni presi insieme? Potrebbe 
forse la guerra distruggere la formazione storica della 
costituzione inglese e dell'impero britannico, di cui nulla 
di ugualmente meraviglioso si vide nel mondo fuor 
dello sviluppo storico della costituzione e dell'impero 
romano? E potrebbe forse la guerra distruggere il fatto 
che nessun paese può vantare, appunto' a causa della 
sua formazione storica, una letteratura politica parago- 
nabile a quella dell'Inghilterra? Ed io dovrei, solo per- 
chè capitassimo ad essere in guerra, preferire alla let- 
tura di quei grandi capolavori la noia di dovermi sorbire 
le chiacchierate imperialistiche senza costrutto di qual- 



— 154 - 

che vanesio scrittorello italiano in cerca di novità? Di 
essere anglofili o germanofili o francofili non si può far 
a meno quando l'esserlo risponda ad un intimo bisogno 
dello spirito di conoscere e di assimilare il pensiero de- 
gli altri paesi. È. grottesca la germanofilia dei cannoni 
da 420, della birra buona e delle fabbriche di colori; 
come è ridicola 1* anglofilia delle miniere di carbone o 
delle dreadnoughts, o la francofilia della torre Eiffel; 
ma l'amore delle idee vere e delle cose belle non può 
essere distrutto neppure in tempo di guerra. E sarebbe 
un danno lo fosse. Perchè vorrebbe dire che saremmo 
meno ricchi degli altri nel mondo delle idee, da cui alla 
perfine provengono quelle cose passeggere e senza im- 
portanza nella storia umana che sono le fabbriche di 
colori, le miniere di carbone e le torri Eiffel. 

(Da « La Riforma Sociale », aprile 1916). 



LA TEORIA INGLESE 
DELL'EQUILIBRIO EUROPEO 

£ tornata di moda in questi ultimi tempi e in Italia 
una scoperta scientifica intorno aUa quale avevano me- 
nato' gran rumore i giornali tedeschi nei mesi di agosto 
e settembre 1914: essere la teorìa della equilibrio delle 
potenze » sul continente europeo un idolo a cui ora 
si immolano i popoli ». Questa teoria sarebbe nata non 
in Germania ma in Inghilterra, e sarebbe un congegno 
conservatore dell' imperialismo inglese, ora contro la Ger- 
mania, ora contro la Russia, ora contro la Francia. L'In- 
ghilterra avrebbe consolidato sempre la sua posizione 
egemonica sugli altri popoli europei scagliandoli in guer- 
ra l'uno contro l'altro. 

Questa concezione della guerra si può chiamare « vol- 
gare » come quella che non richiede alcuno sforzo di 
pensiero e risulta dall' applicazione ai grandi avvenimen- 
ti storici dei metodi di ragionamento propri di coloro 
i quali non badano ad altro che al vantaggio pecuniario 
immediato. Il contadino ignorante, il quale vuole spie- 
garsi la ragione per cui certi « signori » richiedono il 
suo voto per riuscire deputati o fanno pubblica propa- 
ganda per il prestito nazionale, non sa trovarne altra 
fuor della speranza che coloro abbiano di fare, con quel 
metodo, denari. Egli invero non concepisce vi possa 



— 156 — 

essere altro movente all'azione degli uomini fuorché il 
desiderio del denaro. Così gli uomini digiuni di ogni 
cultura storica ed economica, i quali costituiscono trop- 
pa parte della classe politica italiana, non sapendo com- 
prendere perchè l'Inghilterra si sia voluta impacciare in 
faccende che non la riguardano, come l'annessione del 
Belgio e della Serbia o la cessione delle colonie fran- 
cesi a vantaggio della Germania, dicono che l'Inghilterra 
si decise alla guerra per lucrare alle spalle dell'Europa 
divisa, mutuando denari a forte interesse, impadronen- 
dosi delle colonie tedesche e facendosi pagare cari noli 
e carbone. Poiché queste spiegazioni da montanaro 
dalle scarpe grosse possono non sembrare ai lettori raf- 
finati abbastanza eleganti, i giornali tedeschi prima ed 
ora alcuni italiani hanno pensato di sostituirle con « l'i- 
dolo atroce e funesto » dell'equilibrio europeo, grazie 
al quale l'Inghilterra diventerebbe gigante fomentando 
la discordia tra i popoli europei. 



Non farò appello alla ricca letteratura, la quale pro- 
va il magnifico svolgimento che in Inghilterra hanno 
avuto le idee di libertà politica e di indipendenza delle 
nazioni, e quale profonda influenza quelle idee hanno 
avuto sull'azione degli uomini politici inglesi. Non ri- 
corderò che l'impero inglese è divenuto grande perchè è 
il maggiore conglomerato, conosciuto nella storia, di 
nazioni libere ed indipendenti le une dalle altre e dalla 
madrepatria. Non ricorderò neppure come l'esperienza 
della guerra attuale abbia provato quanto fervore di pa- 
triottismo siasi manifestato, senza alcuna costrizione 



— 157 — 

dalla madrepatria, nel Canada, nell'Australia, nel Sud- 
Africa, nell'India stessa. Non ricorderò come siano state 
crudelmente deluse le speranze di coloro i quali spera- 
vano vedere sollevarsi l'India o per lo meno rompersi i 
vincoli di unione fra l'Inghilterra e la boera Africa del 
Sud. Tutto ciò — agli occhi dei mercanti di buoi, dei 
montanari dalle scarpe grosse e dei giornalisti sopraf- 
fini, i quali avrebbero preteso che l'on. Salandra contrat- 
tasse con l'Inghilterra prima della nostra dichiarazione 
di guerra la fornitura gratuita, o il che fa lo stesso, a 
50 lire per tonnellata, di tanti milioni di tonnellate di 
carbone reso a Genova — appartiene al mondo delle 
idee e delle sentimentalità e non conta nulla. 

E sia. Atteniamoci al puro interesse. La teoria vera 
dell'equilibrio, spoglia di ogni elemento ideale di sim- 
patia verso le nazionalità oppresse, dal punto di vista 
inglese è la seguente : « è necessario per la salvezza del- 
l'Inghilterra e del suo impero che nessuno Stato euro- 
peo diventi talmente forte da potere dominare su tutta 
l'Europa. Perchè, se ciò accadesse, l'Inghilterra in un 
momento successivo diventerebbe preda dello Stato ege- 
monico e sarebbe finita la sua esistenza come nazione 
indipendente ». 

Non vi è dubbio che la teoria dell'equilibrio, così 
concepita : 

— risponde ad una necessità assoluta per 1* Inghil- 
terra, fino a quando almeno si creda che uno Stato agi- 
sca in modo da potere continuare a vivere; 

— risponde all'interesse più evidente di tutti gli. 
Stati europei, salvo di quell'uno, il quale vuole acqui- 
stare dominio sugli altri; 

— non è in contrasto con l'idea della nazionalità; 



— 158 — 

poiché in um continente così vario per razze, lingue, tra- 
dizioni come l'Europa, il rispetto delle nazionalità non 
può non lasciare sussistere una varietà grande di Stati 
sovrani, incompatibile con il predominio di uno solo; 
— non è in contrasto con l'ideale di una futura 
federazione europea; poiché siffatta federazione, se non 
imposta da uno Stato egemonico, non potrà non essere 
rispettosa degli ideali, della civiltà, della lingua e degli 
interessi di ogni nazione federata. Contro una federa- 
zione di simile genere la teoria inglese dell'equilibrio — 
quella vera, non quella inventata dai pseudo storici te- 
deschi recenti — non ha più obbiezioni da fare. L'im- 
pero inglese è anzi il tipo, oggi vivente e dalla guerra 
rafforzato, di queste libere federazioni di Stato; ne si 
vede la ragione per cui tra l'impero inglese e la even- 
tuale federazione europea non possano stabilirsi vincoli 
politici in forme che oggi non è possibile immaginare, 
ma che i politici dell'avvenire saprebbero escogitare. 

*** 

Queste sono vecchie verità, note a quanti hanno letto 
qualche libro di storia. Io ho tra mani un interessante 
opuscolo politico di Paul de Thoyras Rapin, storico fran- 
cese, ugonotto, cacciato di Francia dopo la revoca del- 
l'editto di Nantes (1686), emigrato in Inghilterra e morto 
nel 1723 in Olonda. L'insigne autore di una delle prime 
storie scientifiche dell'Inghilterra in questa sua Disscr- 
tation sur les whtgs et les torys (A la Haye, 1717) ha 
alcune pagine che spiegano benissimo la ragion d'essere 
della politica d'equilibrio seguita già allora da secoli 
dall'Inghilterra. 



159 



« Dopo l'ingrandimento della Casa d'Austria — scri- 
veva lo storico francese nel 1717, ossia subito dopo la 
fine della guerra di successione d'Austria durata dal 1701 
al 1713 — ossia da circa duecent'anni in qua, l'Inghil- 
terra ha sempre potuto far pendere la bilancia o dal 
lato di Casa d'Austria o dal lato della Francia, secondo 
il partito che essa riteneva migliore. Ma il suo interesse 
costante e perpetuo è stato di conservare l'uguaglianza 
fra questi due poteri. È questo il perno, su cui da due 
secoli ha girato tutta la politica dei Re d'Inghilterra ». 
Se Luigi XIV ha fatto tanti tentativi per impedire agli 
inglesi di prendere partito contro di lui, ciò fu dovuto 
« soltanto ai vasti disegni che egli aveva formato con- 
tro la libertà dell'Europa. Senza di ciò, egli non avreb- 
be avuto bisogno di preoccuparsi degli inglesi. Tutti 
sanno che Luigi XIV aveva concepito il progetto di sta- 
bilire una monarchia universale in Europa. Siccome egli 
non ignorava che l'interesse dell* Inghilterra era di man- 
tenere la bilancia dell'Europa in equilibrio e che gli in- 
glesi consideravano questa massima come il fondamento 
principale della loro sicurezza, era da temersi che essi 
si sarebbero opposti alla esecuzione dei suoi disegni ». 
Di qui gli intrighi francesi rivolti a profittare del desi- 
derio di Carlo II di ristabilire il potere assoluto in In- 
ghilterra per farlo annuire alla sua campagna contro 
l'Olanda; di qui la protezione concessa dappoi ai pre- 
tendenti Stuardi affine di tener occupati gli inglesi a 
casa loro ed impedire ad essi di intervenire negli affari 
europei mentre egli cercava di stabilire sul continente 
la sua egemonia. Di qui le diversioni in Irlanda, dopo 
1* cacciata di Giacomo II. Il Re di Francia, conclude il 
TJioyras-Rapin, ha ragione di temere l'Inghilterra 



— 160 — 

« quando egli nutre qualche progetto contro il resto del- 
l' Europa. Ma se egli ha per iscopo soltanto di vivere in 
pace e di difendersi semplicemente, nel caso egli fosse 
attaccato, nulla può essergli tanto vantaggioso come di 
coltivare l'amicizia dei Re d'Inghilterra ». 



Sostituiamo Filippo II di Spagna, Napoleone ovvero 
la Germania odierna a Luigi XIV e noi abbiamo nelle 
parole del Thoyras-Rapin la spiegazione logica della 
condotta dell'Inghilterra da Elisabetta ai giorni nostri. 
Essa non ha alcun interesse a mescolarsi delle cose 
europee, se non quando alcuno degli Stati continentali 
(( nutra qualche progetto contro la libertà del resto del- 
VEuropa )) e minacci di « stabilire una monarchia uni- 
versale sul continente ». Per impedire la monarchia uni- 
versale europea l' Inghilterra ha profuso miliardi ed ha 
versato il miglior sangue dei suoi figli. Ne è possibile 
negare che, grazie all'ostinazione inglese contro Luigi 
XIV ed ai sussidi britannici, il Piemonte potè conservare 
la sua indipendenza ed il suo valoroso principe, Vittorio 
Amedeo II, potè continuare a far la guerra di bande 
contadine contro gli eserciti di Catinat, fino alla pace 
del 1696 e poi nella nuova guerra contro la Francia, fino 
alla liberazione di Torino nel 1706. Chi, senza l'ostina- 
zione disperata del Piemonte e la pertinacia inglese 
avrebbe potuto impedire alla Francia di Luigi XIV di 
estendere praticamente il suo dominio su tutta l'Italia? 
Alla teoria inglese dell'equilibrio non dobbiamo perciò 
forse la indipendenza e la forza del Piemonte prima e 
l'indipendenza italiana poi? 



— 161 — 

Un secolo dopo la medesima esperienza si ripete. 
Senza l'ostinazione inglese, la Germania ben difficil- 
mente avrebbe potuto scuotere il giogo napoleonico. 
Nessuno vuol sminuire l'abnegazione e le virtù civiche 
della piccola Prussia, dove sotto le ceneri covava il fuo- 
co delia rivolta e dove insigni statisti, nei momenti del 
servaggio più duro, apparecchiavano i mezzi per la ri- 
scossa. Ma è certo che, senza il blocco inglese, senza 
l'annientamento della potenza marittima francese a Tra- 
falgar, senza gli aiuti forniti dall'Inghilterra alla Russia, 
alla Spagna, all'Austria, il sogno di dominio universale 
sull'Europa era prossimo ad avverarsi con Napoleone. 
L'Inghilterra salvò se stessa, lottando contro Napoleone: 
ma nel tempo stesso salvò la causa della nazionalità 
tedesca e di quella italiana. Appunto perchè grandi era- 
no gli impulsi al rinnovamento venuti di Francia, gran- 
dissimo era il pericolo che l'Italia divenisse francese, ri- 
nunciando alla sua autonomia nazionale. Fu d'uopo il 
duro servaggio autriaco per far rifulgere quella coscien- 
za nazionale, che prima era obliterata e le cui lievi trac- 
eie facilmente andavano cancellandosi nel fulgore del- 
l'impero napoleonico. 

Due volte l'Inghilterra, durante il secolo XIX, rinun- 
ciò a far valere la teoria dell'equilibrio. Mal ne incolse 
a lei ed all'Europa. La prima volta fu quando essa as- 
sistette inerte allo smembramento delle contrade danesi 
dello Schleswig-Holstein dalla Danimarca. Non avere 
impedito che Austria e Prussia, unite per allora nella 
brutta impresa, togliessero alla Danimarca anche le pro- 
vince prettamente danesi del disputato territorio, dimi- 
nuì grandemente il prestigio inglese nella Scandinavia. 



— 162 — 

La seconda volta fu quando non osò intervenire a dispu- 
tare alla Prussia la appropriazione dell'Alsazia Lorena. 

In ambedue questi casi di assenteismo dell'Inghil- 
terra si ebbero ferite profonde all'ideale di nazionalità 
ed agli interessi della pace europea duratura. 

No; la teoria inglese dell'equilibrio non è un idolo 
atroce e funesto; ma è una forza benefica contro la pre- 
potenza egemonica di uno Stato prepotente sugli altri 
Stati europei. Fino a quando il sorgere di una federa- 
zione europea, avente comunanza di ideali e di interessi 
con la federazione britannica non la renda inutile, la teo- 
ria dell'equilibrio, concepita nel modo vero inglese, ossia 
sotto la forma negativa di lotta contro l'egemonia di una 
sola potenza continentale, rimane la garanzia più salda 
della libertà delle nazioni di cui l'Europa si compone. 
Hanno « l'ansia penosa di rimanere soffocati » da que- 
sta teoria soltanto i popoli e gli Stati i quali meditano 
di dominar gli altri; non quelli i quali aspirano soltanto 
a vivere liberi e composti in unità nazionale. 

(Dal Corriere della Sera, 1° febbraio 1917). 



L'IDEA DELLO STATO COME FORZA 

ENRICO VON TREITSCHKE : La politica, traduzione di 
Ettore Ruta; voi. I. L'essenza dello Stato, pag. XV- 191; 
voi. II. Le basi sociali dello Stato, pag. 189; voi. III. 
La costituzione dello Stato, pag. VIII-331; voi. IV. L'am- 
ministrazione dello Stato. Lo Stato nei rapporti tra le 
nazioni, pag. 219 (Bari, Gius. Laterza e figli, 1918. 
Prezzo L. 25). 

Gli editori Laterza, i quali si erano già resi bene- 
meriti pubblicando l'anno scorso i due volumi del T. 
su La Francia del primo impero al J87J (L. 8), hanno 
grandemente accresciuto le loro benemerenze verso la 
cultura italiana facendo tradurre questa Politica, che 
insieme alla Storia della Germania è una delle opere 
capitali del Treitschke. 

Non ho sottomano il testo tedesco e non posso dire 
fino a qual punto la traduzione del Ruta sia fedele. 
Dove il T. parla di argomenti tecnici, di diritto, di am- 
ministrazione, di economia politica si sente il vago di 
chi non è padrone della materia e non può quindi sa- 
pere che certe parole tedesche si traducono con certe 
altre italiane, le quali hanno un posto preciso nella 
terminologia scientifica. È un errore, ad es., tradurre 
Ein\ommensteuer con « imposta di ricchezza mobile » 
o peggio, semplicemente con « ricchezza mobile »; che 



— 164 — 

è traduzione giornalistica di chi non ha visto che il con- 
tenuto delle due imposte è differente : l'imposta te- 
desca, corrispondente alla cosidetta imposta globale o 
di famiglia, essendo sul reddito complessivo della per- 
sona, e l'imposta italiana cadendo sui redditi mobiliari 
soltanto, esclusi quelli fondiari e non tenendo conto del- 
le condizioni particolari del contribuente. Imposta « sul 
reddito » si doveva tradurre; ma ciò avrebbe contrastato 
con una piccola manìa del Ruta di tradurre con parole 
italiane vive, fresche, mosse, talvolta inventate da lui, 
che vorrebbero dare al testo spigliatezza e brio. Ed in 
complesso egli si fa leggere volentieri; e si vorrebbe 
sperare che egli renda lo stile del T. Che la speranza 
sia una realtà, ripeto, non so. Si stenta a credere che 
l'originale dia una impressione di stravaganza come tal- 
volta si ha dinnanzi al testo italiano, nel quale si leggo- 
no anche, per eccezione, dei tedeschismi. Che cosa è, 
ad es., una disgraziata « Cursassonia » che in italiano 
non ha neppur significato? Immagino si tratti della « Sas- 
sonia elettorale »; ma potrebbe anche essere qual- 
cosaltro. 

Quanto al contenuto del libro, non oserei essere d'ac- 
cordo col Ruta nel dire che la sua pubblicazione 
« venga ad ovviare al difetto in Italia di un trattato mo- 
derno di Scienza dello Stato, con benefizio non scarso, 
oltreché del pubblico e degli studiosi in generale, più 
in particolare degli studenti delle nostre università e in 
ispecie degli aspiranti alla carriera diplomatica e con- 
solare, i quali vi apprenderanno cognizioni precise e 
ferme, non facili, una volta comprese, ad essere dimen- 
ticate ». È certo che studenti e concorrenti non pren- 
deranno alla lèttera il consiglio del traduttore, poiché 



165 



correrebbero il rischio di essere bocciati all'esame. La 
Politica di Treitschlce è un « libro », ma non è un « trat- 
tato » per le scuole; non è sistematico, non dà una ela- 
borazione giuridica degli istituti, non fornisce quelle 
« cognizioni precise » di cui hanno bisogno giuristi e 
funzonari. 

In questo campo, per non uscire di Germania, i te- 
deschi vantano una magnifica fioritura scientifica, di cui 
citerò solo // diritto pubblico dell impero germanico del 
Laband, di cui YUtet va pubblicando una buona versione 
dovuta al Siotto-Pintor. Ma trattasi di opere le quali non 
hanno nulla a che fare con questa del T. Chi vuole 
avere idee precise sul diritto costituzionale ed ammini- 
strativo cerchi altrove. Ciò che il T. dice intomo ai sin- 
goli istituti politici non va al di là di quelle nozioni ge- 
neralissime, le quali si trovano meglio esposte, più nu- 
trite e precise nei trattati specialmente ad essi con- 
sacrati. 

Gli studenti, i concorrenti faranno assai bene a leg- 
gere e meditare il libro del T., non per apprendervi la 
scienza delle costituzioni, ma per la stessa ragione per 
cui dovrebbero leggerlo gli scrittori di trattati sulla 
scienza delle costituzioni, i giornalisti, gli uomini poli- 
tici, gli studiosi di storia, di economia, ed in genere 
tutte le persone colte : per apprendervi a giudicare gli 
avvenimenti politici e storici attraverso un'idea generale. 
Il che è indispensabile non a sapere quella determinata 
scienza (scienza delle costituzioni o dell* amministrazio- 
ne o del diritto internazionale), ma a valutare i fatti 
che di quelle singole scienze sono l'oggetto, ad apprez- 
zare la portata delle costruzioni giuridiche che via via 
sono andate elaborandosi. I pubblicisti hanno durato 



— 166 — 

lunghe fatiche per elaborare la nozione dell « Impero 
germanico », stato federale, con un imperatore tedesco, 
primus inter pares, composto di Stati sovrani e sovrano 
esso stesso, ecc. Il T. guarda un po' con compatimento 
queste fatiche degli illustri suoi colleghi ed esclama, 
con Guglielmo I : « Ma, se l'impero altro non è che la 
Prussia allungata! ». Con la quale esclamazione egli non 
distrugge le teorie dei pubblicisti; le quali rimangono ed 
hanno una portata, anche pratica, grandissima, poiché 
senza di esse non si conoscerebbe il funzionamento 
reale della macchina statale tedesca. Il T; vuole avver- 
tire soltanto che, sotto alla forma, sotto agli istituti giu- 
ridici, con cui si è voluto facilitare il passaggio dalla 
vecchia alla nuova Germania, come spirito animatore 
e dominatore della complicatissima struttura dello Stato 
tedesco vi è la Prussia e nient' altro che la Prussia. Gli 
Stati minori se ne ricordino : « la Prussia colla sua spada 
creò l'unità tedesca, e colla spada la manterrà, anche 
contro le velleità di fronda della Baviera o del Baden o 
del Wurtemberg ». 

L'idea-madre della Politica dì T. è nota : « Lo Stato 
è la pubblica forza coordinata a difesa ed offesa ». Idea 
profondamente vera, quella stessa del « Principe » di 
Machiavelli; e che non giova respingere con grida di 
orrore, come è di moda adesso presso la gente svene- 
vole. Il T. si incarica egli stesso di chiarire e di com- 
mentare : Machiavelli disse una verità profonda quando 
ai vani simulacri degli Stati di diritto, degli Stati morar 
lizzanti, degli Stati che si raccomandano alla pietà, al 
sentimento di giustizia e di umanità contrappose l'idea 
dello Stato-forza. Ma il suo Duca del Valentino non po- 
teva ridurre a Stato 1* Italia, perchè egli l'avrebbe fon- 



— 167 — 

data sulla forza pura; la sua costruzione statale cadde 
perchè egli ammazzava i nemici solo perchè erano ne- 
mici e per mettersi lui al loro posto. Finche fu il più 
forte, lo Stato suo crebbe; quando la forza gli mancò, 
anche lo Stato suo ruinò miseramente. « Lo Stato non 
è forza fìsica come fine a sé stesso; è forza, per proteg- 
gere e promuovere i supremi beni degli uomini ». 

Se noi partiamo da questa idea-madre, si spiegano 
tutti gli atteggiamenti di T. : la passione del suo amore 
fervidissimo per la Prussia e per la dinastia degli 
Hoenzollern, rude, povera, pertinace, riuscita, a tra- 
verso secoli di sforzi perseveranti, a dare unità alla 
Germania, prima campo di battaglia delle grandi po- 
tenze europee. Si spiega l'odio inestinguibile contro 
l'Austria, questa maschera ipocrita di Stato, priva di 
contenuto morale e spirituale, sopravvivenza degli an- 
tichi Stati a tipo orientale; la simpatia accesa verso 
l'Italia, questa « nazione », risorta anch'essa perchè 
seppe avere nel Piemonte la sua Prussia unificatrice e 
nella Dinastia di Savoia una stirpe di capitani e di poli- 
tici capaci di attuare una grande idea; l'Italia a cui per 
diventare una grande potenza manca (1892) una cosa 
sola : battersi. Da questa sua idea, dello Stato che è 
forte perchè vuole conseguire un ideale morale, proven- 
gono anche le male parole contro gli Stati Uniti, che 
tolgono il respiro agli uomini fini con la loro caccia al 
dollaro, e contro l'Inghilterra, che egli sovratutto con- 
cepisce come adoratrice del borsellino. Ed in questo di- 
sprezzo egli ha torto; ma non per mala-fede o passione 
nazionale. Semplicemente per ignoranza. La lettura del 
suo libro persuade che il T., fuor di una conoscenza or- 
dinaria della storia costituzionale e politica dell' Inghil- 



— 168 — 

terra e degli Stati Uniti, ignora quei paesi. Ne parla 
come un qualunque neutralista italiano, il quale conosca 
l'Inghilterra e gli Stati Uniti attraverso le sterline ed i 
dollari, che avrebbe voluto, almeno almeno, vedersi ca- 
pitare in tasca senza fatica come prezzo dell'essere scesi 
in guerra. Ma è rimasto assente dalla letteratura, dalla 
filosofia, dalla scienza economica inglese; parla della 
scuola di Manchester, come un protezionista volgare 
— egli che pure non era tale! — ne può dirsi che egli 
sia penetrato nello spirito di Adamo Smith e di Ricardo. 
Nonostante le sue incomprensioni il T. è un grande 
scrittore. Scrittore di aforismi, che gittano luce sui pro- 
blemi della storia, della guerra, della pace, che mettono 
a nudo la vanità delle frasi, delle ipocrisie, delle teorie 
con cui i partiti ed i politici spiegano le loro azioni. 
Dicono che il T., sordo, parlasse a scatti, in falsetto, 
con effetti di voce e di intonazione curiosi ed impen- 
sati, con invettive e sarcasmi feroci contro i sassoni, 
i bavaresi, i russi, gli austriaci che affollavano la sua 
aula. Così è anche lo stile della Politica, raccolta viva 
di lezioni compilata dai suoi studenti. È una corsa attra- 
verso ai problemi fondamentali, che sono discussi nei 
trattati di Scienza di Stato e del Diritto pubblico, com- 
piuta da chi vuol vedere la verità vera, nuda, semplice 
sotto alla vernice di frasi ed ali* appello alle teorie. 
T. smaschera falsità ed ipocrisie su questo o quel pro- 
blema e passa oltre. Mette alla luce il tronco vivo della 
verità storica e va innanzi, senza indugi arvisi. Contro a 
quelli che non vogliono più fare la storia politica e di- 
sprezzano i re, i capitani e le battaglie e vogliono solo 
parlare del popolo e delle istituzioni e condizioni sociali 
grida irritato : « Gli uomini fanno la storia, uomini come 



— 169 — 

Lutero, Federico e Bismarck ». Contro gli assertori della 
sanità dei trattati butta in faccia : « Forsechè fu ingiusto 
che la Prussia rompesse il trattato di 1 ilsitt ed il Pie- 
monte la pace imposta a Novara? ». Ed ancora, contro 
il feticcio dei trattati perpetui : « Il superbo « noi riprin- 
cipieremo » dei piemontesi battuti manterrà sempre il 
suo posto nella storia dei popoli nobili ». Contro coloro, 
i quali per impedire l'abbassamento del giornale voglio- 
no sottoporre i giornalisti ad esame, rinfaccia : « Non 
è l'intelligenza che fa difetto ai catilina della penna, ma 
il carattere ». A Buckle, il quale spiegava la civiltà con 
le condizioni geografiche, contrappone Pericle a cui Tu- 
cidide aveva fatto dire : « Non il paese fa l'uomo, ma 
l'uomo fa il paese ». A coloro, i quali credono di potere 
con la forza pura soggiogare i popoli, ricorda l'esercito 
di Cromwell, il quale si sciolse da sé, quando la na- 
zione volle il ritorno di Carlo II ed aggiunge : « La forza 
fisica dell'esercito riesce a molto meno di quanto opi- 
nano i dottrinari contro la volontà dichiarata di una 
nazione ». A proposito della pena di morte : « Una isti- 
tuzione giudicata barbara dal sentimento universale, ad 
es., la tortura, non ritoma. Invece la pena di morte 
ritorna, perchè giudicata barbara solo dalla pipa pa- 
cifica dei filantropi ». 

Non dunque « un trattato moderno di Scienza dello 
Stato », come lo definisce il traduttore, è l'opera di T.; 
ma un libro, a cui i trattatisti hanno attinto ed ancora 
attingeranno le idee con cui si scrivono i trattati sistema- 
tici. Perciò bisogna leggerlo e meditarlo con altra ani- 
ma di quella con cui gli studenti si preparano all'esame 
ed alle carriere: con reverenza per le idee informatrici. 
per lo spirito vivificatore, senza badar troppo ai parti- 



— 170 — 

colari, senza insistere sulle passioni, sulle assenze, sulle 
ignoranze dell'autore. Egli ha voluto dare una chiave 
per interpretare i fatti della storia : la forza messa al 
servizio di un ideale ed ha predicato quindi un van- 
gelo : conservarsi o diventare forti per attuare un ideale 
morale. Quale sia questo ideale morale poco si vede. 
È questa la lacuna vera dell'opera del T. Egli non è 
un adoratore della pura forza. Sente che la vera forza 
è quella messa al servizio di un'idea. Ma quale sia 
questa idea, non è chiaro. Perciò il suo non si può an- 
cora dire un trattato di politica. A tanta opera gli man- 
cava, forse, lo spirito filosofico. Distrugge, abbatte le 
false politiche basate su ideologie vacue. Epperciò è 
una pietra miliare. Ma non vi è la creazione nuova. 

Che cosa egli direbbe se fosse vivo oggi, non so. 
Quasi certamente, dato il senso profondo di disciplina 
che lo anima, parteggerebbe coi tedeschi. Ma non po- 
trebbe neppure misconoscere che francesi, italiani, in- 
glesi ed americani sono degni avversari della Germa- 
nia, perchè essi sono sorti in armi e lottano fieramente 
per difendere quelli che loro sembrano ideali nobili ed 
alti. Le sole parole acerbe sue andrebbero contro la 
Russia e, forse, anche contro l'Austria. Almeno, que- 
sto, parmi, sarebbe il giudizio di un Treitschke coerente 
sulla guerra attuale. 

(Da La Riforma Sociale del settembre-ottobre 1918 
e da L'Italia che scrive, settembre 1918). 



le càuse dello scisma 

e le tendenze verso una intesa 

dei popoli di lingua inglese 

Il Beer è lo scrittore delle tre opere : Origins oj the 
British Colonici System (1578-1660), The Old Colonia! 
System (1660-1754, di cui però è venuta fuori sinora 
soltanto la prima parte, dal 1660 al 1688, in due vo- 
lumi) e The British Colonial Policy (1754-1765), tutte 
pubblicate dagli editori Macmillan di New York; ed 
in esse egli ha gittato nuova luce sulle origini e sulla 
vita del vecchio sistema coloniale inglese nelle isole 
occidentali ed in quelle che poi diventarono le tredici 
colonie originarie nord-americane. Ricerche pazienti di 
archivio e studio della letteratura contemporanea gli 
permisero di giungere a conclusioni in parte nuove e 
sempre documentate intorno ai rapporti fra madre-pa- 
tria e colonie. Principalissima tra le conclusioni a cui 
il Beer giunse in quei suoi quattro volumi, modello di 
seria indagine economica, in cui l'erudizione più scru- 
polosa si sposa ad una penetrante visione storica, sem- 
bra a me quella secondo cui la secessione delle tre- 
dici colonie della madre-patria non fu dovuta, come 
dice la tradizione volgare, ad una deliberata oppres- 
sione fiscale esercitata dall'Inghilterra sulle colonie. Il 
celebre principio no taxation without representation ha 



— 172 — 

un significato più complesso di quanto comunemente 
si crede. La madre-patria non intendeva imporre tributi 
a suo arbitrio ed a suo beneficio sulle colonie. Essa in- 
tendeva risolvere un problema impellente : come far 
contribuire le colonie alle spese che la madre-patria so- 
steneva per la loro difesa contro gli Indiani e contro i 
francesi del Canada e della Luisiana? La madre-patria 
era disposta a sostenere l'onere maggiore di quelle spe- 
se, considerandole utili all'impero in generale; ma de- 
siderava che la parte minore fosse sostenuta dalle co- 
lonie, a cui vantaggio diretto esse ricadevano. Ne le co- 
lonie, specie quando erano premute dai pellirosse o 
quando i francesi minacciavano alla frontiera, discono- 
scevano la giustizia del richiesto pagamento. Ma erano 
tredici, indipendenti le une dalle altre, prive di un si- 
stema comune di imposte, prive anzi di "un comune si- 
stema di rappresentanza di governo, con interessi par- 
ziali divergenti, sicché non riuscivano a mettersi d'ac- 
cordo. Alcuni tra i più eminenti coloni, come Beniami- 
no Franklin, lamentavano il fatto ed avrebbero voluto 
che la madre-patria si facesse iniziatrice di una orga- 
nizzazione statale superiore, capace di risolvere il com- 
plesso problema. Putroppo però nel secolo XVIII non 
si erano ancora compiuti gli esperimenti di governo fe- 
derale che nel Canada, nell'Australia e nell'Africa del 
Sud diedero alle colonie lo strumento di un'azione comu- 
ne. Quello che era un onesto tentativo di ripartire equa- 
mente le imposte e di creare un governo coloniale fe- 
derale parve ai coloni tirannia ed oppressione fiscale. 
La madre-patria, che guardava agli interessi generali 
ed ai rapporti internazionali, non riuscì ad intendersi 
con i coloni, la cui visione del mondo era ristretta al 



— 173 — 

territorio locale ed il cui interesse a contribuire alle spe- 
se comuni era diminuito il giorno in cui la Francia ce- 
dette il Canada all'Inghilterra e venne a mancare la più 
forte minaccia alla sicurezza dei coloni. La rivoluzione 
americana fu il trionfo del municipalismo e della ri- 
strettezza di vedute del colono avaro contro la coscien- 
za degli interessi generali che, sebbene imperfettamen- 
te, era sentita dagli statisti inglesi. E ben lo seppe Wa- 
shington, il quale dovette lottare a lungo contro la ri- 
pugnanza delle singole colonie ad unirsi, a mantenere 
un esercito comune, e fare le spese del governo federa- 
le: e solo vi riuscì, quando, abbandonando il primo ten- 
tativo di federazione di Stati, si accolse nel 1787 il con- 
cetto di un unico Stato federale, capace dì emanare leg- 
gi proprie e di ripartire imposte e di mantenere un eser- 
cito ed una flotta. La costituzione del 1787, tuttora vi- 
gente, fu la rivendicazione dell'Inghilterra, poiché que- 
sto e non altro voleva la madre-patria quando tentò di 
stabilire, forse con scarsa abilità, ma con indubbio di- 
sinteresse, un sistema generale d'imposte nelle colonie. 

La separazione delle colonie dalla madre-patria fu 
inevitabile, data la incapacità in cui le due parti della 
medesima nazione erano di comprendersi. Forse fu an- 
che benefica, perchè consenti alle due parti di svilup- 
pare caratteristiche proprie e feconde. Ma è possibile 
che essa abbia oramai dato tutti i frutti di cui era ca- 
pace; e che oramai il processo storico abbia a ritornare 
su se stesso, dando luogo ad una nuova unione, in for- 
ma diversa ed adatta ai tempi, tra i due grandi rami 
della famiglia anglo-sassone. 

Dieci anni fa, nella conclusione di The British Co- 
lonial Policy, il Beer scriveva : « Si può immaginare fa- 



— 174 — 

cilmente e non è affatto improbabile, che la evoluzione 
politica dei prossimi secoli possa avere un andamento 
siffatto che la rivoluzione americana perda la grande 
significazione che oggi essa ha ed appaia semplicemen- 
te una separazione temporanea di due popoli congiunti, 
la cui intima somiglianza fu oscurata da differenze su- 
perficiali nascenti da condizioni economiche e sociali 
diverse ». 

La guerra mondiale ha presentato all'attenzione di 
tutti quello che era un problema visto dà pochi pensa- 
tori e storici. Parlare oggi di unione fra Stati Uniti ed 
Impero inglese è prematuro; ma non è prematuro par- 
lare di intesa ed alleanza fra le due sezioni dei popoli 
parlanti lingua inglese, che col tempo potrà dar luogo 
a forme nuove e superiori di organizzazione statale. Il 
tentativo gigantesco di predominio della Germania sul- 
l'Europa prima e poi sul mondo è una minaccia diretta 
al tipo di civiltà britannico e nord- americano ed ha 
costretto gli Stati Uniti ad uscire dal loro isolamento su- 
perbo, persuadendoli che 1* americanismo era un ideale 
antiquato e che la vecchia dottrina di Monroe non sod- 
disfaceva più alle esigenze nuove della politica mon- 
diale, a cui gli Stati Uniti non possono non partecipare. 

Sarebbe impossibile esporre compiutamente il pen- 
siero del Beer, misurato, alieno da voli lirici, immune 
dalle passioni belliche, le quali scemano il valore per- 
manente di tanta parte della letteratura provocata dalla 
guerra. Anche questo è un libro d'occasione; ma scritto 
da uno storico insigne, il quale guarda alle grandi cor- 
renti ed ai fatti essenziali che la guerra mise in più 
chiaro rilievo. Ricorderò solo qualcuno dei punti essen- 
ziali che la lettura dell* opera del Beer fa risaltare : 



75 



1) Un'intesa fra i due grandi rami della famiglia 
parlante lingua inglese è divenuta più facile ora che gli 
Stati Uniti non sono più un paese debitore verso la 
Gran Bretagna e non sono quindi più mossi da quei 
sensi di invidia, di animosità e di ribellione che spin- 
gono i debitori contro i creditori. Già da due decenni 
gli Stati Uniti avevano sostanzialmente cessato di es- 
sere un paese debitore. La guerra ha accelerato il pro- 
cesso di liberazione ed ha creato nuovi vincoli inversi, 
non pericolosi, ed atti a stringere i legami economici 
fra le due parti; 

2) L'intesa non si deve compiere più fra gli Stati 
Uniti e l'Inghilterra ma fra gli Stati Uniti e la Britlsh 
Commonwealth, of Nations, quella comunità britannica 
di nazioni indipendenti che è la maggiore creazione po- 
litica del secolo XIX. Non è l'intesa fra l'antica madre- 
patria e le antiche colonie, ma fra due grandi confede- 
razioni mondiali, appartenenti alla medesima famiglia 
storica. L'intesa deve in sostanza « fondarsi sul fatto 
immutabile che questi popoli sono strettamente affini ed 
hanno essenzialmente i medesimi ideali ed istituzioni 
politiche », parlano la medesima lingua, hanno la stessa 
letteratura, pensano alla stessa maniera, obbediscono 
alla uguale norma dell'ossequio alla volontà della mag- 
gioranza concretata nella legge; 

3) In nessuna parte del mondo i loro interessi sono 
in conflitto; e nei punti essenziali essi collimano : porta 
aperta nella Cina, serbata indipendente, difesa degli 
Stati dell'America meridionale contro le oppressioni al- 
trui, difesa della Francia, dell'Italia, del Belgio, dell'O- 
landa, della Scandinavia e della Grecia contro la mi- 
naccia di predominio politico delle potenze centrali. 



— 176 — 

Il mezzo per raggiungere lo scopo è unico : la conser- 
vazione del dominio dei mari in caso di guerra. Sepa- 
rati, i due rami della famiglia inglese soccomberebbero 
sotto al peso schiacciante; uniti, essi sono certi di rag- 
giungere la sicurezza quasi assoluta del proprio svilup- 
po avvenire, grazie ad una marina da guerra e ad una 
marina mercantile invincibili. Il che metterà l'intesa dei 
popoli di lingua inglese al riparo dalla necessità di man- 
tenere enormi eserciti stanziali, con il conseguente pe- 
ricolo di creare uno stato di spirito militarista ed ag- 
gressivo. Basterà la nazione armata, con larghissimi qua- 
dri, da riempire in occasione di guerre; 

4) L'antica teoria dello Stato, sovrano assoluto ed 
indipendente entro i limiti del proprio territorio, si di- 
mostra sempre più in contrasto con le necessità attuali 
e feconda di pericolosi conflitti. Essa porta allo Stato 
isolato, e poiché questo è una assurdità economica, 
conduce al bisogno di « sicurezze » e di « garanzie » 
esterne. L'idea dello Stato che non riconosce vincoli su 
di se, che esige obbedienza incondizionata ed esclu- 
siva dai proprii sudditi contrasta col fatto che i sudditi 
in misura crescente hanno relazioni economiche, intel- 
lettuali, morali fuori del territorio statale. Per garantire 
quelle relazioni, lo Stato vuole diventare bastevole a se 
stesso; vuole mettere le mani sulle foci dei fiumi, sulle 
miniere, sulle foreste, sui mari, sulle colonie. È il ce- 
lebre ritornello tedesco dell' a aria che manca », del 
« posto al sole », delle « garanzie reali », le quali con- 
ducono fatalmente al dominio del mondo da parte di 
una razza privilegiata e predestinata. Non vi è via di 
mezzo : o si conserva l'idea dello Stato formatasi nei 
secoli dal XVI al XIX, Stato sovrano, chiuso, perfetto, 



— 177 — 

e si giunge fatalmente allo Stato egemonico mondiale. 
Ovvero si riconosce che quell'idea è antiquata; che vi 
è una necessaria interdipendenza fra Stati; che nessuno 
di essi può aspirare alla sovranità assoluta ed illimi- 
tata, ma anzi i legami interstatali sono la necessaria con- 
dizione per un più ricco e largo sviluppo dell'attività dei 
singoli Stati e noi giungiamo all'idea della società delle 
nazioni. 

Ma questa per oggi rimane un ideale lontano, a cui 
si deve giungere per gradi. Un passo gigantesco sulla 
via della società di nazioni uguali fu compiuto con la 
creazione della British Commonwealth of Nations, che 
male si esprime con la espressione comune di « impero 
inglese », quando non di un impero si tratta, ma di una 
società di Stati liberi, indipendenti ed uguali. Un passo 
ulteriore sarà compiuto con la conclusione dell'intesa od 
alleanza anglo-americana. E se d'altro canto sorgerà 
una lega latina — Francia ed Italia, a cui potranno ag- 
giungersi poi la Spagna, il Portogallo e forse gli Stati 
dell'America meridionale — la creazione di una unione 
germanica centrale non potrà più riuscire pericolosa. 
Anzi le varie unioni saranno il più saldo fondamento 
pensabile alla futura società delle nazioni. « Quando si 
studia il corso della evoluzione storica, diventa chiaro 
che l'instaurazione della legge e della giustizia nei rap- 
porti fra uomo e uomo e fra gruppo e gruppo è dive- 
nuta possibile solo grazie alla formazione di aggregati 
politici sempre più ampi. Quando questo processo è 
volontario, esso è indice di progresso. Il mondo comin- 
cia appena ora a comprendere che lo Stato non è uni- 
cellulare e che possono entro di esso coesistere parec- 
chie e concorrenti sudditanze. L'ideale dello Stato na- 



— 178 — 

zionale è sempre vigoroso, ma la comunità britannica 
delle nazioni (British Commonwealth of Nations) dimo- 
stra concretamente che può esistere un più alto tipo di 
associazione politica in cui la legge e la giustizia for- 
mano una congerie disseminata di popoli, ad ognuno dei 
quali è assicurato il libero ed intiero sviluppo dei loro 
proprii ideali. Le prospettive di un eventuale regno del- 
la legge e del governo della ragione nel mondo sareb- 
bero in verità ben negre se l'avvenire non recasse in 
grembo organizzazioni politiche ancora più vaste, le 
quali permettano la più ampia libertà alle nazioni ed 
agli Stati, unendoli nel tempo stesso per il raggiungi- 
mento dei comuni scopi dell'umanità. In una intesa dei 
popoli parlanti lingua inglese si possono vagamente in- 
tuire i lineamenti di una nuova, non mai vista forma di 
associazione politica, la quale, preservando ad ogni 
parte la sua intiera libertà, tutte le unisca permanente- 
mente non solo per la difesa della comune civiltà e dei 
comuni ideali, ma anche in difesa della libertà di tutti 
i popoli minacciati dalle spade di coloro i quali si pro- 
stemano dinanzi al tabernacolo della forza organiz- 
zata ». 

(Da a La Riforma Sociale », fase. 7-8, luglio-ago- 
sto 1918). 



IL RITORNO DELLA "FIOR DI MAGGIO,, 

Nous voici Lafayette! corre già la leggenda abbiano 
detto gli americani salutando i camerati francesi allo 
sbarco sulla bella terra di Francia. The return o/ the 
Mayflower, hanno intitolato gli inglesi l'arrivo delle 
navi da guerra americane sulle sponde dell'antica ma- 
drepatria, da cui era salpata la nave sulla quale i puri- 
tani, ruggendo alle persecuzioni religiose degli Stuardi, 
cercavano asilo sulla libera terra americana. Ambi i 
motti hanno un nobile significato storico : vuol dire il 
primo che gli americani vengono, dopo 142 anni, a re- 
stituire ai francesi l'aiuto porto un tempo, duce La- 
fayette, per la conquista della indipendenza e della li- 
bertà. Dice il secondo che, dimenticata l'antica discor- 
dia, dopo un secolo di pace ininterrotta, i discendenti 
dei coloni americani hanno sentito profonda l'unità di 
cultura, di ideali, di lingua che li univa all'Inghilterra 
e sono accorsi a difendere in Europa quegli ideali, 
quella cultura e quella lingua contro il pericolo minac- 
ciante. Fra i due, il primo è più chiaro e semplice e 
commovente : ed il tema della riconoscenza dei popoli 
avrà in avvenire un'esemplificazione stupenda nel sim- 
bolico ritorno di Lafayette in Francia. I francesi del 
secolo XVIII, i quali cavallerescamente accorrono in di- 
fesa dei coloni insorti; e gli americani del secolo XX, 
i quali, trascurando guadagni e comodi, restituiscono 



— 180 — 

oggi l'aiuto ricevuto. Due repubbliche sorelle, due po- 
poli i quali a distanza di secoli si soccorrono fraterna- 
mente nella lotta contro lo spinto di tirannia e di con- 
quista. 

Meno commovente ma forse più profonda è la si- 
gnificazione del motto che si intitola al ritorno della 
nave puritana « Fior di maggio ». Ricordiamo. Alla vi- 
gilia della guerra dell'indipendenza americana, l'impero 
inglese era già divenuto il più potente dominio colo- 
niale del mondo. Distrutta la potenza marittima spa- 
gnuola, espulsi o quasi i francesi dalle Indie e dal Ca- 
nada, ridotti il Portogallo e l'Olanda ad una posizione 
di second'ordine, ben si poteva dire che il sole non 
tramontava mai sui dominii della Gran Bretagna. La 
storia corrente vuole che essa sia stata, per libidine di 
tirannia, sul punto di perdere i vantaggi acquistati. Le 
ingiuste esazioni degli inglesi nell'America del Nord 
avrebbero fatto divampare la rivolta tra i coloni i quali, 
aiutati dai francesi, conquistarono l'indipendenza, to- 
gliendo così alla madrepatria la più promettente e po- 
polosa delle sue colonie. Alla pace di Parigi, il domi- 
nio mondiale dell'Inghilterra pareva davvero scosso : 
l'India non ancora abbastanza apprezzata e quasi con- 
siderata solo adatta a fondaci di mercanti, inesistente 
l'Australia, olandese l'Africa del Sud, un deserto di 
ghiaccio il Canada. Fu l'ostinazione ventennale contro 
Napoleone che ridiede all'impero inglese l'antico splen- 
dore. Ma nella sua storia la rivolta delle tredici colonie 
è un punto d'arresto; il quale divenne il principio del 
risorgimento solo grazie al senno politico della vecchia 
Inghilterra, Ammaestrata invero dal rischio corso nel 
volare imporre la sua volontà alle colonie recalcitranti, 



— 181 — 

essa concesse alle colonie rimastele ed a quelle nuove, 
una dopo l'altra, governo autonomo, anzi indipendente : 
sicché oggi l'impero britannico è una sciolta federazio- 
ne di Stati gli uni indipendenti dagli altri, liberi di par- 
tecipare o non alle guerre della madrepatria, immuni 
da tributi, uniti solo dal tenuissimo vincolo dell'omag- 
gio di sudditanza reso a Giorgio V, simbolo della unità 
imperiale. Lo spettro della rivolta delle tredici colonie 
turbò i sonni degli statisti inglesi per tutto il secolo 
XIX, sicché gli uni già si adattavano al pensiero che le 
colonie quali frutti maturi si dovessero ad un certo mo- 
mento fatalmente distaccare dall'albero della madrepa- 
tria; e gli altri le volevano conservare solo come sorelle 
minori e indipendenti di un vago complesso di Stati 
sovrani e tra di loro appena nominalmente federati. 

Se questa concezione storica fosse la sola vera o 
quella compiutamente vera, che cosa significherebbe il 
ritorno^ nei mari britannici della mitica nave puritana? 
Nulla più che il rinsaldarsi dei vincoli ideali di sangue 
e di fratellanza sempre esistiti fra Inghilterra e Stati 
Uniti, sebbene talvolta dimenticati nel calore dei litigi 
fraterni. Molto, sì, ma nulla di ben profondo e inno- 
vatore. 



Ma quella concezione storica, se non è erronea, è 
però incompiuta. La rivolta delle tredici colonie, che 
parve rompere per sempre i vincoli fra le due parti del 
mondo anglo-sassone, fu un fatto storico probabilmente 
e certamente fecondo. Grazie ad esso gli Stati Uniti 
svilupparono uno speciale tipo di civiltà, diverso da 
quello primitivo anglo-sassone, diedero luogo ad uno 



— 182 — 

sperimento di governo federale, che ebbe un grande 
successo; mentre l'Inghilterra, ammaestrata, a poco a 
poco riuscì a creare un tipo di impero, che non ha ri- 
scontro nella storia e che è la prima attuazione effet- 
tiva di quell'ideale della consociazione delle nazioni che 
è stato il sogno e il tormento di tanti pensatori. Tutto 
ciò è stato il frutto della rivolta. 

( Oggi però quel frutto è stato colto; e fa d'uopo pro- 
cedere innanzi, se non si vuole che l'albero isterilisca. 
Lo storico della politica coloniale britannica fin da dieci 
anni fa scriveva : « È immaginabile e per nulla impro- 
babile che la evoluzione politica dei prossimi secoli 
possa assumere un andamento siffatto che la rivolu- 
zione americana perda del grande significato che oggi 
le è attribuito ed appaia meramente essere la separa- 
zione temporanea di due popoli affini, • la cui intima 
simiglianza fu oscurata da superficiali differenze risul- 
tanti dalla diversità delle condizioni economiche e so- 
ciali » (brano nuovamente riprodotto dal medesimo au- 
tore G. L. BEER in The English Speaking Peoples. New 
\ork, Macmillan, 1917). Le indagini storiche compiute da 
Beer e da altri hanno invero dimostrato che non di op- 
pressione inglese si deve parlare, non di volontà di esi- 
gere imposte a favore della madre-patria e contro la 
volontà delle colonie, ma di una incapacità reciproca 
di comprendersi tra due rami dello stesso popolo giunti 
ad un momento diverso del proprio sviluppo. Potenza 
mondiale la madrepatria fin dal secolo XVIII, era ben 
persuasa che ad essa incombesse l'obbligo e l'onore di 
difendere l'Impero; ma non sapeva persuadersi che, 
nell'America settentrionale, ad essa toccasse esclusiva- 
mente l'onere di difendere i beni e le persone dei co- 



183 



Ioni contro le aggressioni degli indiani pellirosse e con- 
tro i francesi del Canada e della Luisiana. E ad ogni per- 
sona imparziale tra i coloni medesimi — e valga per 
tutti il nome di Beniamino Franklin — la pretesa dei 
coloni di essere difesi a spese altrui appariva priva di 
qualsiasi fondamento. Ma le colonie erano tredici, divise 
ed indipendenti le une dalle altre, reciprocamente ge- 
lose e sospettose, sicché fu impresa impossibile metterle 
d'accordo per costituire, a spese comuni, un esercito 
ed una amministrazione comune. Neppure coll'offerta 
di assumere a suo carico la parte maggiore delle spese 
coloniali di difesa e di carattere generale potè l'Inghil- 
terra indurre le colonie alla concordia ed all'unione. 
Era il dissidio insanabile fra la concezione politica mon- 
diale ed unitaria della madrepatria, e quella municipale 
e ristretta delle colonie. La concordia venne meno e la 
federazione nord- americana fu creata per virtù della 
guerra civile; che tale fu la guerra fra l'Inghilterra e 
le colonie rivoltose. Sotto la pressione della guerra, in- 
fiammate dall'ardore dell'ideale dell'indipendenza, le 
tredici colonie si unirono e crearono la federazione. 
Fu il frutto della rivolta; e per esso, come per l'esem- 
pio dato alla formazione delle federazioni canadese, 
australiana, africana, e poi della comunità britannica di 
nazioni quella rivolta è storicamente giustificata. 



Oggi, il grande equivoco storico, da cui nacque 
la rivoluzione americana, non ha più ragione d'essere. 
I due rami del popolo anglosassone hanno raggiunto 
un medesimo grado di sviluppo politico. Due potenze 



— 184 — 

mondiali, come la Comunità delle nazioni britanniche 
e gli Stati Uniti, non possono rimanere dissociate. 
Il ritorno della « Fior di maggio » ha questo significato : 
che americani del nord ed inglesi — gli inglesi della 
federazione di nazioni componenti il cosidetto im- 
pero » e non gli inglesi della piccola madrepatria d'un 
tempo — riconoscono di dovere agire concordi per il 
conseguimento di comuni ideali politici. 

Spiritualmente, essi formano un solo popolo, par- 
lante la medesima lingua ed orgoglioso per la mede- 
sima letteratura. 

Economicamente, essi hanno interesse alla costitu- 
zione di un unico grande mercato, dove i rispettivi 
prodotti si scambino liberamente. 

Politicamente, essi sono persuasi della necessità di op- 
porre una fronte comune per la difesa dei propri ideali 
spirituali e dei propri interessi economici contro il comu- 
ne nemico, il quale oggi è la Germania e domani potrà 
essere qualche altro aggregato politico forse extra- 
europeo. Inglesi ed americani sulle rive della Marna 
difendono il suolo francese e, difendendo questo, sanno 
di combattere in difesa della propria esistenza politica 
indipendente. Fu il pericolo della diminuzione oggi e 
della distruzione domani, il quale ridestò i vincoli del 
sangue, e quel pericolo li cementerà vieppiù col tempo. 
Le tredici colonie sa erano separate dall'Inghilterra 
perchè il Canada francese, diventato dopo il 1754 do- 
minio inglese, più non le minacciava a tergo. Oggi il 
sorgere dello spettro della egemonia mondiale germa- 
nica ha persuaso i cugini anglo-sassoni a stringersi nuo- 
vamente insieme. Uniti, essi sono probabilmente in- 
vincibili per secoli. Nessuna nazione al mondo, anche 



85 



se diventasse la potenza egemonica europea, anche 
se il sogno medio-europeo si realizzasse, potrà strap- 
pare al popolo anglo-sassone unito il dominio del mare : 
poiché nessun popolo potrà avere altrettanti marinai 
ed altrettanti navi mercantili, che sono il vero nerbo 
della forza militare marittima. 

Uniti, essi possono difendere il principio della 
porta aperta in Cina e quello di Monroe in America, 
i quali dipendono, per la loro esistenza, dalla conserva- 
zione del dominio dei mari da parte di una potenza 
decisa a non sopraffare altrui. 

Se le due grandi federazioni di popoli liberi proce- 
dono concordi ed unite, l'India potrà a grado a grado 
evolvere verso la comunità britannica, a parità con le 
altre nazioni e senza alcuna rinuncia alle proprie carat- 
teristiche nazionali. 

La permanenza di una lega delle due federazioni 
anglo-sassoni è, finalmente, la condizione essenziale 
per la libertà dell'Italia, della Francia, del Belgio, del- 
l'Olanda, dei Paesi scandinavi, della Grecia e della 
Spagna. La lega anglo-sassone non ha alcun interesse 
ad asservire le nazioni europee, ed ha invece inte- 
resse grandissimo ad impedire che un potere egemo- 
nico possa organizzare 1* Europa e parte dell'Asia per 
minacciare la sua esistenza medesima. Data la scom- 
parsa per un tempo indefinito dalla grande scena po- 
litica del mondo slavo, l'unica speranza di impedire 
l'egemonia germanica in Europa e nel mondo sta nella 
riunione delle due frazioni del popolo anglo-sassone. 
Noi non sappiamo qual forma quella riunione assu- 
merà; probabilmente non di vera riunione politica, ma 



— 186 - 

di lega indirizzata a certi scopi di polizia internazio- 
nale e di difesa della vera libertà dei mari. 

Se questo, che è un programma imposto dalla ne- 
cessità di difesa e di vita, è destinato ad avverarsi, 
un'altra necessità si impone : la federazione, o la lega, 
o la riunione franco-italiana. Nel mondo dei colossi di 
domani, non vi è posto per le nazioni mediocri. Fran- 
cia e Italia, se non vogliono diventare dei Belgio e 
delle Grecie di dimensioni territoriali un po' più vaste, 
viventi per le gelosie dei potenti vicini, devono riu- 
nirsi. Divise, esse sono destinate a diventare nazioni in- 
significanti, oggetti di curiosità storica; riunite, esse co- 
stituiscono il nucleo di un rinnovato Impero Romano 
d'Occidente, verso cui dovrà gravitare la Spagna e con 
la Spagna forse le nazioni italo-spagnuole dell'America 
meridionale, in cui già sorgono voci per il rinsalda- 
rnento dei vincoli con l'antica madrepatria. La guerra 
odierna pone problemi solenni. Guai a quei paesi i 
quali non ne hanno sentore e lasciano passare l'ora, 
la quale può decidere del loro destino per secoli! 

(Dalla Minerva, 16 agosto 1918). 



IL PROBLEMA FINANZIARIO 
DELLA SOCIETÀ' DELLE NAZIONI 

Forse uno dei problemi più difficili da somontare 
per la costituzione della lega delle nazioni è quello di 
creare la sua finanza. Nessun corpo politico può esi- 
stere senza il fondamento di un bilancio di entrate 
e di spese. Una lega delle nazioni, la quale non avesse 
redditi, non potrebbe spendere, e quindi non potrebbe 
efficacemente esercitare quella qualunque autorità che 
gli Stati collegati volessero delegarle. 

Se la polizia dei mari sarà un compito della lega, 
essa dovrà costruire navi proprie da guerra, ripararle, 
mantenere gli equipaggi e lo stato maggiore. Non gio- 
verebbe che un consiglio internazionale di ammiragli 
sovraintendesse ad unai flotta mista di navi apparte- 
nenti alle nazioni collegate. Gelosie, confusione, inef- 
ficacia, sarebbero le conseguenze inevitabili della man- 
canza di unità di comando e di esecuzione. Avrà la 
lega l'ufficio di decretare il boicottaggio commerciale 
di uno Stato recalcitrante alle regole comuni? Siccome 
il boicottaggio danneggia, insieme al paese messo al- 
l'indice, anche i paesi, i quali prima esportavano verso 
di esso, e li danneggia in misura diversa, così dovrà 
escogitarsi qualche mezzo per ripartire uniformemente 
sui confederati il danno prodotto dall'azione voluta 



— 188 — 

nell'interesse di tutti; così da evitare i malcontenti e gli 
screzi di una incidenza disuguale sui singoli. E così via. 

Qualunque funzione, di gestione dei porti interna- 
zionali, dei fiumi, dei canali, degli stretti; di ammini- 
strazione delle colonie; di tutela della proprietà indu- 
striale ed artistica; delle poste, dei telegrafi e dei te- 
lefoni, implica una spesa e quindi un'entrata corri- 
spondente. 

Talvolta, l'entrata è fornita dal servizio stesso, come 
nel caso delle poste, dei canali, dei fiumi ecc.; ma 
tal' altra no, come per compiti politici di polizia inter- 
nazionale. 

Due sistemi principali possono < essere messi innanzi 
per provvedere alla formazione di una finanza della 
costituenda lega delle nazioni : quello che italiana- 
mente si direbbe dei ratizzi e quello' delle imposte 
proprie. 



Dicesi sistema dei ratizzi quello, per cui le nazioni 
collegate si obbligherebbero a versare in un fondo co- 
mune un contributo annuo determinato in ragione della 
popolazione, superficie, ricchezza o reddito nazionale 
rispettivo. Il metodo delle imposte proprie si ha quando 
la lega delle nazioni direttamente si rivolge ai citta- 
dini degli Stati collegati, e loro richiede tributi, che i 
cittadini versano nella cassa della lega, senza passare 
attraverso alle casse del proprio Stato. Col primo si» 
stema i contribuenti sono i singoli Stati; col secondo 
invece i contribuenti sono i cittadini degli Stati col- 
legati. Il primo metodo è meglio ossequente all'idea 
della sovranità statale: il secondo suppone che i citta- 



— 189 — 

dinx si considerino nel tempo stesso sudditi del proprio 
Stato, ad esempio, l'Italia, e dello Stato mondiale, detto 
della lega delle nazioni. 

Pare più agevole accogliere il metodo dei ratizzi, 
come quello che meno perturba l'assetto vigente, meno 
urta il senso di indipendenza delle singole nazioni, e 
non richiede la formazione di un sistema tributario 
superstatale, con proprie imposte, propri esattori, con- 
trollori e proprie tassazioni per i contribuenti. Costoro 
non si inquieterebbero troppo, qualora potessero su- 
perficialmente riflettere che chi paga le spese della 
nuova società delle nazioni è lo Stato; mentre potreb- 
bero rimanere sorpresi nel vedere che il primo e più 
tangibile risultato della costituzione della lega è stata 
l'iscrizione nella bolletta delle imposte dell'esattore di 
una quarta finca, accanto a quelle del comune, della 
provincia e dello Stato, recante l'imposta dovuta alla 
lega delle nazioni. 

Il metodo dei ratizzi, più semplice, più agevole ad 
introdursi, meno urtante contro i sentimenti comune- 
mente nutriti dagli uomini di oggi, offre tuttavia il 
fianco ad obbiezioni gravi. Le hanno sentite tutti gli 
uomini di Stato i quali hanno dovuto lavorare e go- 
vernare alla sua mercè. 

Si potrebbero moltiplicare gli esempi storici. Io mi 
limiterò a qualche citazione, indubbiamente cara al 
presidente Wilson. Scriveva Alessandro Hamilton 
(Works, voi. I, p. 262) che in una società politica il 
potere senza entrate è un puro nome. Ed Alessandro 
Hamilton è una grandissima autorità in argomento, 
poiché fu egli massimamente che, insieme con Jay e 
Madison, col suo giornale The federatisi, promosse la 



— 190 — 

trasformazione della Confederazione delle 13 colonie 
nord-americane del 1781, retta col metodo dei ratizzi, 
nello Stato federale del 1787, governato col metodo 
della finanza propria. Eransi bensì nel 1781 gli Stati 
obbligati ad obbedire alle leggi del congresso dei de- 
legati, e ad osservare in perpetuo le norme fondamen- 
tali della costituzione federale. Di fatto gli Stati non 
ubbidivano, la costituzione non era osservata : sicché 
in pochi anni l'unione, la quale intendeva essere « per- 
petua », sembrava « destinata a cadere sul capo di co- 
« loro, che l'avevano formata, ed a schiacciarli sotto le 
« sue rovine » (The federalist, N. XV). Washington, 
il grande fondatore dell'Unione, era ridotto alla dispe- 
razione dagli ostacoli frapposti dagli Stati a pagare 
puntualmente i loro ratizzi, e dalle condizioni impossi- 
bili, a cui subordinavano il pagamento. « Malgrado la 
« grandezza del compito — scrisse il suo biografo 
« Marshall — la urgenza dei bisogni e la influenza be- 
« nerica che un reddito sicuro in mano del governo 
a avrebbe avuto sulla guerra, mai accadde, finche durò 
(( la confederazione (del 1781), che gli Stati si mettes- 
« sero d'accordo per attribuire al congresso i poteri 
« richiesti; tanto mal disposti sono gli uomini prowe- 
<( duti di potere ad investirne altri, e tanto difficile è di 
« fare qualunque cosa, anche importantissima, la quale 
« dipenda dal consenso concorde di parecchie distinte 
« sovranità ». Il biografo riassume in tratti lapidari le 
lagnanze di cui riboccano le lettere di Washington : 
<( Su qual parte del nostro continente troveremmo un 
(( uomo od un corpo di uomini, il quale non arrossisca 
« nel proporre provvedimenti calcolati appositamente 
« per derubare i soldati del loro soldo ed i pubblici 



— 191 — 

« creditori delle somme loro dovute?... Nessuna visione 
« più melanconica e pungente di quella degli uomini, 
(( i quali hanno versato il sangue o sono rimasti mu- 
ti tilati ai servizio del paese, rimasti senza asilo, senza 
(( amici, privi dei mezzi di ottenere le cose necessarie 
« o confortanti della vita, costretti ad elemosinare di 
« porta in porta il pane quotidiano... ». Eppure agli 
estremi, così commoventemente descritti in questo bra- 
no di lettera di Washington, conduceva la mala vo- 
lontà degli Stati sovrani nel pagare i dovuti ratizzi alla 
cassa federale. 

Alla mala voltnà degli Stati a privarsi della taro so- 
vranità ed a fornire i mezzi di vita allo Stato federale, 
9Ì aggiunga la perpetua gelosia di uno Stato contro 
l'altro. È difficilissima già la prima ripartizione del 
contingente totale tra i vari Stati. 1 criteri della super- 
ficie territoriale e della popolazione sono troppo grezzi 
e riescono ingiusti contro i popoli più poveri. Il cri- 
terio della ricchezza o del reddito nazionale rispettivo 
dei vari Stati, si fonda su valutazioni statistiche certa- 
mente disformi e non comparabili G per lo più anche 
soggette a dubbi gravi intorno alla loro esattezza. Ad 
ogni variazione delle basi di calcolo dei ratizzi, ad ogni 
triennio o quinquennio, ogni Stato farebbe sforzi so- 
vrumani per dimostrare la propria povertà ed impossi- 
bilità a pagare. Troppe volte vedemmo irrigidirsi il 
provento di imposte ripartite con questo metodo nel- 
l'ambito dei singoli Stati, per potere sperare una di- 
versa conclusione nel caso della lega delle nazioni. Ra- 
tizzi irrigiditi, fissi, velenose periodiche controversie, 
malanimo fra gli Stati associati, pagamenti in ritardo o 
mai fatti : ecco ciò che 1* esperienza storica ci insegna 



92 



essere il risultato meglio probabile dell'adozione del 
primo sistema. 

*** 

« La funzione di un ostacolo è quella di essere su- 
perato », ha detto il Presidente Wilson in una di quelle 
sue frasi semplici, scultorie, destinate a restare. Occorre 
solo che l'ostacolo non sia rinascente, periodico, ina- 
sprito dalle meno buone qualità della natura umana, 
come sarebbe nel caso dei ratizzi. 

Gli ostacoli del secondo metodo, quello delle im- 
poste proprie, sono tutti iniziali; sono di quelli che si 
devono e si possono superare con un atto di volontà 
e di rinuncia. Basta che gli Stati collegati rinuncino, 
una volta per sempre, ad una data entrata e la trasferi- 
scano al tesoro della lega. 

Supponiamo, ad esempio, che questa entrata sia il 
provento di certi o di tutti i dazi doganali, di certe im- 
poste sulla produzione di talune merci o su date muta- 
zioni della ricchezza, come le successioni. È un sacri- 
ficio rinunciare a cotal reddito; ma non è senza com- 
penso. Gli Stati singoli dovranno spendere meno per 
l'esercito, per la marina da guerra, per la sorveglianza 
degli Stretti. Il bilancio si alleggerisce all'attivo ed al 
passivo, e le partite ritornano ad equilibrarsi. 

Dopo la rinuncia iniziale, il meccanismo fiscale fun- 
ziona da sé, ali* infuori dei singoli Stati. La lega delle 
nazioni non deve lottare con ognuno degli Stati per 
ottenere l'aumento ed il pagamento del dovuto ratizzo. 
Tratta con i singoli contribuenti, i quali più facilmente 
sono costretti a fare il loro dovere. Non sorgono più 
quistioni intorno alla quota spettante ai singoli Stati, 



— 193 — 

poiché essa è determinata automaticamente dai paga- 
menti, che alla cassa federale ogni « cittadino del 
mondo » farà in ragione dei propri consumi o delle 
proprie ricchezze. Lo Stato, i cui cittadini consume- 
ranno più carbone o più caffè — supponendo che queste 
due merci, cito a caso, siano scelte per una tassazione 
federale — pagherà di più; quello, i cui cittadini rice- 
veranno eredità più cospicue, pagherà di più. 

Se dapprima il sistema tributario federale sarà zop- 
picante, il difetto col passare dei decenni e coli' accu- 
mularsi dell'esperienza, sarà migliorato; così come si 
migliorano i sistemi tributari statali. 

Il mglioramento di esso sarà sempre un problema 
di più equa ripartizione dei tributi tra varie categorie di 
contribuenti, non mai tra Stati, e si potrà risolvere sulla 
base dei criteri generali, con cui si risolvono tutti i 
problemi di ripartizione dei tributi. 

Fa d'uopo non esagerare neppure troppo l'impor- 
tanza degli ostacoli, i quali dovranno essere superati 
nel mettere in moto la macchina fiscale della lega. Ho 
detto dianzi che gli Stati dovrebbero rinunciare a qual- 
cuna delle loro entrate. Occorrendo, basterà che trasfe- 
riscano alla lega il diritto di imporre, entro certi lìmiti 
di ammontare o di percentuale, su certe merci o certe 
ricchezze; nulla vietando che, ad es., oltre il 5 o il IO 
per cento sul valore, riservato alla lega, i singoli Stati 
possano poi sovrimporre dazi o tributi addizionali, così 
come parrà opportuno ai singoli legislatori. 

Non è nemmeno necessario che la lega crei di sana 
pianta una propria nuova amministrazione fiscale. Le 
esistenti amministrazioni dei singoli Stati — dogane, 
ricevitorie del registro — potrebbero incassare, insieme 



ts 



— 194 — 

colle proprie, le imposte federali e versarle nella cassa 
comune. La lega potrebbe dapprincipio contentarsi di 
mandare in giro propri controllori per verifiche e rese 
di conti periodiche. 

A poco a poco, col crescere dell'importanza delle 
funzioni della lega, coli' abituarsi dei popoli alla soia 
esistenza, col graduale migliore apprezzamento dei suoi 
utili risultati, sarà possibile creare una amministrazione 
finanziaria federale, diversa da quella statale. 1 singoli 
problemi di applicazione si risolvono strada facendo. 

Qui ho voluto solo, in rapidi tocchi, segnalare l'im- 
portanza del problema fondamentale della necessità di 
una finanza della lega, ed indicare i vantaggi e gli in- 
convenienti precipui delle due vie, che si possono per- 
correre per risolvere quel problema. 

(Da L'Unità, 18 gennaio 1919). 



FEDERAZIONE EUROPEA 
O SOCIETÀ' DELLE NAZIONI? 

G. AGNELLI e A. CABIATI : Federazione Europea o 
Lega delle Nazioni? Un voi. di pp. VII- 126. In deposito 
presso i Fratelli Bocca, Ed., Torino, 1918. 

Il libro, che qui si annuncia, scritto in collaborazione 
da un fine economista nostro collaboratore, il prof. At- 
tilio Cabiati, e da Giovanni Agnelli, industriale, crea- 
tore ed amministrare delegato di una delle maggiori e 
più celebri fabbriche di automobili del mondo, la Fiat, 
viene in buon punto. Pensato e discusso sin dalla fine 
del 1916, scritto evidentemente nel primo semestre di 
quest'anno, quando la Germania, affermato il suo do- 
minio nelle Provincie Baltiche, vinta la Russia, schiac- 
ciata la Rumenia, pareva avesse trasformato in realtà 
il sogno della Mirtei Europa da Anversa a Bagdad e 
sembrava dovesse vincere le ultime resistenze francesi, 
mentre l'Austria tracotante minacciava dal Piave, è di- 
venuto di ancor più viva attualità oggi che le parti sono 
mutate e l'intesa ha vinto. La premessa necessaria al- 
l' attuazione del loro piano, che gli A. A. pongono in 
fine del - volume : bisogna vincere — è un fatto com- 
piuto. E su questa base si può cominciare a ricostruire. 
Come? In una recensione non è possibile seguire lo 
sviluppo compiuto del pensiero degli autori, che è fon- 



— , 1% — 

dato sulla miglior letteratura in proposito e nutrito di 
appropriati ricordi storici e di sodi ragionamenti. 11 
« nodo vitale » del problema, come lo chiamano gli 
A. A., è il seguente : Il concetto di « società delle na- 
zioni » è troppo vago, instabile per potere dar luogo 
ad una creazione politica permanente. L'esperienza 
storica è lì per provare l'impossibilità di raggiungere 
fini concreti sulla base di una semplice lega di nazioni : 
dalla confederazione delle città greche del 470 a. C, 
alle Provincie Unite del secolo XVIII, dal Sacro Romano 
Impero (800-1806) alla Confederazione germanica del 
secolo XIX, dalla Santa Alleanza alla Confederazione 
nord-americana del 1776-87. Tutti insuccessi indispu- 
tabili e necessari : perchè nessun Stato può esistere lad- 
dove manca un potere centrale munito di mezzi pecu- 
niari propri e di un esercito. Se le Federazioni di Stati 
conducono alla discordia ed alla guerra, resistono e 
prosperano invece gli Stati federali : Confederazione 
Svizzera, Stati Uniti d'America ed anche Impero Ger- 
manico. Bisogna interpretare il concetto della società 
delle nazioni non nel senso di una società di Stati in- 
dipendenti, i quali assumerebbero impegni di buona 
amicizia e prometterebbero di accordarsi per punire i 
recalcitranti violatori della pace comune — che è poco 
più del vecchio concetto della « bilancia delle po- 
tenze »; ma addirittura nel senso di una « Europa fe- 
derale ». Stati indipendenti e liberi di sviluppare in 
ogni senso le loro attitudini e le loro capacità di vita 
e di progresso, salvo-che in alcuni campi determinati : 
politica estera, forza armata di terra e di mare, finanza 
federale, politica doganale. Questi compiti sarebbero 
arridati ad un potere centrale, ad imitazione di ciò che 



— 197 — 

accade in quei tipi di Stati federali in cui il governo cen- 
trale ha quei soli poteri che gli sono assegnati dalla 
costituzione. Forze potenti spingono alla creazione di 
questo ente superiore : 1) la impossibilità di poter fare 
fronte alle conseguenze finanziarie della guerra altri- 
menti che col ridurre le forze armate alle poche de- 
cine di migliaia d'uomini necessari al mantenimento 
dell'ordine pubblico; 2) la difficoltà di potere diversa- 
mente distruggere a fondo le caste militari viventi sulla 
guerra; 3) la difficoltà di semplificare la vita togliendo 
gli impacci ora esistenti nei passaggi da Stato a Stato; 
4) la possibilità, che vi sarebbe, di risolvere il problema 
delle colonie, impedendo che queste diventino campo 
di sfruttamento dei singoli Stati; 5) la necessità in cui 
sarebbero gli Stati federali più indietro nella legisla- 
zione sociale, nella igiene, nella istruzione di portarsi 
al livello dei paesi più progrediti; 6) i vantaggi enormi 
della unificazione dei mercati. Qui fa d'uopo riprodurre 
la bella pagina scritta dagli A. A., non tanto perchè essa 
porta la firma del Cablati, le cui idee erano ben note, 
quanto perchè essa reca altresì la firma di uno dei più in- 
traprendenti capitani industriali della nuova Italia : « In 
Europa eravamo arrivati a questo colmo di assurdo, che 
ogni fabbrica che sorgeva in uno Stato costituiva una 
spina nel cuore per ogni altro Stato : che, mentre le su- 
perbe invenzioni tecniche del vapore applicato ai traspor- 
ti di terra e di mare, dell' elettricità come forza motrice, 
del telegrafo e del telefono avevano ormai annullato le 
distanze e reso il mondo un unico grande centro e mer- 
cato internazionale, i piccoli uomini si affannavano con 
ogni loro possa ad annullare gli immensi benefici delle 



— 198 — 

grandi scoperte, creando artificiosamente mercati iso- 
lati e piccoli centri di produzione e di consumo. 
E sembravano non accorgersi che il sistema protezio- 
nista aveva finito con l'uccidere sé stesso e col rendere 
il lavoro una tortura e non una gioia. Poiché, volendo 
ogni Stato proseguire gli stessi fini, produrre di tutto, 
produrre su vasta scala, mai come nell'ultimo venten- 
nio quella concorrenza che si aveva avuto in mira di 
evitare si era fatta più acuta, più spasmodica, più raffi- 
nata e violenta. Si lavorava in grande, sempre più in 
grande, a squadre e con fuochi continui, con un mar- 
gine di guadagno sempre più ridotto, con lo spavento 
incessante di ciò che faceva, di ciò che pensava, di 
ciò che inventava l'estero. Solo l'Europa federale potrà 
darci la realizzazione più economica della divisione del 
lavoro, con la caduta di tutte le barriere doganali. Basta 
pensare alla pesantezza dell' armamentario artificioso 
che oggi grava su quasi tutta l'Europa continentale; ai 
a doppioni » industriali creati dalla protezione; alla di- 
struzione quotidiana di ricchezze che ne deriva; agli 
ostacoli contro la rapidità degli scambi e della circola- 
zione dei beni; alla farraginosa legislazione economica 
che tutto ciò importa, con una non meno farraginosa e 
costosa burocrazia, per comprendere come basterebbe 
l' estirpazione di questo cancro dall'Europa, per com- 
pensarci in breve degli sforzi a cui ci ha assoggettato 
la guerra. Quale è la persona ragionevole la quale può, 
senza timore, prospettare la possibilità che, dopo un 
conflitto così gigantesco, si possa riprendere una poli- 
tica economica di preferenze, di esclusivismi, di loca- 
lizzazione, riversandone il carico sui consumatori 



199 



esausti? Una economia europea la quale, sostituendosi 
con prudenza e graduali adattamenti alle economie 
particolaristiche degli odierni singoli Stati, realizzi in 
pieno la divisione del lavoro, ci darà, col benefìcio mas- 
simo dei produttori, quel ribasso dei prezzi che per- 
metta ai consumatori di sopportare gli oneri finanziari 
della guerra senza un esaurimento delle proprie forze 
fisiche e creative. 11 problema delle ripartizioni delle 
materie prime, quello dei trasporti, quello dei prodotti 
alimentari, che affannano tutti i comitati europei per lo 
studio del dopo guerra, si troveranno automaticamente 
risolti. E T ampliarsi gigantesco del mercato da nazio- 
nale in continentale farà sì che gli industriali, superato 
il primo periodo di assestamento, troveranno dinanzi 
a sé tali capacità insospettate di assorbimento, che le 
industrie ne riceveranno lo stesso slancio gigantesco 
di cui diede prova l'industria americana dopo la guerra 
di secessione ». Quando gli industriali italiani, che la 
pensano come l'Agnelli, sapranno accordarsi per una 
linea d'azione decisa o coerente, che sia di freno alle 
pretese ed agli spropositi dei loro colleghi protezionisti, 
per Io più tali per mancanza di riflessione? 

Sul <( punto vitale » non v'è dubbio che hanno ra- 
gione gli A. A.; d'accordo in ciò con tutti gli studiosi 
seri che si sono occupati dell'argomento. 11 concetto di 
« società delle nazioni » è utile come parola d'ordine; 
è una formula politica conveniente per chiarire le posi- 
zioni, distinguere, anche in seno alle nazioni dell'Intesa, 
coloro che vollero la guerra per fini di sopraffazione, da 
coloro che vollero conseguiti i fini nazionali, come ne- 
cessaria premessa al raggiungimento di nuovi alti scopi. 
Ma è un concetto indubbiamente indefinito. Bisognan- 



— 200 — 

do cominciare dal dargli un contenuto, l'unico conte- 
nuto serio, vitale è quello dello « Stato federale ». Non 
basta una associazione più o meno umanitaria fra Stati 
sovrani; fa d'uopo un super-Stato, fornito di organi 
propri e di forze finanziarie adeguate. Ma a quale ter- 
ritorio si deve estendere questo Stato federale? Ho 
paura che nel momento presente lo « Stato federale 
europeo », quale è prognosticato dagli A. A., sia nel 
tempo stesso troppo e troppo poco. Troppo, se si pon 
mente alle profonde differenze nazionali che interce- 
dono fra una contrada ed un'altra dell'Europa. Italiani, 
francesi, spagnuoli, tedeschi, magiari, slavi del sud, bul- 
gari, greci, polacchi, russi, rumeni, scandinavi sono 
pronti a mandare rappresentanti ad un parlamento fe- 
derale, a pagare imposte comuni, a mantenere un solo 
esercito? Par dubbio; e par dubbio perciò che l'uomo 
di Stato debba proporsi di raggiungere una mèta, la 
quale non abbia probabilità di essere sentita dai suoi 
governanti. Il processo di formazione di Stati nazionali, 
violentemente impedito dall'esistenza di Stati anacro- 
nistici, come l' Austria-Ungheria, la Turchia, la Russia 
deve prima avere il suo compimento. Questo vogliono 
i popoli che fin qui erano oppressi da popoli stranieri 
egemonici; e non capirebbero affatto si volesse sosti- 
tuire al loro presente un altro ideale. Per essi, e forse 
anche da un punto di vista generale, la costituzione di 
un'Europa federale sulla base degli Stati preesistenti 
alla guerra sarebbe stata una sventura. Il « troppo » sta 
dunque in ciò che un'Europa federale non si può con- 
cepire costituita se non da e fra popoli, i quali vi siano 
spinti da comunanza di interessi, di affetti, di tradi- 
zioni, di volontà, di scopi da conseguire. Questa la pre- 



— 201 — 

messa di tutti gli Stati federali : Stati Uniti, Canada, 
Australia, Africa del Sud, Impero germanico, Svizzera. 
Finora, questa comunanza non si sente se non da una 
parte dei popoli dell'intesa; una parte, dico, che dal- 
l'intesa si è già straniata la Russia, mentre i legami che 
l'avvincono ai popoli liberati dalla Russia e dall'Austria 
sono ancora poco saldi. D'altro canto un'Europa fede- 
rale è troppo poco. Comprenderemo in essa l'Inghil- 
terra? Ma allora non si può più parlare di una « Europa 
federale », bensì di un grande Stato mondiale federale 
comprendente la comunità britannica delle nazioni e 
le nazioni europee, con le loro colonie. Chi sappia le 
difficoltà quasi insormontabili che si incontrano per 
dare una costituzione veramente fedeiale alla common- 
wealth britannica, impallidisce al pensiero di creare un 
ente ancor più vasto e complicato. Rimarrà fuori l'In- 
ghilterra? In tal caso, l'Europa federale sarebbe una 
Europa media ingrandita, in cui dominerebbe probabil- 
mente il gruppo nazionale più compatto, quello germa- 
nico. Tra i risultati probabili di una siffatta formazione 
politica v'ha una futura lotta di supremazia fra l'Eu- 
ropa continentale e il mondo anglo-sassone (Impero 
britannico e Stati Uniti d'America). Dopo avere lottato 
a morte e sacrificato milioni di vite e centinaia di mi- 
liardi di ricchezze, Francia ed Italia abbandonerebbero 
i loro fedeli alleati d'oggi e si fonderebbero con chi 
voleva ridurli a vassalli. In conclusione, il piano di una 
Europa federale non è abbastanza realistico perchè è 
troppo razionale, troppo economico. Se i popoli sapes- 
sero ragionare e ragionassero soltanto dal punto di 
vista del loro vantaggio, quel piano sarebbe tra le cose 
attuabili. Non mi pare oggi lo sia, perchè non tiene 



202 



abbastanza conto degli imponderabili : sentimento di 
nazionalità, tradizioni, amor della indipendenza, de- 
cisione a vivere miseramente pur di ricuperare una 
vetta od un fiume sacro. Il mondo è bello e grande 
a causa degli imponderabili. Bisogna costruire te- 
nendo conto di essi. In articoli sulla Minerva, scritti 
a parecchie riprese dal 1915 al 1918, ho delineato 
quali siano, a parer mio, le vie della ricostruzione. La 
guerra presente ha rinsaldato una di queste grandi co- 
struzioni di super-Stati : la comunità britannica delle na- 
zioni; ed il Beer nel suo classico libro ha descritto le 
forze le quali spingono alla unione dei popoli di lin- 
gua inglese : comunità britannica e Stati Uniti d'Ame- 
rica. Dal mondo slavo in effervescenza non si sa cosa 
verrà fuori; ma non è fuor di luogo immaginare il sor- 
gere di due federazioni slave, l'una del Sud — Boemia, 
Jugoslavia, Bulgaria — l'altra del Nord-Est corrispon- 
dente all'incirca all'antica Russia. I tedeschi rimarranno, 
blocco compatto, al centro d'Europa. Sarebbe un di- 
sastro storico se Italia e Francia, ricondotte ai loro sto- 
rici naturali confini, non riuscissero a ricostruire l'an- 
tico impero romano d'occidente. Dopo millecinquecento 
anni di spinte germaniche dal nord ed arabe dall'orien- 
te, gli eredi delle genti latinizzate da Roma sono riu- 
sciti a ricondurre le loro bandiere quasi agli antichi con- 
fini. Se la Spagna entrasse nella nuova costellazione po- 
litica, il mare mediterraneo diventerebbe nuovamente 
nella sua parte occidentale un lago latino. Colonie im- 
mense da sfruttare, territori politicamente annessi da 
colonizzare non farebbero difetto : un'opera di secoli 
da compiere si presenta ai nostri occhi. E tutto ciò senza 
rinunciare alle nostre caratteristiche di cultura, di lin- 



— 203 — 

gua, di tradizioni. Irresistibilmente, l'America del Sud 
finirebbe di aderire ad una Unione latina. La quale non 
starebbe a paro dell'Unione anglo-sassone; ma nep- 
pure troppo al disotto ed, avendo comuni le origini nella 
medesima guerra di liberazione, difficilmente potrebbe 
essere tratta a lotta cruenta con essa. Frattanto, se a 
poco a poco si attiverà la parte veramente sostanziosa 
dell'idea wilsoniana della lega delle nazioni : unioni in- 
ternazionali specifiche doganali, coloniali, ferroviarie, 
fluviali, per gli stretti, monetarie, ecc. ecc., simili a 
quelle già esistenti per le poste, per i telegrafi, per la 
protezione della proprietà letteraria ed industriale, ver- 
ranno a poco a poco meno i sentimenti che oggi spin- 
gono alla guerra. Quando questa parrà assurda agli uo- 
mini, come oggi pare assurdo il cannibalismo ed a 
molti il duello, la guerra cesserà da sé. E gli uomini 
faranno, senza accorgersene, l'ultimo passo non verso 
l'Europa federale, ma verso la costituzione di un or- 
gano supremo, che noi oggi non sapremmo neppure 
bene definire, per regolare gli affari comuni a tutti i 
popoli del mondo. E nessuno dei grandi aggregati poli- 
tici esistenti : quello anglo-sassone, quelli latino e ger- 
manico e slavo e cino-giapponese vedrà una menoma- 
zione della propria indipendenza nella creazione di que- 
st'organo comune, perchè le menti degli uomini saran- 
no abituate all'idea che non a tutto è capace lo Stato, 
sia nazionale, sia supernazionale e che, come in uno 
Stato vi sono comuni e prò vinci e e governo centrale, 
così nel mondo possono coesistere governi diversi, gli 
uni applicati a risolvere problemi nazionali, gli altri su- 
pernazionali o mondiali. 

(Da La Riforma Sociale, novembre-dicembre 1918). 



IL GOVERNO DELLE " COSE „ 

« Soltanto la liberazione internazionale 
delle classi lavoratrici dal dominio capita- 
listico potrà dare alle Nazioni la possici, 
lità di restaurare rapporti di fraternità e 
di concordia, perchè il governo delle cose, 
sostituito al governo delle persone, assicu- 
rerà a tutti la vita di un regime di giu- 
stizia e di eguaglianza ». 

(Da una lettera aperta del segretario del 
Partito Socialista Italiano, Costantino 
Lazzari, al Presidente degli Stati Uniti 
Wilson, del 3 gennaio 1919 e pubblicata 
neU'Avanti ! del 4 gennaio 19 19). 

Non ho citato questo brano di prosa socialista uffi- 
ciale italiana per discutere i concetti che vi sono conte- 
nuti; che mi parrebbe arduo assunto precisare il valore 
di due affermazioni inspirate unicamente alla fede e 
prive di qualsiasi appoggio nlell' esperienza storica o 
psicologica e nel ragionamento. Come « la liberazione 
intemazionale delle classi lavoratrici dal dominio ca- 
pitalistico possa restaurare rapporti di fraternità e di 
concordia fra le nazioni » è misterioso, tanti essendo 
nella storia gli esempi di società « non capitalistiche » 
e talora « comunistiche » tra di loro guerreggianti; ed 
è ancora più difficile indovinare in qual maniera un go- 
verno di cose sostituito a quello delle persone possa 
(( assicurare la vita di un regime di giustizia e di egua- 



— 206 — 

glianza ». Queste affermazioni vaghe e solenni nei tem- 
po stesso, questa insistenza nel fare del regime capita- 
listico l'unico motore della storia e l'unica spiegazione 
delle guerre e delle paci, del caro viveri e del contento 
e malcontento sociale è un'altra testimonianza dell'iso- 
lamento intellettuale in cui l'adorazione del Vangelo di 
Carlo Marx ha posto i seguaci della fede socialista; sic- 
ché oggi non si accorgono che quella che poteva sem- 
brare, sebbene non fosse, una grande scoperta sci enti- 
fica ai suoi tempi, oggi è stata superata e nessuna sto- 
ria più si scrive, la quale si inspiri a quell'unico ca- 
none, che fece la fortuna del materialismo storico. Ma 
il Lazzari ed i suoi compagni non vogliono scrivere sto- 
rie. Vogliono fare della storia; ed all'uopo indubbia- 
mente giova bandire un verbo, il quale, alla pari di 
tutti i misteri, faccia presa sulle moltitudini e, colla pro- 
messa del paradiso terrestre, le spinga all'azione. 

Citando quel brano fu invece mio proposito rilevare 
la frequenza con cui nei programmi politici di tutti i 
partiti compare una frase, che il barone Manno avrebbe 
potuto acconciamente illustrare nel suo libro intorno al- 
la (( fortuna delle frasi » : quella del « governo delle 
cose sostituito al governo delle persone ». L'occasione 
particolare in cui la frase è ripetuta poco interessa. Im- 
porta invece rilevare come essa venga introdotta nel 
discorso politico per ottenere un certo effetto di persua- 
sione e quasi di sbalordimento, che nessuna frase po- 
trebbe ottenere, se per lunga consuetudine dessa non 
fosse oramai penetrata nella mente degli ascoltatori e 
non avesse la virtù di persuaderli irresistibilmente della 
verità della tesi sostenuta dall'oratore e dallo scrittore. 



207 — 



*** 



Non ho tempo, e forse non ne varrebbe la pena, 
di ricercare, colla pazienza di un Manno, le origini del- 
la fortuna di quella frase. Ho la vaga impressione che 
quell'orìgine sia italiana. Non mi è accaduto di tro- 
varne traccia nella letteratura politica inglese, che è la 
fonte di ogni sapienza politica moderna; ma di ciò for- 
se la colpa è dovuta alle mie scarse letture. Tuttavia si 
può osservare che ne quella frase ne alcun' altra che le 
si avvicini è studiata nell'aureo libro di Sir George Cor- 
newall Lewis intitolato Remarl^s on the use and abuse 
of some Politicai Terms, il che mi fa credere che nel 
1832 quel concetto non fosse ne popolare ne apprez- 
zato nel mondo politico britannico. Ed i primi parla- 
mentari nostri erano troppo imbevuti di teorie inglesi, 
troppo persuasi della necessità di far trionfare la teoria 
nella pratica per adattarsi a bandire un concetto che 
avrebbe lor saputo troppo di materialismo. Il curioso 
il quale ricercasse le origini della frase probabilmente 
non avrebbe gran successo nel periodo anteriore al 1876, 
quando nel parlamento e fuori si combattevano grandi 
battaglie fra principii ed idee opposte. Le mie remini- 
scenze mi porterebbero a credere che il grido « biso- 
gna sostituire il governo delle cose al governo delle 
persone » sia divenuto frequente e popolare durante il 
trasformismo, quando faceva d'uopo trovare qualche 
« motivo » semplice e trascinante di critica al caleido- 
scopio di ministri e di ministeri, che fu caratteristico del 
lungo governo personale di Depretis. Crebbe la sua 
forza persuasiva ed acquistò quasi valore di assioma 
quando, scomparso Depretis, si vide il governo d'Italia, 



— 208 — 

dopo l'interregno di Crispi, cadere e rimanere a lungo 
nelle mani di un'altra persona, il Giolitti, governante 
anch'egli a mezzo di suoi devoti servitori. Parve al- 
lora alta sapienza politica invocare un governo « di 
cose », che facesse contrapposto al governo u persona- 
le » di quegli uomini. E l'accettazione dell'assioma fu 
facilitato dal diffondersi del cosidetto socialismo « scien- 
tifico » e dal suo affermarsi nelle aule parlamentari; 
essendo ben noto che una delle idee madri del socia- 
lismo cosidetto « scientifico », forse anzi la sua idea 
filosofica fondamentale è quella esposta da Marx in suc- 
cinto col dire che, mentre Hegel pone la storia sulla 
testa, bisogna capovolgerla per rimetterla sui piedi. Ed 
ognuno sa che, in base a questo capovolgimento, la sto- 
ria dovrebbe essere spiegata con le variazioni dei pro- 
cessi di produzione, delle macchine e cose simili. Poi, 
siccome le idee stanno nella testa degli uomini e non 
nello stomaco o nei piedi o nei processi produttivi o 
nelle macchine, parve di buon tono credere che fosse 
una nuovissima e grandissima scoperta scientifica l'a- 
ver immaginato che la storia non la facessero gli uo- 
mini, colle loro idee, passioni e sentimenti, ma gli og- 
getti inanimati che circondano l'uomo e di cui questi 
si deve servire per soddisfare ai suoi bisogni. E si sentì 
discorrere delle cose che fanno la storia, della neces- 
sità di sostituire nelle scuole allo studio delle battaglie 
e delle successioni e delle vite e morti dei re e dei gran- 
di uomini, lo studio delle istituzioni, delle moltitudini, 
dell' « ambiente » economico, infine delle a cose », che 
inducono gli uomini a muoversi e ad agire, come fan- 
no i fili alle marionette in un teatro di burattini. Così, 
la frase « governo di cose e non governo di persone » 



— 209 - 

nata dal fastidio di trentanni di governo « personale » 
acquistò dignità di sentenza filosofica ed il suo potere 
magnetico di convincimento immediato divenne più 
grande che mai. 

*** 

Se il Lazzari avesse semplicemente scritto che « sol- 
tanto la liberazione delle classi lavoratrici dal dominio 
capitalis-tico potrà dare alla nazioni la possibilità di re- 
staurare rapporti di fraternità e di concordia perchè solo 
essa può assicurare a tutti la vita di un regime di giu- 
stizia e di uguaglianza » i lettori de\Y Avanti! sareb- 
bero rimasti ugualmente persuasi, essendo i lettori dei 
giornali, di qualunque giornale, per definizione propen- 
si a lasciarsi persuadere dal loro foglio prediletto; e 
tanto più sarebbero rimasti persuasi in quanto si trat- 
tava della ripetizione, con parole variate, sotto forma 
prima di teorema dimostrando e poi di dimostrazione, 
del medesimo « mistero ». Ma sarebbe mancata quella 
pienezza di persuasione, che può nascere dall' addurre 
a prova di un concetto un principioi universalmente noto, 
al quale tutti per moto spontaneo si inchinano. Quel 
principio è (( il governo delle cose sostituito a quello 
delle persone »; notissimo, sentito le mille volte ripe^ 
tere, non oppugnato da alcun uomo politico, anzi da 
tutti assunto come segnacolo in vessillo; eppereiò do- 
tato di una irresistibile forza convincente. Quando in 
una assemblea politica si sente l'oratore bandire con 
forza la necessità di sostituire il governo delle cose al 
governo delle persone, par di vedere le teste degli ascol- 
tatori inchinarsi in segno di approvazione e le mani 
alzarsi da se per plaudire; e chi, per giovinezza od ine^- 



14 



— 210 — 

sperienza di cose politiche, sente per la prima volta 
quella frase è tratto a pensare, vergognandosi di se me- 
desimo e della sua ignoranza, che il significato di essa 
deve esser ben chiaro e ben profondo se il consenso 
degli ascoltatori è così pieno e pronto. Ne, d'allora in 
poi, egli tarderà ad unire i suoi ai segni di approva- 
zione universali, ogni qual volta quella frase giungerà 
al suo orecchio. 

*** 

I guai cominciano quando lo stupefatto ascoltatore 
tenta di rendersi ragione della vergogna che lo ha as- 
salito quando s'avvide di non sapere quel che gli altri 
dimostravano di comprendere così facilmente col plau- 
so delle mani e con l'assenso di tutte le membra. Che 
cosa sarebbero queste tali « cose » le quali dovrebbero 
governare in luogo degli « uomini »? Cose sono tutto 
ciò che esiste ad eccezione degli uomini. Pare che le 
cose debbono essere oggetti materiali, tangibili e mi- 
surabili od almeno estrinsecazioni esteriori di una atti- 
vità umana. È « cosa » una macchina, un campo, un 
albero, un libro, un quadro; sono cose anche un discor- 
so, una lezione, in quanto il discorso e la lezione si 
separino dalla persona dell'oratore, e certi moti delle 
labbra diano luogo a certe vibrazioni dell'aria che si 
comunicano all'ascoltatore. Non pare che possano es- 
sere definite « cose » le qualità di intelligenza e di cul- 
tura che consentono all'oratore di fare il discorso e nep- 
pure le idee che vi sono contenute. Non sembra nem- 
meno che le (( azioni » compiute dagli uomini in se- 
guito a quei discorsi od a quelle idee possano essere 
definite « cose! ». 



— 211 — 

Se tutto ciò è vero, come si può, con esattezza let- 
terale di linguaggio, augurarci di essere governati dalle 
« cose » invece che dagli uomini?' È già repugnante pen- 
sare che si possa affidare il governo della società ai 
piedi od allo stomaco degli uomini; ma pare privo di 
senso volerlo affidare addirittura ai sassi, agli alberi, 
alle macchine, ai libri ed ai discorsi, intesi questi ulti- 
mi come oggetti tangibili o misurabili o fonograf abili. 
Le frase dunque « governo delle cose » intesa nel suo 
significato letterale è priva di senso. 



Ove glie se ne voglia dare uno ragionevole, si pre- 
senta alla mente quello di governo condotto in base 
alla « natura delle cose », al ragionamento, alla logica. 
La frase sarebbe perciò un appello a governare in base 
ad idee generali, a principii dimostrabili e tali da so- 
stenere l'urto della pubblica critica. Le « cose » stareb- 
bero al posto della vecchia, alquanto screditata « ra- 
gione ». In un'epoca di materialismo e di positivismo 
si aveva un po' di ritegno nell'invocare l'avvento della 
« ragione », la quale aveva dato così belle prove di se 
durante il periodo aureo in cui essa imperò, producen- 
do le costituzioni di carta della rivoluzione francese, il 
terrore e Napoleone. Parve più « positivo » invocare 
che gli uomini si dovessero governare secondò l'ordine 
naturale delle « cose », il che vorrebbe dire secondo 
la « ragione » p'ositivisticamente intesa, quella che vuo- 
le giungere alla massima felicità del maggior numero 
degli uomini. Il contrapposto delle « cose » agli « uo- 
mini » dovrebbe mirare ad escludere quel che vi è di 



212 



fazioso, di personale, di passionale, di sentimentale nel- 
l'anima dei governanti come dei governati. Si vorrebbe 
il governo secondo leggi oggettive ed imparziali, in- 
vece che secondo l'arbitrio degli uomini. 

Anche questa è una definizione oltremodo debole 
della frase governo delle « cose ». La esperienza sto- 
rica prova essere impossibile governare secondo « ra- 
gione »; ed essere un fatto incontroverso che i senti- 
menti, le passioni ed anche i pregiudizi degli uomini 
sono una forza di valore grandissimo di cui devono te- 
nere assai conto la scienza e l'arte di governo. Si pos- 
sono produrre effetti perniciosissimi quando si pretenda 
governare col solo sussidio della ragion ragionante; 
mentre spesso le nazioni furono condotte ad alto grado 
di prosperità da uomini poco sapienti e volitivi, i quali 
seppero volgere a mete sublimi le passioni, anche ir- 
ragionevoli, delle moltitudini. L'oggettività e la impar- 
zialità, che risiederebbero nelle « cose » non danno af- 
fatto alcuna garanzia di governo efficace e corretto. Go- 
verni celebrati nella storia come i migliori, che lascia- 
rono dietro di se più buon ricordo nelle popolazioni 
non furono quelli condotti colla logica del puro ragio- 
namento. Dove e quando furono tentati, i governi « lo- 
gici )) diedero assai lacrimevole prove di sé. 

Una variante del concetto delle « cose governatici 
degli uomini » è quella degli avvenimenti i quali acca- 
drebbero all' infuori degli uomini e che spingerebbero 
costoro innanzi come tratti da un turbine al quale sa- 
rebbe follìa resistere. Specialmente in tempi torbidi la 
teoria degli avvenimenti « superiori alla volontà degli 
uomini » ha gran voga. Non più le cose materiali; ma 
certi influssi extra-umani agirebbero potentemente a de- 



213 



terminare le vicende politiche, traendo, con una forza 
magica, ad esempio, la Russia dallo Czar ai Cadetti, 
dal principe Lvoff a Kerenski a Lenin ed a Trotzki; ed 
oggi la Germania da Guglielmo II a Massimiliano di 
Baden e poi ad Ebert e quindi, se noni fosse stato nel 
frattempo fucilato, a Liebkneeht; ed ambedue i paesi 
ad altri « fatali » e non mutabili destini. Una cosa mi- 
steriosa ed inosservabile, il « fato » o la « storia » od 
il « progresso » dalla nobiltà alla borghesia e da questa 
al proletariato guiderebbe gli uomini e vana sarebbe 
ogni resistenza. 

È questa la teoria dei vinti, dei fiacchi e dei timidi. 
Luigi XVI non osava dare l'ordine con cui un sottote- 
nente d'artiglieria, che poi si chiamò Napoleone, si te- 
neva sicuro di sapere incanalare la rivoluzione verso 
una meta diversa da quella che fu raggiunta in man- 
canza di una mano ferma e capace di indirizzarla. Se 
si analizza a fondo la « cosa » inesplicabile, si vede che 
gli avvenimenti di ieri e di oggi non sono « fuori di 
noi », ma in noi stessi, e la loro direzione e la loro ve- 
locità sono determinate dalla nostra volontà od assen- 
za di volontà, dalla nostra operosità od ignavia, dalla 
consapevolezza dei nostri doveri, dalla quantità di sa- 
crificio e di sforzo che siamo disposti a sopportare pur 
di raggiungere la meta da noi voluta o di impedire che 
altri raggiunga una meta non voluta da noi. Quante 
volte l'unità italiana parve una vana utopia e non fu 
essa tuttavia raggiunta per la tenace volontà di pochi 
uomini che si chiamavano Cavour, Mazzini, Garibaldi? 
L'indipendenza americana e la vittoria del Nord libe- 
ratore contro il Sud schiavista non furono forse avve- 
nimenti tutt* altro che « fatali »; non furono anzi mira- 



— 214 — 

coli dovuti alla tenacia di volontà di uomini che ei> 
bero nome Washington e Lincoln? Se domani un go- 
verno supernazionale sarà un avvenimento concreto, 
chi oserà affermare che esso sia stato un avvenimento 
imposto dal di fuori agli uomini, e non invece un'idea 
pura concepita dai filosofi ed imposta agli uomini re- 
calcitranti da un uomo degli altri più veggente e tena- 
ce? Certo, nessuna idea si attua d'un tratto, appena con- 
cepita; e tale rapidità sarebbe una sventura per gli uo- 
mini, soggetti ad un turbinio incomposto di esperienze 
inconcludenti. Ogni idea ha la sua genesi in idee pre- 
cedenti, da cui essa germina e che essa è destinata a 
a superare. È un privilegio del genio quello di scovrire 
ed affermare l'idea politica la quale in un dato mo- 
mento è il perfezionamento possibile più alto delle idee 
precedenti e dominanti; ma nel far ciò egli non accetta 
un verbo impostogli da un misterioso ed inafferrabile 
(( al di fuori », sebbene, conoscendo profondamente se 
stesso e gli altri uomini, le loro passioni, i loro senti- 
menti, le loro idee ed aspirazioni, sa formulare quel- 
l'ideale che è più capace di trascinarli verso un gra- 
dino più alto della loro vita materiale e spirituale. 



Alcuni confondono le « cose » con i « programmi ». 
Sfiduciati per aver veduto troppo spesso gli uomini ar- 
rivati al potere governare dimenticandosi delle fatte 
promesse, sognano un paese, in cui i governati sareb- 
bero gli esecutori di un certo numero di punti di un 
programma bandito nelle elezioni in contraddittorio con 
altri programmi, e prescelto dal corpo elettorale; e sup- 



— 215 — 

pongono che in Inghilterra, negli Stati Uniti ed altrove 
esistano davvero i governi di quei pezzi di carta, detti 
programmi, che i ministri applicherebbero senz'altro. 
Ecco, si dice, il governo delle cose sostituito al governo 
delle persone. Nulla di più fantastico di queste cre- 
denze. In ogni paese, anche in quelli che sono i de- 
positari venerandi delle norme di governo rappresen- 
tativo, l'inosservanza dei programmi è la regola. Che 
i programmi rispondono a situazioni passeggere, le qua- 
li non sono più, quando un partito giunge al potere, le 
stesse che esistevano quando esso, anelante di arrivar- 
vi, formulava il programma. Ed anche quando si ve- 
dono grandi uomini di Stato come Camillo Cavour, 
Washington, Lincoln, Wilson attuare sul serio i pro- 
grammi e le promesse elettorali, ciò accade perchè ec- 
cezionalmente essi antiveggevano i bisogni del futuro e 
volevano essi stessi creare quel futuro. La virtù di quei 
governi non stava nel programma — inerte pezzo di 
carta — ma negli uomini che avevano, essi, voluto quel 
programma. Ed è tanto vero ciò che tutti plaudirono a 
Roberto Peel, quando abbandonando il partito suo e 
le promesse contenute nel suo programma elettorale si 
voltò verso la parte avversaria e propugnò l'abolizione 
dei dazi sui cereali che aveva prima sostenuto. 



Qui si vede che la virtù dei governi non sta nelle 
cose inerti, negli schemi della ragion ragionante opposta 
alle passioni umane, nelle elencazioni sterili dei pro- 
grammi elettorali. Essa sta negli uomini che hanno idee 
e che le vogliono far trionfare; che perciò combattono 



— 216 — 

gli uomini i quali, privi di idee, vogliono solo il trionfo 
di sé stessi e dei piccoli loro interessi e delle ribalde 
loro passioni. Governo di cose invece che governo de- 
gli uomini vuol dire perciò governo delle « idee » in- 
carnate in uomini, i quali per farle trionfare, si giovano 
delle passioni umane, di quelle generose e di quelle 
ordinarie, altruistiche od interessate e tutte le scagliano, 
a guisa di catapulta, contro gli uomini semplicemente 
dotati di accortezza o di furberia, i quali irridono alla 
teoria e si tengono fermi alla pratica della soddisfazio- 
ne ai piccoli interessi ed alle piccole passioni e coll'im- 
broglio e con l'inganno usano sopraffare gli avversari. 
Sono le idee che fanno muovere gli uomini e che fanno 
servire le cose materiali ai fini che l'uomo si propone. 
In questo senso soltanto la frase « bisogna governare 
colle cose invece che cogli uomini » può acquistare un 
valore che non pare abbia fin qui avuto. Essa sorse in 
un'epoca scura per l'Italia; quando da taluni s'invoca- 
vano le « cose » per aver agio di sostituire alla vecchia 
generazione di coloro che avevano fatto l'Italia — ed 
avevano gli uni, gli uomini di destra, idee salde e va- 
sta esperienza, e gli altri, quei di sinistra, passioni ac- 
cese — una nuova generazione di gente fredda e pra- 
tica, senza idee e senza passioni, la quale si propo- 
neva di governare l'Italia come se fosse una « cosa » 
qualunque, un meccanismo morto da far lavorare a 
proprio profitto; si rinvigorì quando, pel trionfo di un 
grossolano positivismo e pel diffondersi di un materia- 
lismo cosidetto « storico » parve elegante disconoscere 
la forza delle idee e si pretese che il mondoi fosse go- 
vernato dal ventre, il quale è indubbiamente un mecca- 
nismo interessante, che deve essere fatto funzionare 



— 217 — 

perchè l'uomo possa vivere una vita più aita, ma non 
è il fattore remoto e fondamentale della storia umana. 
In questa bassa assenza di moventi ideali dell'azione 
politica, parve vanto per gli uomini di governo stra- 
niarsi della loro qualità di uomini, affermare che non 
esistono e non possono esistere uomini capaci di gui- 
dare colla forza del loro intelletto e colla vigorìa delle 
passioni messe al servizio di una idea i popoli verso 
più alti destini. Parve abile ai piccoli uomini, i quali 
volevano, durante il trasformismo e poscia, sostituire 
le loro « persone » alle persone dei governanti ed i 
quali sapevano di non avere idee proprie da opporre 
alle « non idee » altrui, affermare a scanso di fatica e 
di impegni, che non gli uomini debbono da se decidere 
delle proprie sorti, ma che queste debbono essere fis- 
sate, volenti o nolenti gli uomini, da certe inerti entità 
metafisiche, dette « cose » : macchine, terre, porti, val- 
li, fiumi, mari, ferrovie, salariato, capitalismo. 

Storia e teoria politica si popolarono di miti, di dei 
dominatori a cui la gente guardava con terrore dicendo : 
son « le cose » che ci governano! Frattanto, all'ombra 
delle e cose » i piccoli uomini tessevano i loro intrighi 
e impedivano che le moltitudini seguissero i loro duci 
ideali. Così fu che, allo scoppio della guerra europea, 
ci trovammo senza un capo, senza una guida univer- 
sale riconosciuta; così fu che l'orazione di Antonio Sa- 
landra in Campidoglio rimase senza seguito e nessun 
frammento dell'oratoria interminabile, che si rovesciò 
sul paese durante questi quattro anni suscitò un'eco 
profonda nel cuore degli italiani, prima che le rapide, 
fresche risposte del presidente americano ai nostri in- 
dirizzi non ci ricordassero nuovamente che si può avere 



— 218 — 

delle idee ed esprimerle candidamente e trascinare col 
candore e colla sincerità dietro di se i popoli. Ma ora- 
mai pare che l'eco delle « cose » sia tramontata; e che 
siano sorti nuovamente in Italia uomini che hanno delle 
idee e vogliono primeggiare e governare, come uomini 
vivi, per farle trionfare. La guerra fu vinta, perchè in 
Italia vi fu chi seppe persuadere alle moltitudini che non 
le « cose » concrete hanno valore, non gli eserciti for- 
midabili ed i cannoni e le macchine, e le organizza- 
zioni; ma il sacrificio e la tenacia e la virtù di resistenza 
e la consapevolezza di dover vincere o morire per un 
ideale. Che cosa importa se gli uomini che ebbero fede 
non sempre si trovarono al governo della a cosa » pub- 
blica? In realtà furono essi i veri governanti del paese, 
perchè essi spinsero governi e popoli ad agire, a durare 
la lunga fatica ed a vincere. Da quattro anni il motto 
non è più : governano le cose per mezzo degli uomini 
che non hanno né idee ne passioni; ma come già nella 
grande epoca del risorgimento : « governano gli uomini 
di pensiero e d'azione che mettono le loro passioni al 
servizio di un'idea e sanno trascinare gli altri ad attuar- 
la ». La pace sarà vinta ed i problemi del dopo guerra 
saranno risoluti quanto più gli uomini dalle idee pro- 
fondamente concepite e sentite prevarranno contro gli 
uomini, i quali spregiano le idee ed hanno il culto delle 
cose morte e degli avvenimenti accaduti al di fuori 
della loroi volontà. 

(Dalla <( Rivista d'Italia », 1919, voi. I, fase. 1). 



LA SOCIETÀ' DELLE NAZIONI 
E IL GOVERNO DELLE COSE 

Ho analizzato i vari significati che si possono dare 
alla frase in un articolo « Il governo delle cose » pub- 
blicato nella Rivista d'Italia del gennaio 1919 e ripro- 
dotto qui sopra. Ma l'analisi si riferiva ai significati che 
la frase può avere quando si pretendesse sul serio di 
governare « uomini » manipolando « cose ». Il che è 
assurdo. Nel presente articolo si vuole invece distin- 
guere i casi in cui si tratta di governare « uomini » da 
quelli in cui si vogliono amministrare « cose ». E si 
tenta di dire che cosa siano queste cose. 

Probabilmente il significato più ragionevole che si 
può dare alla frase « governo delle cose e non governo 
di uomini » è quello per cui si tenta di distinguere le 
specie dell'attività dello Stato le quali si indirizzano di- 
rettamente o indirettamente agli uomini, da quelle le 
quali si applicano « principalmente » a cose materiali, 
ad oggetti inanimati. Governare l'Italia, a cagion d'e- 
sempio, è governo di uomini; decidere se giovi meglio 
all'Italia meridionale un regime doganale libero-scam- 
bista o protezionista è governo di uomini; decidere se 
ed entro che limiti si debbano imbrigliare le acque di- 
laganti T Appennino, costruire laghi artificiali, rimbo- 



220 



schire le pendici dei monti sovrastanti è governo di 
uomini. La decisione di questi problemi tocca interessi, 
passioni, sentimenti contrastanti di uomini, di classi o 
di regioni; e l'uomo di Stato deve quindi conoscere l'a- 
nimo umano e saper governare uomini, avere idee chia- 
re in mente, proporsi scopi ben definiti e da lui con- 
siderati vantaggiosi all'universale, per sapere bene ri- 
solvere quei problemi. 

Ma, quando la decisione del rimboschire è presa, 
si può in un certo senso affermare correttamente che 
trattasi solo più di governare « principalmente » cose. 
La scelta fra i migliori e più economici metodi di im- 
brigliamento, di rimboschimento, di taglio dei boschi è 
problema tecnico, in cui gli interessi e. le passioni de- 
gli uomini hanno ancora una certa parte, ma piccola 
e di secondaria importanza. Qui si governano davvero 
« cose », ossia torrenti, boschi, precipitazioni acquee, 
deflusso di acque e simili. Ed è chiaro che il governo 
di queste « cose » è di gran lunga più facile del governo 
degli « uomini ». Bastano per esse abilità tecnica, co- 
gnizioni speciali imparate nelle scuole, sui libri o nella 
pratica, e sufficiente onestà amministrativa; e quella che 
dicesi buona « organizzazione » può riuscire a grandi 
cose. A governare invece « uomini )> voglionsi tutte 
queste qualità ed altre ancora : genio politico, intuito 
di sentimenti e di passioni, capacità di entusiasmo, 
freddezza di calcolo, arte della parola e virtù del si- 
lenzio, comprensione dei grandi problemi storici, pro- 
fonda cultura e capacità di dare risalto a volta a volta 
agli aspetti economico, sentimentale, religioso, patriot- 
tico del grande problema umano. 



221 — 



Le qualità necessarie a ben governare uomini es- 
sendo tanto più rare e sublimi di quelle sufficienti a 
governare cose, riesce subito manifesta la ragione per 
cui si deve affermare che la novella società delle na- 
zioni avrà maggiore probabilità di successo se invece 
di affrontare il grandioso problema del governo del- 
l' « umanità » dal lato degli « uomini », lo affronterà dal 
lato « cose ». Esistono problemi interstatali « umani » 
e problemi interstatali « reali ». Prevenire le guerre, iitr 
staurare il regno della pace è problema « umano », dif- 
ficilissimo a risolversi. Si può rimanere scettici intorno 
alla efficacia delle corti di arbitrato, o alia osservanza 
delle clausole arbitrali, pensando alla varietà inesau- 
ribile delle passioni umane, alla incoercibile virtù di 
taluni sentimenti che spingono alla lotta e al desiderio 
di supremazia e per questa via conducono alla guerra. 

Ma altri problemi sono, quasi si direbbe, al di fuori 
delle passioni umane. Le lettere servono alla trasmis- 
sione di pensieri e di sentimenti e sono perciò un fatto 
umano; ma in se stesso il trasporto delle lettere è un 
fatto tecnico, il quale può essere organizzato nel modo 
più perfetto come una amministrazione di cose. L'u- 
nione postale universale ha, suppongo, con qualche 
adattamento e tenuto conto delle chiusure di frontiere, 
continuato a funzionare anche durante la guerra. Gli 
Stati belligeranti hanno continuato a delegare una parte 
della loro sovranità a questo organo, che in embrione 
è dia tempo una vera società delle nazioni in atto. 

Molte di queste amministrazioni interstatali esiste- 
vano prima della guerra. Vi fu chi calcolò che nel 1913 



— 222 — 

si erano adunati ben 135 Congressi intemazionali per 
trattare affari di interesse comune a più Stati. Una delle 
amministrazioni più interessanti, per chi voglia osservare 
il graduale formarsi del superstato, il quale forse finirà 
a governare, per un tempo più o meno lungo, il mondo, 
è la commissione europea dei Danubio. Fu creata nel 
1856 dal trattato di Parigi per due anni, e dura ancor oggi. 
La compongono i delegati di otto Stati : Gran Bretagna, 
Austria, Francia, Germania, Russia, Italia, Turchia e 
Romania. Ha per iscopo di assicurare e facilitare la 
navigazione del basso Danubio. Via via, per meglio 
raggiungere i suoi scopi, essa acquistò poteri propri, 
sovrani, che la rendono una vera immagine di uno Sta- 
to astratto, supernazionale, senza territorio proprio e 
nel tempo stesso capace di una azione efficace a prò 
degli uomini. Essa : 

a) Non può essere sciolta senza il consenso una- 
nime di tutti gli aderenti. Di fatto ciò trasformò la com- 
missione da provvisoria in perpetua. Teoricamente, 
ognuna delle potenze contraenti può ritirarsi; ma nes- 
suna si ritira, ben sapendo che la commissione segui- 
terebbe a sussistere e a funzionare senza il suo concor- 
so e forse contro i suoi interessi. 

b) Ha un'amministrazione propria, con un inge- 
gnere capo servizio. Ciò è bastato perchè l'ente fosse 
un qualcosa di diverso da una delegazione dei singoli 
Stati sovrani; avesse una politica propria, alla quale 
ubbidiscono gli Stati, talvolta riluttanti. Accadde che la 
maggioranza degli Stati aderenti ordinasse ai propri de- 
legati di provocare la sospensione di certi lavori di as- 
sestamento del fiume. Ma poiché i lavori erano ur- 
genti, i commissari moralmente si considerarono tenuti 



— 223 — 

a deliberarne invece la prosecuzione; e il voto della 
commissione prevalse su quello degli Stati sovrani de- 
leganti. La pratica dimostra che, una volta costituita 
una commissione internazionale, la sovranità si sposta 
invincibilmente, nonostante ogni espressa e chiarissima 
riserva, dai parlamenti e dai governi dei singoli Stati 
al nuovo ente internazionale. 

e) Il che tanto più facilmente accade se, come fu 
il caso della commissione del Danubio, il nuovo ente 
ha il diritto di imporre tributi. À coprire le spese dei 
lavori sul fiume, la commissione danubiana può, a mag- 
gioranza di voti e con eguaglianza perfetta di tratta- 
mento per le bandiere di tutte le nazioni, imporre di- 
ritti sulle navi che percorrono il fiume. Ecco un'altra 
caratteristica del superstato : la maggioranza dei de- 
legati può obbligare la minoranza recalcitrante a su- 
bire imposte volute nell'interesse generale. Ciò salda e 
perpetua l'ente. 

d) Il diritto di prelevare imposte reca con se la 
necessità di avere una forza armata capace di costrin- 
gere i contribuenti al pagamento. La commissione da- 
nubiana non ha un vero corpo armato a sua disposizio- 
ne; ma il suo tesoriere può, a mezzo del capitano del 
porto di Sulina, ordinare alle navi da guerra di qual- 
cuna delle potenze aderenti o, in difetto, allo stazio- 
nario turco, di ridurre all'ubbidienza le navi mercan- 
tili che tentassero di evadere il pagamento della ta- 
riffa stabilita dalla commissione. 

e) Chi ha entrate, ha credito; epperciò esiste un 
debito pubblico della commissione danubiana. Non è 
un debito dei singoli Stati; ma un debito specifico del- 
l'ente. 



224 



/) La sua natura di superr.tato è chiarita altresì 
dalla sua neutralità. Dapprima non ammessa per l'op- 
posizione della Russia, fu accolta dall'atto pubblico del 
1865, il quale dichiarò che « le opere e gli stabilimenti 
di ogni specie creati dalla commissione e in specie l'e- 
dificio della tesoreria fluviale a Sulina avrebbero go- 
duto del privilegio della neutralità e sarebbero stati in 
caso di guerra ugualmente rispettati da tutti i belli- 
geranti ». 

*** 

Il governo della cosa « Danubio » creato nel 1856 
ha avuto un magnifico successo. Così come l'hanno 
avuto l'unione postale internazionale, le varie unioni 
per la proprietà industriale, letteraria, ecc. ecc. Non 
v'è nessuna ragione perchè l'esempio non debba es- 
sere imitato in molti altri casi con uguale successo. E 
questo diventerà maggiore se, come lo consente l'atto 
costitutivo della società delle nazioni, le sedi di tutte 
le commissioni e unioni internazionali esistenti e di 
quelle da crearsi in avvenire verranno concentrate, in 
quanto sia possibile, nella città capitale della lega; e, 
in quanto ciò non sia possibile o conveniente, se le 
singole commissioni avranno un rappresentante nella 
stessa città press® il segretario permanente della lega. 
Grande è la probabilità che a poco a poco si costituisca 
un vero superstato il quale regolerà in una misura sem- 
pre maggiore gli affari relativi alle cose che interessano 
gli uomini in generale. 

Ed è probabile che procedendo in questa guisa mo- 
desta, contentandosi di governare le « cose », si giun- 
ga alla fine a governare anche gli uomini. Ben fece la 
società delle nazioni a rinunciare al governo diretto 



— 225 — 

delle colonie tedesche o dei territori dell'Asia Minore. 
Sappiamo l'insuccesso del governo internazionale del- 
l'Egitto, la quasi impossibilità di fare qualcosa di buono 
a Tangeri. Qui si tratta di governare « territori », ossia 
gli uomini che vivono in quei territori. L'impresa non 
può essere tentata da un ente che sta appena ora for- 
mandosi, soggetto a mille influenze diverse, come è 
la società delle nazioni. I suoi delegati, che dovessero 
amministrare l'Armenia o l'Anatolia turca, sarebbero 
in realtà ministri plenipotenziari di potenze sovrane in- 
dipendenti, gelose le une delle altre. Essi lotterebbero 
quasi soltanto per strappare concessioni, privilegi, fa- 
vori a prò dei connazionali. Perciò il governo delle co- 
lonie deve essere affidato a una nazione singola, co- 
stretta bensì a seguire certe norme comuni nell'inte- 
resse generale, ma libera di governare uomini a seconda 
del proprio genio e dei propri costumi. Si avranno, co- 
me in passato, successi grandi o mediocri ed insuccessi; 
ma almeno si avrà un governo. 

La società delle nazioni può essere invece effica- 
cemente incaricata di governare il Danubio, parte del 
Reno, il canale di Kiel, i Dardanelli e il Bosforo, il 
canale di Suez o di Panama; può prendere il seguito di 
istituti internazionali esistenti, come quello' di agricol- 
tura di Roma, l'unione postale universale, le unioni per 
i brevetti e per i marchi, le unioni sanitarie, per gli 
orari ferroviari, ecc. ecc. Potrebbe costituire un ufficio 
comune per la repressione delle evasioni tributarie in- 
ternazionali e per la elaborazione di norme atte a im- 
pedire le doppie e le triple tassazioni. Qui non si tratta 
più di governare direttamente uomini, ma di dragar 
fiumi e canali, costruire banchine, trasportar lettere, re- 
gistrare attestati di privative, confrontare e trasmettere 

15 



— 226 — 

denunce di eredità. Funzioni importantissime, ma ese- 
cutive; in cui gli uomini entrano come amministratori 
o beneficiari, non come partecipi della sovranità. 

Alla lunga, col moltiplicarsi di queste amministra- 
zioni interstatali di « cose », la sovranità degli Stati sin- 
goli verrebbe indubbiamente menomata. Da certi punti 
di vista legislatori e governanti finirebbero ad accorger- 
si che esiste al disopra di essi un ente superiore, vi- 
vente di vita propria, ai cui comandi praticamente essi 
non avrebbero forza di ribellarsi. Essi si sentirebbero le- 
gati da mille invisibili fili, da cui sarebbe impossibile 
districarsi. In moltissimi casi i parlamenti nazionali do- 
vrebbero rassegnarsi ad essere pure camere di registra- 
zione della volontà manifestata dal superstato. Già ora, 
se l'unione postale internazionale deciderà il rialzo del- 
la tariffa delle lettere da 25 a 40 centesimi, vi sarà forse 
un parlamento il quale tenterà di non obbedire? Ogni 
Stato, è vero, si consola pensando che quel rialzo fu 
anche votato dal suo delegato. Ma quel delegato era 
un oscuro funzionario, di cui nessuno del pubblico sa 
neppure il nome. Ma quel delegato può aver votato 
contro; e la maggioranza lo sopraffece. Ma certamente 
la maggioranza votò inspirandosi a criteri di interesse 
comune, supernazionale, mondiale. Ecco la nuova so- 
vranità, già esistente in molti casi separati, e che do- 
vrebbe essere compito della società delle nazioni uni- 
ficare, ampliare, estendere a nuovi casi. A poco a po- 
co il nuovo superstato, sorto dapprima per governar 
« cose », creerà una amministrazione, attirerà a sé gli 
uomini più capaci delle varie nazioni del mondo. I po- 
litici di maggior merito e di ambizioni più alte, che ora 
sdegnano servire nella commissione del Danubio, o nel- 
l'ufficio di Berna dei marchi industriali, ameranno dar 



— 227 — 

la loro opera al segretariato permanente, o essere mi- 
nistri delegati alle conferenze annue dei supremi con- 
sessi della società delle nazioni. I parlamenti e i mini- 
steri nazionali scadranno di dignità in confronto a 
queste supreme cariche. Diventeranno simili ai parla- 
menti o consigli regionali o provinciali, di cui l'opi- 
nione pubblica generale poco si interessa. Ed ecco la 
società delle nazioni divenuta capace di governare an- 
che gli uomini. I poteri che essa non avrà ancora, li 
otterrà o li usurperà; ne i parlamenti nazionali oseranno 
rifiutarsi a sempre nuove abdicazioni dei loro poteri 
sovrani. 

Non so in qual lasso di tempo queste profezie po- 
tranno avverarsi; ma certamente esse paiono il logico 
sviluppo di una evoluzione già avvertita prima della 
guerra e che questa sembra accelerare. La rapidità e 
il successo della nuova formazione superstatale mi 
paiono dipendere sovratuttoi dai suoi primi passi. Il 
successo potrà arridere se per ora la società delle na- 
zioni si contenterà di governare fiumi, laghi, mari, 
stretti, canali, reprimere la diffusione di malattie con- 
tagiose, spedire lettere, ecc., ecc. Se, in prosieguo di 
tempo la società delle nazioni, col crear legami fra 
uomini e nazioni, con lo sminuire i poteri dei singoli 
Stati sovrani, con l'attrarre a se i migliori uomini di 
tutte le parti del mondo, avrà acquistato la capacità di 
governare gli uomini, si avrà il superstato, vivo, forte, 
atto a reprimer guerre tra gli Stati apparentemente so- 
vrani e in realtà suoi dipendenti. Il superstato sarà un 
fatto; mentre la società delle nazioni, atta a sentenziare 
fra Stati sovrani e ad impedire guerre, pare ed oggi è 
una chimera. 

(Dalla Minerva, 1° aprile 1919). 



POPOLI DOMINATORI 
E POPOLI OPPRESSI 

L'India e l'Egitto furono due grandi speranze della 
Germania durante la guerra. Sollevare il mondo mu- 
sulmano agitando l'idea della riunione di tutti i se- 
guaci del Corano sotto la bandiera del Califfo, ecci- 
tare i partiti nazionalisti indiani ed egiziani; separare 
nettamente la Russia dall'India risuscitando una antica 
e quasi spenta idea panturanica, destinata a riunire la 
razza, non più la religione, dei dominatori turchi del 
residuo impero musulmano con i fortissimi nuclei tu- 
ranici del Turchestan e delle altre regioni russe poste 
sopra all'India e al Tibet; stringere così, grazie ai buoni 
uffici dei giovani turchi, la mano ai gruppi atavici affini 
della Cina occidentale estrema. 

Il piano grandioso di dominazione mondiale non fu 
forse mai compiutamente avvertito in Italia, dove lo 
sguardo si estende al più, in politica internazionale, sino 
ai lidi dell'Africa, al Mar Rosso e all'Asia Minore. Vi- 
dero invece nettamente quel pericolo gli Inglesi e si 
adoperarono a sventarlo con la spedizione di Mesopo- 
tamia, che doveva impedire l'arrivo degli eserciti te- 
deschi fin sul mar persico, con la difesa del canale di 
Suez e la conquista della Palestina, con la creazione 
del Regno d'Arabia, con un'opera inavvertita di pene- 
trazione compiutasi, dopo il dissolvimento massimalista 



— 230 — 

dell'Impero russo, nelle regioni del centro dell'Asia si- 
tuate di là dall'Himalaia. Quel cerchio di ferro che do- 
veva stringere al collo la dominatrice dei mari e farla 
cadere al suolo, oggi è una cintura magnifica di pro- 
tezione dell'Impero britannico. L'Egitto e l'India, e con 
essi l'Africa meridionale e l'Australasia, sono protetti 
dalla Palestina, dall'Arabia, dalla Mesopotamia e dalle 
zone di influenza del centro dell'Asia. 

L'Impero britannico, non più minacciato dall'ester- 
no, pare tuttavia vacillante per dissidi interni : l'Irlanda 
rivoltosa costituisce un governo repubblicano indipen- 
dente e segreto allato al governo ufficiale, per le vie 
d' Alessandria e del Cairo corre a rivi il sangue egi- 
ziano, e dall'India giungono notizie di movimenti in- 
surrezionali gravissimi. L'idea della autodecisione e 
delle nazionalità, agitata dall' Inghilterra e dall'intesa 
durante la guerra contro il sogno germanico di domina- 
zione mondiale, si rivolta contro 1* Inghilterra medesi- 
ma, la grande dominatrice. 

Tutta la gente fatua, che sui giornali italiani e fran- 
cesi ha bisogno di inneggiare ai popoli oppressi, tutti 
i germanofili hanno fatta propria la causa dell'Irlanda, 
dell'Egitto e dell'India. E ritengono che, insieme alla 
conculcata libertà dei mari, alla ferma decisione del- 
l'Inghilterra di non allentare la mano la quale detiene 
Gibilterra e Suez, il ricordo dell'Irlanda, dell'Egitto e 
dell'India basti a dimostrare l'ipocrisia profonda delle 
dichiarazioni anglosassoni di voler combattere per la 
libertà del mondo, e l'abisso di schiavitù effettiva in 
che siamo caduti per resistere a quello che in sostanza, 
essi aggiungono, era un immaginario sogno di domi- 



231 



nazione, anzi una calunnia inventata dagli inglesi contro 
l'egemonia germanica. 

Di qui la simpatia di tanti cuori sensibili verso le 
nuove nazioni oppresse dal tallone britannico, 1* ironia 
sarcastica di tante penne scintillanti contro coloro i 
quali hanno avuto il torto di invocare ragioni ideali e 
mondiali per spingere 1* Italia a fianco dell'intesa. Di 
qui lo scoramento di molti i quali chiedono : valeva la 
pena di sacrificare tante vite e tanti miliardi per rin- 
saldare sul mondo e su noi un giogo spregevole ed umi- 
liante appunto -perchè si astiene dal piglio truce ma 
leale del guerriero ed assume la forma insidiosa della 
soprafT azione mercantile? 



Il problema è, solo in parte, un problema di oppres- 
sione militare e di sfruttamento mercantile. Quando i 
nemici e gli invidiosi dell' Inghilterra affermano che, se 
essa ritirasse i suoi eserciti, non un giorno di più dur 
rerebbe la sua dominazione sull'Irlanda, sull'Egitto e 
sull'India, e nessuno ripeterebbe l'invocazione che dal- 
l'isola britannica abbandonata dalle legioni romane di- 
speratamente giungeva all'imperatore, di voler conser- 
vare la sua protezione ai sudditi fedeli, ormai romaniz- 
zati e timorosi di cadere sotto il giogo di barbare tribù, 
forse affermano il vero, sebbene nessuno possa oggi 
prevedere se nell'India e nell'Egitto, dilaniati dalle di- 
scordie intestine e facile preda di orribili miserie e di 
tirannie effimere, ben presto il grido di angoscia e di in- 
vocazione alla pax britannica non sarebbe prima som- 
messamente e poi a gran voce ripetuto dalle bocche di 



— 232 — 

milioni di lavoratori industriosi, abbandonati in balìa 
della classe letterata, i cui rappresentanti oggi infestano 
le capitali europee con le loro querimonie. 

11 problema di forza è chiaro : nessun paese rinuncia 
da sé, salvo vi sia costretto da una forza militare pre- 
potente, alle ragioni della propria esistenza. Quando 
fosse proclamata la repubblica irlandese, e l'Irlanda 
fosse scissa dal nesso dell'Impero, i suoi porti, i suoi 
seni, il mare interno tra l'Irlanda e l'Inghilterra diven- 
terebbero nidi di sottomarini, la sicurezza delle comu- 
nicazioni della madrepatria con le colonie verrebbe 
meno. Dopo poche settimane di guerra, l'Inghilterra, 
incapace ora e sempre a nutrire i suoi figli, dovrebbe 
arrendersi per fame. Se fossero rotti i rapporti dell'In- 
ghilterra con l'Egitto, le comunicazioni con l'India e 
con l'Australasia diventerebbero lente e diffìcili, e 
quella potenza, la quale, d'accordo con il piccolo Stato 
indipendente possessore del canale di Suez, vi si im- 
piantasse, potrebbe davvero stringere al collo e buttare 
a terra il colosso britannico. E chi conosce l'opera com- 
piuta dagli inglesi nell'India, sin da quando la salva- 
rono dall'anarchia sanguinosa e dalla carestia perenne 
e la ridussero a paese popoloso e ordinato e pacifico, 
non può credere che essi rinuncino, fuorché costrettivi 
dalla forza, a quella che essi reputano ed è una grande 
missione storica e civilizzatrice. 

Se le accuse di fondarsi sulla forza si spuntano 
contro la volontà di vita dell'impero, quelle di nascon- 
dere con parole umanitarie una sostanza di sfruttamento 
mercantile sono frutto esclusivamente della incapacità 
di comprendere i vantaggi economici grandiosi che una 
saggia amministrazione può arrecare ai popoli econo- 



— 233 — 

micamente arretrati. La dominazione inglese nell'Ir- 
landa fu macchiata da colpe gravi nei secoli passati; 
ma quelle colpe furono largamente riparate con una po- 
litica lungimirante che dura oramai dà tre quarti di 
secolo. Scomparsa o quasi la grande proprietà inglese, 
restituita, con sacrificio di miliardi, la terra ai contadini 
irlandesi, spezzato il latifondo, ricostruite le case, co- 
perta l'Irlanda da una rete di cooperative dì produ- 
zione, mai l'Irlanda fu così prospera come oggi; e la 
sua prosperità fu a mille doppi cresciuta dalla guerra, 
quando, libera dalla coscrizione militare, essa vendette 
alla dominatrice iugulata dalla fame i suoi prodotti a 
prezzi altissimi. La ribellione irlandese d'oggi è la ri- 
bellione contro il fiume d'oro rovesciatosi a inondare 
l'isola verde grazie al relativo impoverimento degli 
inglesi. 

Le stesse verità inconfutabili si possono ripetere per 
l'Egitto e per l'India. Non mai nella storia quei due 
paesi ebbero a traversare un periodo di floridezza eco- 
nomica maggiore dell'odierno. Uno dei fatti monetari 
principali di oggi è l'imboscamento dell'oro e dell'ar- 
gento in masse mai più vedute nell'India. C'è nel 
mondo oggi una vera crisi dell'argento, determinata 
dall' assorbimento senza limiti che i contadini indiani 
fanno del metallo bianco a scopo di costituirne tesori 
monetari e trasformarlo in oggetti di ornamento. E le 
classi più alte requisiscono oro. È un imboscamento 
che in parte ha salvato il mondo da un rialzo di prezzi 
maggiore di quello che si verificò di fatto; ma è un in- 
dice altresì di risparmi colossali, compiutisi in paesi i 
quali si pretendono dissanguati economicamente dalla 
potenza dominante, ed i cui rappresentanti raccontano 



— 234 — 

novelle di aneddoti senza senso e di arricchimenti mi- 
nori di quelli che essi avrebbero potuto conseguire se 
avessero potuto mettere liberamente il coltello alla 
gola delle nazioni europee combattenti per la propria 
salvezza. 

*** 

Tuttavia, questi non sono fatti conclusivi per i po- 
poli dominati e per gli stranieri, come siamo noi. Pro- 
vano solo che la liberazione dell'Irlanda, dell'Egitto e 
dell'India ferirebbe a morte l'impero britannico e dan- 
neggerebbe economicamente i paesi ora soggetti. Ma 
anche noi italiani — si deve qui rispondere trionfal- 
mente — volemmo ferire a morte l'impero austriaco; 
ed anche noi, se ci fossimo contentati di divenire i vas- 
salli della Germania, avremmo guadagnato in ricchezza, 
avremmo potuto assurgere presto ad un grado di pro- 
sperità materiale quale forse non otterremo in decenni 
di sforzi perseveranti. Tuttavia noi abbiamo avuto ra- 
gione di ferire a morte a Vittorio Veneto l'impero au- 
striaco, ed a ragione preferiamo di rimaner poveri piut- 
tostochè arricchire in servitù. Se l'Inghilterra potesse 
invocar soltanto la forza dei suoi eserciti ed i benefici 
economici arrecati ai popoli da essa dominati, la sua 
causa sarebbe perduta. 

La sua forza è altrove; è nel principio che essa di- 
fende. L'Austria meritava di cadere perchè non rap- 
presentava più nulla al mondo : ne la armonia delle na- 
zionalità conviventi sullo stesso territorio, ne la difesa 
della cristianità contro il turco o contro il barbaro mo- 
scovita. Venuta meno la sua missione europea, essa do- 
veva cadere. nostri soldati furono lo strumento di 



— 235 — 

questa necessità infrangibile. E quale ideale più alto 
di organizzazione politica avrebbe saputo attuare! la 
Germania per pretendere a giusto diritto la rinuncia alla 
nostra indipendenza spirituale? Nessuno; ed oggi i 
suoi stessi scrittori sono costretti a riconoscere ciò che 
da tempo avevano osservato gli stranieri : essere la for- 
ma politica germanica antiquata e inetta ad elevare il 
popolo medesimo germanico ad una vita collettiva pie- 
namente consapevole. 

L'Inghilterra, difendendo se stessa — e ciò per noi 
non conta nulla, — difende invece un principio il quale 
oramai si è imposto anche ai più ciechi : il principio 
che non esiste nessuno Stato veramente indipendente, 
e che tutti gli Stati sono legati insieme da vincoli, i 
quali andranno via via facendosi sempre più stretti e 
saldi. L'indipendenza compiuta degli Stati è un'utopia 
ed è un male. Non esiste e non può esistere uno 
Stato, il quale, in tempi di ferrovie, di navigazione a 
vapore, di telegrafi e di rapporti economici moltipli- 
cantisi, possa vivere autonomo e indipendente. È vero 
invece che ogni Stato è legato agli altri, che non può 
senza di essi vivere, che deve limitare la sua sovranità 
per renderla compatibile con la sovranità degli altri. 
Alla lunga, la verità che l'indipendenza è un mito ir- 
reale, e che solamente è vera la reciproca dipendenza, 
fa sorgere le utopie della pace perpetua e della uni- 
versale società delle nazioni. Non occorre qui discutere 
perchè queste siano destinate a rimanere utopie, ossia 
aspirazioni ideali destinate a tradursi nella realtà in 
forme contingenti ed imperfette; e come solo per il suc- 
cedersi di tentativi imperfetti si possa giungere ad una 
realtà la quale si avvicini all'ideale accarezzato dagli 



— 236 — 

utopisti. Orbene, il più grandioso tentativo di organiz- 
zazione di una vera società delle nazioni — oltre a 
quelli magnifici ma ristretti della Svizzera e degli Stati 
Uniti — è l'impero britannico. Val più un fatto che 
mille aspirazioni impotenti. Ed il fatto vero, storica- 
mente non emulato, è che non esiste nell'impero bri- 
tannico uno Stato dominatore e molti popoli soggetti, 
ma esiste una vera società di nazioni diversamente par- 
tecipanti al governo della cosa comune ed ai relativi 
oneri, a seconda del rispettivo grado di civiltà e di ca- 
pacità politica, ma tutte avviate a esercitare una eguale 
influenza sulla cosa comune. 

Finche sul continente d'Europa si persisterà a guar- 
dare l'impero inglese e le sue colonie come se i rap- 
porti reciproci fossero quelli medesimi che intercede- 
vano fra l'impero germanico e l'AIsazia-Lorena, fra 
l'Austria e l'Italia irredenta, fra l'impero russo e la 
Polonia, fra la Turchia e l'Armenia, non sarà mai pos- 
sibile giudicare rettamente della contesa fra l'Irlanda, 
l'Egitto e l'India da una parte, e l'Inghilterra dall'altra. 
Finche i primi vorranno scindere le proprie sorti da 
quelle dell* associata principale, l'Inghilterra dovrà bru- 
talmente usare la forza delle armi e soffocare nel sangue 
le rivolte sanguinose, così come fecero gli Stati Uniti 
contro gli Stati sudisti secessionisti. Quando essi si de- 
cideranno ad entrare come soci, a parità di diritti e di 
doveri, nella grande comunità britannica delle nazioni, 
l'uso della forza diverrà superfluo. Irlanda, Egitto e In- 
dia difendono una forma antiquata di consociazione 
politica; l'Inghilterra difende quella che è l'utopia del- 
l'oggi e sarà la realtà del domani. Se quelle di ugua- 
glianza e di libertà nell'ambito della società britannica 



— 237 — 

fossero solo promesse, avremmo ragione di dubitare 
della loro serietà. Ma sono realtà attuata per il Canada, 
per l'Africa del Sud, per l'Australia, per la Nuova Ze- 
landa, per Terranova, Stati perfettamente indipen- 
denti, ma associati nella cerchia dell'impero per il rag- 
giungimento di fini comuni. L'ideale a cui si deve ten- 
dere è una trasformazione intima, spirituale dei popoli 
irlandese, egiziano, indiano, per cui essi diventino ca- 
paci di governarsi da sé, pure riconoscendo l'utilità dei 
singoli e di tutti al conseguimento di scopi comuni con 
sforzi ass oci ati . 

Questa, e non l'indipendenza assoluta, è il massimo 
bene a cui i popoli possano aspirare. Dall'esempio 
dell'impero britannico noi dovremmo imparare, noi 
italiani, francesi, spagnoli, americani del Sud, per rico- 
stituire, con ampiezza maggiore, l'impero romano di oc- 
cidente, con civiltà comune e con ideali propri, da con- 
servare mercè la comunità degli sforzi. Se ciò non sa- 
premo fare, ben diffìcilmente potranno i nostri popoli 
conservare un potere politico proprio tra i colossi, i 
quali di là dai mari si afforzano. Saremo indipendenti; 
ma saremo anche una quantità trascurabile nel gioco 
delle forze spirituali ed economiche che muovono il 
mondo. 

(Dalla Minerva, 16 gennaio 1920). 



COME SI GIUNSE 
AL TRATTATO DI VERSAILLES 

(Dal libro di un economista) 

Vi è un libro che sta mettendo a rumore l'Inghil- 
terra contro la giustizia e la sapienza del trattato di 
Versailles. Quel libro non predica il millennio e non 
vuole si rompa il trattato, che è una garanzia di pace 
formale; ma vuole preparare la formazione di un'opi- 
nione pubblica mondiale la quale faccia apparire a 
tutti necessario e conveniente rivedere quelle condi- 
zioni di pace che oggi talune nazioni difendono con 
estrema energia. 

Per comprendere lo spirito del trattato ed il perchè 
della sua necessaria revisione, l'autore ci fa assistere 
alla sua genesi. 

La pace di Versailles fu in realtà l'opera di un 
uomo solo. 

« Il signor Clemenceau era di gran lunga il perso- 
naggio più eminente del Consiglio dei quattro. Egli 
solo aveva un'idea e l'aveva meditata fino alle sue ul- 
time conseguenze. Non si poteva sentir disprezzo od 
antipatia per Clemenceau, ma solo avere un'opinione 
diversa sulla natura dell'uomo civile od almeno nutrire 
una speranza differente intomo ad essa... Egli sentiva 
per la Francia quel che Pericle sentiva per Atene; sol- 



— 240 — 

tanto la Francia contava ai suoi occhi, e tutto il resto 
era men che nulla. Ma la sua politica era quella di 
Bismarclc. Per lui il tedesco non capisce e non può com- 
prendere null'altro fuorché l'intimidazione; è senza 
generosità e senza rimorso nel negoziare, senza onore, 
orgoglio o pietà. Perciò non bisogna mai negoziare con 
un tedesco o cercare di conciliarselo; voi dovete im- 
porvi a lui. A nessun' altra condizione egli vi rispetterà 
o voi impedirete che egli vi inganni... Nei rapporti in- 
ternazionali non vi è posto per « sentimentalismi ». 
Soltanto le nazioni sono cose reali, di cui voi amate 
una e sentite per il resto indifferenza od odio. La gloria 
della nazione che voi amate è uno scopo desiderabile; 
ma generalmente deve essere ottenuta a spese altrui. La 
politica della forza è fatale; e non vi è davvero nulla 
di molto nuovo da imparare intomo all'ultima guerra 
ed agli scopi per cui fu combattuta : l'Inghilterra ha di- 
strutto, come in ogni secolo precedente, un rivale com- 
merciale ed un grande capitolo si è chiuso nella lotta 
secolare fra le glorie della Germania e della Francia. 
La prudenza consiglia di rendere omaggio a fior di lab- 
bra agli ideali di americani ingenui e di inglesi ipocriti: 
ma sarebbe sciocco di credere che vi sia molto posto 
nel mondo, così come è fatto, per imbrogli simili alla 
lega delle nazioni o molta significazione nel principio 
dell* auto-decisione, salvochè lo si riguardi come un'in- 
gegnosa formula per accomodare la bilancia della po- 
tenza nel proprio interesse ». 

Perciò era necessario che la forza della Germania 
fosse ridotta a quella che era nel 1870 affinchè la Fran- 
cia potesse dirsi di nuovo sua eguale. Essendo la guerra 
lo stato normale dell'Europa, era d'uopo che la Francia 



- 241 — 

si garantisse, diminuendo il territorio e la potenza eco- 
nomica della Germania. Perciò la sola pace possibile 
era una pace cartaginese; ed il signor Clemenceau non 
si preoccupava minimamente dei quattordici punti, e 
lasciava ad altri di escogitare i trucchi necessari per 
salvare gli scrupoli o la faccia del Presidente. 

Come accadde che Wilson, il « Presidente » si sia 
lasciato indurre a mettere la sua firma sotto un trattato 
di pace cartaginese invece che sotto ad un documento 
di giustizia? Ad osservarlo si vedeva subito che il 
Presidente non aveva il temperamento dello studioso e 
neppure quell'abito mondano che a segnalano il signor 
Clemenceau e il signor Balfour come campioni squisi- 
tamente fini della loro classe e della loro generazione ». 
Quale probabilità di far trionfare le sue idee aveva il 
Presidente, insensibile al mondo esterno, contro la in- 
fallibile sensibilità, quasi medianica, di Lloyd George 
verso chiunque gli stesse attorno? 

« Il primo ministro britannico nel tempo stesso os- 
servava i colleghi con sei o sette sensi non esistenti per 
la comune degli uomini, giudicava caratteri, motivi ed 
impulsi subcoscienti, percepiva ciò che ognuno pen- 
sava e persino ciò che ognuno intendeva in seguito dire 
e preparava con istinto telepatico 1* argomento o l'ap- 
pello più adatto alla vanità, alla debolezza, ed all'inte- 
resse del suo immediato interlocutore... Invece la mente 
del Presidente era lenta e incapace di adattamento. 
Egli non poteva in un minuto entrare nel vivo di ciò 
che gli altri dicevano, afferrare in un lampo la situa- 
zione, formulare una replica e fronteggiare un assalto 
cambiando opportunamente di terreno; ed era perciò 
destinato ad essere battuto dalla semplice prontezza, 



16 



— 242 — 

intuizione ed agilità di un Lloyd George... Nessun uocmo 
mai entrò in consiglio vittima più perfetta e predesti- 
nata dell'abilità sopraffina del Primo Ministro ». 

Ad essere vittima lo designavano le sue qualità : 
non era uno studioso, non un filosofo, non un uomo 
daffari, non un politicante comune. Che cosa era dun- 
que il Presidente? Pare che la caratteristica non fosse 
facile a scoprire. Ma trovatala, fu « illuminante ». Il 
Presidente rassomigliava ad un ministro nonconfor- 
mista, forse ad un ministro presbiteriano. Il suo pen- 
siero ed il suo temperamento erano essenzialmente 
teologali, non intellettuali, con tutta la forza e la de- 
bolezza di questa maniera di pensare, sentire ed espri- 
mersi ». La similitudine, che per un inglese è « illumi- 
nante », dice poco agli italiani, che hanno in mente il 
tipo del teologo italiano fino, ragionatore, abile dialet- 
tico e politico scaltrito. Forse, al tempo del Savonarola 
e dei suoi Piagnoni, abbiamo avuto anche noi qualche 
tipo vivo dell' asceta che non fa l'eremita, ma il predi- 
catore, che dall'alto del pulpito sulla piazza ordina ai 
fedeli in linguaggio apocalittico di attuare severamente, 
su sé stessi, senza scuse ed eccezioni, a qualunque 
costo, il verbo della verità e della fede. Wilson è un 
Piagnone redivivo. 

Il suo verbo è la Società delle Nazioni, la sua meta 
una pace di giustizia. Ma egli non andava al di là delle 
tavole della fede. 

« Si credeva comunemente al principio dei lavori 
della Conferenza di Parigi che il Presidente avesse 
elaborato, coir aiuto di un numeroso stuolo di consi- 
glieri, un ampio progetto per 1* attuazione della Lega 
delle Nazioni, e per la trasfusione dei quattordici punti 



— 243 — 

in un effettivo trattato di pace. Di fatto il Presidente 
non aveva elaborato nulla; quando fu chiamato a for- 
mularle praticamente, si vide che le sue idee erano ne- 
bulose ed incomplete. Egli non aveva un piano, un 
progetto, un'idea costruttiva qualsiasi per vestire delle 
carni della vita i comandamenti che egli aveva fra i 
tuoni ed i lampi della Casa Bianca comunicato ai po- 
poli. Pigli avrebbe potuto predicare un sermone su uno 
qualunque dei punti o indirizzare una solenne pre- 
ghiera all'Onnipotente per il loro adempimento; ma 
non era capace di formularne la concreta applicazione 
allo stato attuale dell' Europa... Non solo egli non aveva 
proposte da fare, ma era sotto molti rispetti male in- 
formato, forse inevitabilmente, intorno alle condizioni 
dell'Europa... Ne egli rimediò a questi difetti ricorrendo 
all'aiuto della sapienza collettiva dei suoi luogotenenti. 
Egli aveva bensì riunito intomo a se, per quanto ri- 
guarda i capitoli economici del trattato, un abilissimo 
gruppo di uomini d'affari. Ma essi erano privi di espe- 
rienza nelle pubbliche faccende, e fatta una o due ec- 
cezioni, sapevano dell'Europa altrettanto poco come il 
Presidente e venivano chiamati a dare il loro parere 
solo di quando in quando su punti particolari... Gli altri 
plenipotenziari americani erano mere teste di legno; ed 
il fidato colonnello House, di gran lunga miglior cono- 
scitore degli uomini e dell* Europa che non il Presi- 
dente, cadde nell'ombra a mano a mano che il tempo 
passava... Giorno per giorno, settimana per settimana, 
il Presidente si chiuse sempre più in se stesso, senza 
aiuto e senza consiglio, solo, di fronte ad uomini molto 
più astuti di lui, in situazioni di difficoltà suprema, 
quando per ottenere il successo egli avrebbe avuto bi- 



— 244 — 

sogno di ogni specie di risorse, fertilità di concezioni 
e conoscenze... Arriva un momento in cui la vittoria 
nelle camere di consiglio è vostra se con qualche leg- 
gera apparenza di concessioni voi potete salvare la fac- 
cia degli oppositori ò conciliarli riformulando le vostre 
proposte in maniera gradita ad essi e non dannosa in 
nulla di essenziale al vostro interesse. Il Presidente non 
era dotato di questa semplice e comune abilità. La sua 
mente era troppo lenta e troppo poco agile per potere 
inventare una qualsiasi alternativa. Il Presidente era 
capace di puntare i piedi e di rifiutare di muoversi, co- 
ma fece per Fiume. Ma non aveva nessun altro mezzo 
di difesa, e bastava di regola qualche piccola manovra 
dei suoi oppositori per impedire alle cose di giungere 
ad un punto da non poterlo più smuovere. Con qualche 
bella maniera ed una parvenza di conciliazione, era 
facile trarre il Presidente fuori del suo terreno, fargli 
perdere il momento di puntare i piedi, sicché prima 
che egli sapesse dove si trovava, era per lui troppo 

tardi per ribellarsi Nel momento della crisi suprema, 

egli aveva gran bisogno della simpatia, dell'aiuto mo- 
rale, dell'entusiasmo delle masse. Ma a lui non giunse 
nessun'eco dal mondo esteriore, nessun palpito di pas- 
sione, di simpatia, di incoraggiamento dei suoi silen- 
ziosi elettori di tutti i paesi ». 

Intorno a lui la trama del trattato andò tessendosi 
sotto la ispirazione degli inglesi e dei francesi solo 
preoccupati di rivestire con le formole verbali dei quat- 
tordici punti i desideri egoistici dei vincitori. Nel con- 
siglio dei quattro « Clemenceau era intento unicamente 
a schiacciare la vita economica del suo nemico, Lloyd 
George a fare un bel colpo e portare a casa qualcosa 



— 245 — 

che per una settimana potesse sembrare un successo, 
il Presidente a non far nulla che non fosse giusto e di- 
ritto ». Lloyd George aveva promesso ai suoi elettori 
di far pagare alla Germania le spese della guerra; e 
voleva ottenere quei tanto che gli bastasse a dire di 
avere attuato le sue promesse. 

(( I più sottili sofisti e di redattori più ipocriti furono 
messi al lavoro ed inventarono molti ingegnosi spe- 
di enti che non avrebbero ingannato per più di un'ora 
uomini più accorti del Presidente. Così, invece di dire 
che all'Austria tedesca è vietato di unirsi con la Ger- 
mania eccettochè col permesso della Francia, il che 
sarebbe stato in contraddizione col principio dell' auto- 
decisione, il trattato, con delicatezza di tocco, stabi- 
lisce che « la Germania riconosce e rispetterà stretta- 
mente la indipendenza dell'Austria, entro le frontiere 
da fissarsi nel trattato fra questo Stato e le principali 
potenze alleate ed associate; essa consente che questa 
indipendenza rimanga inalienabile, salvo il consenso 
(unanime, in virtù di un altro articolo) del consiglio 
della lega delle nazioni )). Nel porre il sistema fluviale 
della Germania sotto il controllo straniero, il trattato 
parla di dichiarare internazionali « quei sistemi fluviali 
i quali provvedono naturalmente a più di uno Stato un 
accesso al mare, con o senza trasbordo da una nave 
ad un'altra ». Esempi simili potrebbero essere molti- 
plicati. L'onesto e chiaro scopo della politica francese, 
di limitare la popolazione della Germania e di indebo- 
lire il suo sistema economico è rivestito, per buttar pol- 
vere negli occhi del Presidente, con l'augusto linguaggio 
della libertà e dell'uguaglianza internazionale ». 



246 



Tutti riuscirono a buttar polvere negli occhi del- 
l'arbitro. Tutti, salvo il quarto membro del consiglio 
supremo, di cui nel libro dal quale ho tratto le citazioni 
fin qui fatte, pallido estratto di un vividissimo quadro, 
non ho trovato ricordo alcuno apprezzabile. L'autore 
parla sempre del « consiglio dei quccttro », ma dipinge 
le caratteristiche, la mentalità, gli scopi, le manovre di 
tre soli. Per lui esistono solo il signor Clemenceau, il 
Presidente ed il Primo Ministro. Conosciamo quale fosse 
la pace cartaginese, di distruzione della Germania, vo- 
luta dal primo; sappiamo che il Primo Ministro inglese 
voleva riportare in patria la notizia di una grossa in- 
dennità e del processo al Kaiser, a cui non credeva 
fino ad una settimana prima delle elezioni del dicembre 
1918 e tornò a non credere subito dopo. Sappiamo quali 
fossero le vie per cui il Presidente a poco a poco capi- 
tolò dinnanzi ai colleghi, dopo essere stato convinto, 
da teologi sopraffini, di essere rimasto fedelissimo ai 
quattordici punti. Sappiamo che egli ritornò in Ame- 
rica indignatissimo contro i tedeschi, che avevano osato 
rimproverargli la sua mancanza alla parola data al mo- 
mento dell'armistizio. Ma dell'Italia e dei negoziatori 
italiani nulla sappiamo, salvochè il Presidente aveva 
« puntato i piedi » nella questione di Fiume, mentre 
a questo estremo di puntare i piedi nessun altro l'aveva 
lasciato venire, bastando di regola qualche « piccola 
manovra », qualche « bella maniera » qualche « par- 
venza di conciliazione » per smuoverlo dal suo terreno 
e costringerlo con perfetta logica e con sua stupefa- 



247 



zione (bewildered) alla resa. Sappiamo che egli si trovò 
solo, senza aiuto, senza conforto nella lotta per far 
trionfare le idee della giustizia; ed intuiamo quale sa- 
rebbe stata la forza straordinaria di quel negoziatore, 
di quella nazione che gli si fosse messa a fianco ed 
avesse dato contenuto reale ai principii astratti wilso- 
niani, ed avesse fornito al Presidente quel sussidio di 
abilità duttile e di adattamento resistente, di cui egli 
totalmente mancava. Sappiamo solo che la nomea di 
(( arbitro » assoluto e dispotico delle cose europee, di 
cui il Presidente fu circondato in Italia e che fu accre- 
ditata anche ufficialmente dai nostri negoziatori era 
una leggenda. Arbitro fu solo per coloro che non arri- 
varono in tempo ad impedirgli di puntare i piedi, « co- 
me egli fece per la questione di Fiume », unico esempio 
citato di questo terribile puntamento di piedi. Ma sap- 
piamo che per tutti gli altri il a povero » Presidente 
era predestinato all'ufficio dell'uomo bendato nel giuoco 
a mosca cieca (the poor President would be playing 
blind man's bufT in that party). 



Chi scrive queste cose non è un tedesco meditante 
sulle sorti della sua patria, non è un italiano il quale 
voglia attribuire alla imperizia dei suoi negoziatori od 
alla testardaggine di Wilson le difficoltà di Fiume; non 
è un socialista il quale condanni il trattato di Versail- 
les come il frutto di egoismi imperialistici e capitalistici. 
£, un inglese, il quale è persuaso che il trattato è di 
impossibile applicazione, il quale avrebbe voluto tra- 
durre in formule concrete i principi di Wilson, e non 



— 248 — 

esita perciò a parlare con vergogna ed a condannare 
implacabilmente i partiti e gli uomini inglesi piegatisi 
alla campagna popolaristica e giornalistica a favore 
delle indennità e del processo al Kaiser. È. un inglese il 
quale vuole che il suo paese non solo rinunci alla in- 
dennità tedesca ma anche al rimborso dei debiti con- 
tratti dagli alleati verso il tesoro britànnico. 

John Maynard Keynes era noto dà anni, fin da pri- 
ma della guerra, agli studiosi di economia. Figlio di 
un altro noto economista, John Neville Keynès, vinse 
giovanissimo il concorso più arduo dell' amministrazione 
britannica, quello dell'India Office, ilustrato già dai due 
Mill, vi rimase per due anni e ne uscì nel 1909 quando 
fu nominato fellow del King's College a Cambridge. 
Nel 1912, sebbene pochissimo avesse scritto, fu chia- 
mato alla direzione dell'Economie Journal, organo della 
Royal Economie Society e senza dubbio la prima tra 
le riviste che nel mondo sono dedicate alla scienza eco- 
nomica. A lui gli economisti devono giorni di insupe- 
rato compiacimento intellettuale, quando nel 1913 po- 
terono leggere il suo libro su la circolazione e la finanza 
nell'India (Indian Currency and Finance), libro classico, 
che sta a paro con quei saggi di Ricardo, di Tooke, 
di Fullarton, di Lord Overstone, che contrassegnarono 
l'età dell'oro della scienza economica. Nel 1914 e nel 
1915 la firma del Keynes apparve sotto alcuni saggi 
descrittivi delle giornate d'agosto e sui primi mesi di 
scompiglio bancario a Londra, che sono quanto di più 
bello sia mai stato scritto sui problemi monetari durante 
la guerra. 

Dopo d'allora il silenzio s'era fatto intorno a lui nella 
famiglia internazionale degli studiosi. Il governo in- 



249 



glese aveva veduto in lui una delle teste più fini del 
paese e l'aveva voluto suo consigliere presso la teso- 
reria britannica. Alla Conferenza di Parigi il Ke3'nes 
rappresentò ufficialmente il tesoro inglese sino al 7 
giugno 1919 e sedette come sostituto del cancelliere 
dello Scacchiere nel consiglio supremo economico. Era 
noto, inoltre, negli ambienti della Conferenza, che il 
Keynes era il vero inspiratore dei governo nelle cose 
finanziarie e che dagli alleati nulla potè vasi ottenere dal 
tesoro britannico contro il suo consiglio. 

Dopo cinque anni, egli rompe il silenzio con il libro 
The economie consequences of the peace, (Macmillan, 
London), di uno dei cui capitoli ho dato sopra un pal- 
lido riassunto. Il Keynes si ritirò dagli uffici coperti a 
Parigi e presso il tesoro inglese quando si convinse di 
non potere più nutrire alcuna speranza di modificazioni 
sostanziali alle condizioni di pace. La sua critica al 
trattato è fondata esclusivamente su motivi di carattere 
pubblico e su fatti noti al mondo intiero. Così egli di- 
chiara nella prefazione. Ma la sua conoscenza intima 
dell'ambiente in cui il trattato sorse e delle persone 
che lo compilarono, la maestria, con cui ne espone le 
linee essenziali e le conseguenze necessarie, la parsi- 
monia nei particolari e nelle cifre, e l'abilità con cui le 
poche cifre citate sono fatte parlare fanno sì che si co- 
mincia a leggere il libro con interesse, lo si prosegue 
con ansia crescente e lo si chiude convinti che il la- 
voro per la pace e per la ricostruzione dell'Europa co- 
mincia appena oggi. Verranno dopo i politicanti dei 
partiti comunisti, a saccheggiare, senza entrare nello 
spirito del libro, cifre e ragionamenti del Keynes, così 
come fecero tutti i loro più famosi campioni, a cornili- 



— 250 — 

dare dal Marx, modesto plagiario e rabido denigratore 
dei Ricardo, dei Senior e dei Malthus. Verranno essi 
a dire che la pace di Versailles è una cattiva pace per- 
chè voluta da un capitalismo per schiacciare altri ca- 
pitalismi. Sta, contro le loro declamazioni, il fatto che 
il libro, da cui comincia la vera discussione, la discus- 
sione feconda e rinnovatrice della pace europea è stato 
scritto da un economista; e sta il fatto che egli condan- 
na la pace di Parigi come un tentativo vano, assurdo e 
pericoloso di ricostruire un'economia morta cinquanta 
anni fa, un tentativo contro cui protestano tutte le forze 
vive, del capitale e del lavoro, tutte le idee creatrici del 
mondo moderno. 

(Dal Corriere della Sera, del 15 febbraio 1920). 



IH. 
LA GUERRA ITALIANA 



L'EDUCAZIONE POLITICA 
DEL CONTE DI CAVOUR 

Francesco Ruffini ha scritto un libro, che egli ama 
chiamare d'occasione, intitolato La Giovinezza del Con- 
te di Cavour. (Francesco Ruffini, prof, nella R. 
Università di Torino, La Giovinezza del Conte di Ca- 
vour. Saggi storici, secondo lettere e documenti inediti. 
Due volumi di pag. XLVIII-376 e 422, con ritratto del 
Conte di Cavour nella giovinezza. Torino, Fratelli Boc- 
ca, 1912). Affrettiamoci a dire che ben di rado una 
raccolta di saggi e di documenti inediti è riuscita 
viva, mossa, affascinante come questa e che molti 
saranno gli italiani i quali vorranno, riponendo i due 
volumi, ringraziare la fortuna che ha dato occasione ad 
un giurista di trasformarsi in biografo della più compiu- 
ta e ricca figura politica del Risorgimento. 

Francesco Ruffini ha l'aria di scusarsi di aver messo 
mano, lui giurista e storico del diritto ecclesiastico e 
dell'idea della libertà religiosa, ad un'opera che sareb- 
be spettata, per ragion di competenza, agli storici di 
mestiere ed ai raffinati nella critica degli accadimenti po- 
litici. E quasi vuole attribuire alla fortuna soltanto il 
merito di avergli fatto scoprire carteggi importantissimi, 
rivelatori, intorno alla giovinezza del Conte. Dicasi an- 
cora subito che la fortuna assiste coloro che se la sanno 
procacciare. Francesco Ruffini ha scoperto molte let- 



254 



fcere preziose di Camillo Cavour ai parenti e dei parenti 
a lui, perseguendo un filone logico. La fortuna, cke ha 
aiutato lui, forse non avrebbe aiutato un altro il quale 
non avesse posseduto la chiave logica per aprir© il for- 
ziere racchiudente l'ignorato tesoro. 

La chiave logica fu l'idea della libertà religiosa, cR 
cui.Rufnni è universalmente riconosciuto il più insigne 
storico vivente (FRANCESCO RuFFINI, La libertà religiosa. 
Voi. I: Storia dell* idea. Torino, Fratelli Bocca, 1901, 
della quale opera sta per uscire la traduzione inglese), 
fu la curiosità scientifica prepotente d'indagare come si 
fosse formata nella mente del Cavour la celebre for- 
mula : « Libera Chiesa in libero Stato ». Gli sparsi ac- 
cenni che si leggono nel diario del Conte lo portarono 
a Ginevra, città religiosa, anzi città di lotte religiose 
ferventi, iraconde, dove i principii della libertà reli- 
giosa da un lato e dello Stato credente, rigidamente con- 
fessionalista, dall'altro, si tramandavano, custoditi con 
gelosia e purezza, nelle famiglie discendenti dagli ita- 
liani rifugiati in Svizzera all'epoca della contro-riforma 
e nelle famiglie calviniste pure. Lo storico dell'idea del- 
la libertà religiosa, perseguendo lo studio delle origini 
della formula cavouriana s'incontrò così con le fami- 
glie ginevrine strettamente imparentate col Conte di 
Cavour : nei De Sellon, nei De la Rive. Fu allora che 
quella che egli chiama fortuna e che è invece intuito 
geniale di scienziato lo assistè : principalmente metten- 
do a sua disposizione un grosso manipolo di lettere pos- 
sedute dal barone Leopoldo Maurice, discendente, per 
via di donna, dalla famiglia De Sellon. Da questa pri- 
ma nacquero altre fortune, che gli fecero rinvenire nel- 
l'archivio famigliare di Santena, nelle carte di Stato 



— 255 — 

di Vienna documenti importantissimi, coi quali e colle 
lettere egli compose due volumi. I quali sono epistola- 
rio e biografia insieme; documento storico riprodotto 
con cura scrupolosa e narrazione biografica, commento 
delle idee cavouriane, ricostruzione dell'ambiente fa- 
migliare e storico, illustrazione degli avvenimenti e dei 
movimenti politici e spirituali, in mezzo a cui visse Ca- 
millo Cavour negli anni che volsero dal 1826 al 1844, 
dai 16 ai 34 anni di sua età. È il Conte stesso che ci 
parla, colla sua parola fresca e vibrante, col suo stile 
nervoso, per nulla simigliante allo stile letterario, ac- 
cademico, compassato degli epistolari anche più cele- 
bri degli italiani suoi contemporanei, e ci narra i suoi 
affetti, le sue passioni, gli avvenimenti a cui ha assi- 
stito da spettatore entusiasta, voglioso di mescolarsi 
colla gente, di discutere e di abbaruffarsi con gli altri 
uomini. 

Sono gli anni della preparazione, in cui egli ha tem- 
prato la sua natura di uomo politico combattente, di 
studioso dei problemi sociali, di finanziere rotto alle im- 
prese agricole ed industriali, tetragono alle disillusioni 
speculative. Sono gli anni in cui si formava, con pa- 
zienza meravigliosa negli studi, nei viaggi e nelle espe- 
rienze pratiche, quell'uomo che doveva far stupire, per 
la rapidità della carriera, i contemporanei e far senten- 
ziare gravemente e leggermente allo Sclopis che egli 
era divenuto ministro « senza aver preso cognizione pra- 
tica degli uomini e delle cose ». 

Il libro del Ruffini dimostra stupendamente come i 
contemporanei a torto si stupissero e si scandalizzas- 
sero per la subita apparizione del grande uomo di Sta- 
to : Camillo di Cavour era un genio politico a 20 anni 



— 256 — 

come a 40, ed avrebbe potuto governare il suo paese 
nel 1830 così come lo governò dopo il 1850. Ma gli 
anni della giovinezza non furono da lui spesi indarno. 
Certamente egli non li spese soltanto vegliando sui libri. 
Egli amò con ardore parecchie donne, dall'animosa ed 
appassionata e colta incognita genovese, identificata ora 
dal Rufnni nella marchesa Anna Giustiniani, nata Schiaf- 
fino, alla misteriosa gentildonna francese, la quale ama- 
va chiamare il giovane dai brillanti occhi cerulei, dai 
biondi capelli, dal riso squillante, fresco ed appassiona- 
to e lusingatore nel volto, così come ce lo raffigura il 
ritratto onde è adorno il volume del Ruffìni e così di- 
verso nell'aspetto da quello che ci apparve dappoi : 

« Uitalien au teint rose et au sourire d'enfant ». 

Ma le donne e il gioco e le cure mondane non gli 
fecero mai perdere di vista l'ideale mèta che egli, pur 
negli anni più foschi, pur nell'esilio dalla vita pubblica 
al quale l'animosità del Principe e la saldezza nei prin- 
cipii liberali l'aveano condannato, voleva raggiungere. 
Uomo di Stato in un governo rappresentativo egli vo- 
leva essere fin dagli anni più giovanili; primo ministro 
responsabile davanti al Parlamento. Deriso dagli invi- 
diosi, amorevolmente ammonito dai suoi, parve allora 
superbo; mentre la sua era superbia radicata nell'ani- 
mo di chi sentiva di possedere le qualità innate che 
fanno l'uomo politico e sapeva d'averle fortificate e 
raffinate con una educazione politica, quale nessun uo- 
mo in Piemonte e pochissimi in Europa avevano sa- 
puto procacciarsi. 

Se l'era procacciata viaggiando in Francia ed in In- 
ghilterra, facendo lunghe dimore in Svizzera presso suoi 



— 257 — 

parenti, attendendo in patria alle cure agricole dei gros- 
si possessi terrieri della sua famiglia. Se io volessi rias- 
sumere in una parola l'impressione più forte avuta leg- 
gendo questi due volumi, direi che da essi balza fuori, 
circondata di luce vivissima, una figura nuova di Ca- 
millo di Cavour : il cadetto. Discendente di una antica 
e grande famiglia piemontese, imparentato con la fa- 
miglia savoiarda dei Des Salles, che aveva dato alla 
Chiesa S. Francesco, con le famiglie ginevrine dei conti 
de Sellon, protestanti cacciati di Francia dall'editto di 
Nantes, dei De La Rive e coi Maurice, che avevano 
tradizioni universitarie nella calvinista accademia di Gi- 
nevra, nipote di un duca francese, che portava il gran 
nome dei Clermont Tonnèrre, abituato a vivere in ville 
settecentesche come a Santena, in castelli feudali, co- 
me a Grinzane, o in latifondi che come Leri portavano 
intatta fin dentro il secolo decimonono l'impronta me- 
dievale della corte feudale, della massa conventuale, 
Camillo di Cavour era tutt' altro che un deraciné. Anzi 
egli si sentiva profondamente radicato alla terra che 
l'aveva visto nascere, tanto che, mentre lo sconforto lo 
assaliva e gli veniva alle labbra l'amaro rimpianto di 
non essere nato inglese, subito soggiungeva : « mais je 
suis piémontais... Malheur à celui qui abandonne avec 
mépris la terre qui l'a vu naitre, qui renie ses frères 
comme indignes de lui! Quant à moi, j'y suis décide, 
jamais je ne separerai mon sort de celui des Piémontais. 
Heureuse ou malheureuse, ma patrie aura tonte ma vie, 
je ne lui serai jamais infidèle; quand mème je serais 
sur de trouver ailleurs de brillants destinées ». 

Pur essendo profondamente radicato al suolo, alla 
famiglia e all'aristocrazia militare e governante, di cui fa- 



17 



— 258 - 

ceva parte per ragion di nascita, egli era un cadetto. In 
Piemonte i cadetti di famiglie nobili si facevano soldati 
o preti. Egli non volle essere ne l'una cosa ne 1* altra. 
L'amore del paese, la coscienza dei servizi che era chia- 
mato a rendere alla patria, la piccolezza dello Stato pie- 
montese, privo di possessi coloniali, gli impedirono di 
andare a cercar fortuna, come talvolta facevano e fanno 
i cadetti inglesi, nelle colonie d'oltremare. Volle però, 
come i cadetti d'Inghilterra, conquistare l'indipendenza 
economica. « Je suis cadet » scrive al congiunto pro- 
fessore De La Rive, « ce qui veut dire beaucoup dans 
un pays aristocratiquement constitué; il faut que je me 
crée un sort à la sueur de mon front. Il vous fait bon 
à vous autre richards, qui avez des millions à foison, 
de vous occuper de sciences et de théories; nous autres 
pauvres diables de cadets, il nous faut suer sang et eau 
avant d'avoir acquis un peu d'indépendance ». L'indi- 
pendenza! ecco il sogno del Conte degli anni di sua 
giovinezza. Egli la sognava, non per mania di lucro; 
ma perchè l'indipendenza economica gli doveva pa- 
rere come la condizione necessaria per dedicarsi intie- 
ramente alla cosa pubblica; ma perchè riteneva che la 
classe politica non potesse realmente riuscire utile alla 
patria, ove non fosse composta di persone indipen- 
denti nel giudizio, non costrette ad adulare il popolo 
per accattarne stipendi e favori. 

È una concezione aristocratica della vita politica; 
e suppone, naturalmente, che la classe politica non sia 
composta di ricchi aspiranti a crescere la propria ric- 
chezza impadronendosi del meccanismo governativo. 
L'indipendenza cui anelava Cavour era quella di una 
aristocrazia che vive dei redditi aviti od accumulati nel- 



— 259 — 

l'età giovane, che non cerca di accrescerli colla propria 
influenza politica, e se ne giova per il bene pubblico. 
Al cugino De La Rive, che egli riteneva « un des cer- 
veaux les mieux organisés de l'Europe », Camillo di 
Cavour scriveva incitandolo a diventare il conduttore 
supremo della politica ginevrina e così diceva i motivi 
dei suoi incitamenti : « Plus que tout autre à Genève 
vous ètes par votre position indép end ante et par les 
titres nombreux que vous avez acquis à l'estime et à 
la reconnaissance de vos concitoyens, en mesure de 
combattre avec avantage cette minorité factieuse qui 
n'a pour elle que de l'impudence et de l'audace; qui 
n'est forte que de la timidité et de la couardise de ses 
adversaires. Vos paroles ont un grand poids dans le 
Conseil et dans le public, et pour peu que vous vouliez 
vouz en donner la peine, vous deviendrez le leader du 
parti sage et raisonnable, qui veut le bien possible et 
toutes les réformes salutaires ». Scritte a 25 anni, 
queste parole dipingono quale fosse il concetto che del 
leader politico si faceva il Conte di Cavour : indipen- 
dente di censo, capo di notabili e notabile egli stesso 
per intelligenza, studi e, se possibile, per tradizioni fa- 
migliari, il leader doveva mettersi a capo di tutte le 
riforme ragionevoli, ossia realmente utili al popolo. 

Egli è assai scarso estimatore della piccola bor- 
ghesia come forza politica. Parlando della rivoluzione 
che nel 1841, per l'impulso della associazione del tre 
marzo, abolì a Ginevra la costituzione aristocratica del 
1844, accenna, al « petit noyau d'hommes à ambition 
décue 1 , et à amour propre blessé » che insieme a « tout 
ce que le cantori contient de mécontents et de mau- 
vaises tètes » formava il nocciolo del partito vincitore; 



— 260 — 

ma dimostrava che la rivoluzione non avrebbe potuto 
riuscire pel malcontento dei politicanti, irritati dalla 
lunga aspettazione, se non si fossero aggiunti altri fat- 
tori d'indole sociale : « Le gouvernement, qui vient 
d'étre renversé, quoique démocratique de droit, était 
olygarchique de fait, puisque le pouvoir se perpétuait 
entre les mains d'une certaine caste, ou pour mieux 
dire dune certaine société. Le résultat de l'ancien ordre 
de choses irritait tout ce qui appartenait aux couches 
sociales inférieures. C'est ìancienne querelle du bas 
contre le haut, de la petite bourgeoisie contre l'aristo- 
cratie. Le trois mars devenant puissant attira à lui toute 
cette masse bourgeoise, à esprit étroit, à passions me- 
squines, qui jalouse la classe supérieure, tout en dé- 
ployant vis-à-vis de l'inférieure cent fois plus d*exclusi- 
visme, que raristocrarie à son égard. Il parait que la 
masse des boutique» se rallia plus ou moins ouver- 
tement au trois mars, moìns pour obtenir un chang©- 
ment politique quei pour taquiner les dames et les élé- 
gants du haut ». Qui c'è tutto il concetto mediocre 
che il discendente di grande famiglia si faceva della 
piccola borghesia bottegaia e avvocatesca, insieme alla 
consapevolezza dei doveri — troppo spesso dimenti- 
cati — dei leaders verso il popolo. Egli, che riconosce 
e proclama la decadenza irrimediabile delle vecchie 
aristocrazie, condannate dai loro errori ad « hàter elles- 
mèmes l'oeuvre de destruction » della loro classe, non 
è avaro di sarcasmi verso la nuova classe politica fatta 
di avvocati, professionisti, energumeni da comizio : « Je 
commence par y compter (nell* assemblea costituente 
ginevrina del 1842) une trentaine de trois marfc (membri 
dell' associazione la quale aveva rovesciato il vecchio 



— 261 — 

governo aristocratico), parmi lesquels il y a dix énergu- 
mènes, et vingt niais qui de tems en tems s'arrètent et 
regardent avec effroi le but où leurs collègues veulent 
les entrainer. Viennent ensuite vingt ou trente trem- 
bleurs, conservateurs au fond du coeur, radicaux par 
peur, n'ayant ni couleur ni opinion tranchée, princi- 
pale cause de la difnculté du moment. Enfin il faut 
ranger les conservateurs, à la tète desquels se place le 
banc des professeurs. C'est la partie le plus distinguée 
de l'assemblée. Elle compte dans ses rangs les hommes 
les plus éminents de la répubblique, qui étaient pro- 
gressifs lorsque les retardataires dominaient, et qui sont 
maintenant conservateurs que l'ordre est menacé. Les 
catholiques complètent l' assemblée ». Egli, a cui nes- 
suna audacia politica sarà ignota, non sarà del partito 
degli energumeni, ne dei radicali ciechi, incoscienti, ne 
dei conservatori trembleurs, contro di cui egli parecchie 
volte si eleva con accento che sa la collera. Ben diverso 
da queste pallide figure, che ci rivivono dinnanzi agli 
occhi nelle parole scultorie di Camillo di Cavour, egli 
voleva essere il tipo del leader naturale! 

Non potendo, in regime di monarchia assoluta, de- 
dicarsi alla carriera politica, vi si apparecchia cercando 
innanzitutto l'indipendenza economica. Si fa guidatore 
di contadini, allevatore di porci a Leri; 3Ì occupa di 
foresti cultura perchè la zia de Tonnèrre gli affida la cul- 
tura delle sue selve; va in Stiria e nel Friuli a comprare 
cavalli ed arieti da spedire in Egitto, s'interessa in una 
compagnia savoiarda di navigazione fluviale, compra a 
credito una ragguardevole tenuta in risaia, guadagna 
una prima volta 20.000 lire e ne perde altrettante una 
seconda volta a Parigi speculando in Borsa. Questo è 



— 262 — 

uno degli episodi culminanti messi in luce, con docu- 
menti nuovissimi, dal Ruffini. Ingannato da una falsa 
notizia di guerra, la quale avrebbe dovuto far precipi- 
tare la rendita francese, ne vende una grossa partita, 
sperando di guadagnare 200.000 lire. Invece la pace 
si rafferma e la rendita aumenta, sicché egli teme di 
dover liquidare l'operazione, ricoprendosi con una per- 
dita di 45.000 lire. Era una perdita enorme per lui, 
privo a a quel tempo (1840, a 30 anni) di beni di for- 
tuna, perdita che ingoiava quel piccolo margine attivo 
tra il valore della tenuta di risaia acquistata quattro 
anni prima a credito e l'ammontare dei debiti contratti 
per l'acquisto. Altri si sarebbe disperato ed avrebbe 
incolpato la fortuna avversa, le manovre degli aggio- 
tatori. Egli si apre invece col padre e gli afferma « que 
la lecon que je viens de recevoir me " rendra meilleur 
sous tous les rapports. Peut-ètre un jour la considérerai- 
je comme un événement heureux ». Quando sa che la 
perdita è di sole 20.000 lire invece delle 45.000 temute 
ne è ben lieto; ma conclude che, sebbene il colpo sia 
meno grave, non sarà meno profittevole : « L'effet 
moral n'en sera pas moindre, je vous le promets; j'aurais 
payé moins cher la lecon, mais elle ne m'en profitera 
pas moins le reste de ma vie. Si j'avais réussi, ...j'aurais 
maintenant plus de 200.000 francs à moi; au lieu de 
cela j'en perds 20.000; mais j'ai gagné de respérience, 
et pris des résolutions, qui valent 1.000.000 ». Uomini 
di questa tempra hanno in pugno la vittoria. Se a treni- 
t'anni il Conte di Cavour si credeva, come amorevol- 
mente gli ricordava, con consigli di prudenza, il padre, 
ben conscio però della grandezza del figlio, « le seul 
jeune homme fait poutr devenir Mir^istre d*emiblée, 



— 263 — 

pour ètre banquier, industriel, spéculateur », gli atti 
suoi, la sua costanza, la sua indomita energia nelle av- 
versità dimostrano che egli era di quelli che possono 
diventare, a lor posta, grandi agricoltori, grandi indu- 
striali o banchieri, ovvero conduttori di uomini. 

La storia di Camillo Cavour finanziere, iniziatore di 
un'epoca nuova nella vita economica) del suo paese, 
dopo il 1848, è ancora da scrivere. Chi la farà, dovrà 
studiare nei libro del Ruffini i primi passi che il Conte 
mosse nteir applicazione delle dottrine da lui imparate 
nei libri classici, nelle conversazioni e nel commercio 
epistolare col Senior, nella riflessione sui fatti econo- 
mici che intorno a lui si svolgevano. È del 2 novembre 
1840 una lettera al padre che è uni vero capolavoro di 
analisi elegante di quell'elegantissimo problema di eco- 
nomia che è il monopolio della domanda da parte di 
un unico possibile consumatore. Volendo cercare il 
prezzo che suo padre poteva pagare per certe acque 
sopravanzanti al vicino dopo la irrigazione della sua 
risaia, comincia a stabilire, eliminando ad uno ad uno 
tutti i possibili concorrenti nella domanda dei coli, che 
il fondo del padre era l'unico adatto a consumare 
questi; e « cette vérité bien établie » ne deduce che, 
avvantaggiandosi il lor fondo di un maggior valor ca- 
pitale di 60.000 lire, ben potevasi offrire un canone di 
1000 lire, nella sicurezza che il fondo dominante non 
avrebbe saputo ricusare. Non per nulla s*era approfon- 
dito, mentr'era ufficiale del genio, nelle matematiche 
e nel calcolo; e di qui era passato allo studio delle 
scienze sociali. Benché a 16 anni dichiarasse al Plana 
che '( non era più tempo di matematiche ma bisognava 
occuparsi di economia politica » per prepararsi degna- 



- 264 — 

mente alla carica di primo ministro a cui fin d'allora 
aspirava, la forma sua mentale era rimasta diritta, lo- 
gica, divinatrice. I problemi più complessi sono da lui 
scomposti nei loro elementi primi, sì da renderli cri- 
stallini e trasparenti. Per ora il suo è un lavorìo men- 
tale, che si rivela nelle lettere famigliari, che forse ancor 
meglio si rivelerà negli abbozzi di un trattato di eco- 
nomia politica che io spero il Ruffini, col tempo, vorrà 
pubblicare. Dopo, assurgendo dagli studi dottrinali e 
dalle applicazioni ai problemi della vita privata ai 
grandi problemi di Stato, egli analizzerà le forze poli- 
tiche e le forze sociali esistenti in Italia e in Europa, 
le scomporrà, le valuterà e saprà giovarsene pel gran- 
de suo gioco della risoluzione del problema dell'unità 
politica italiana. 

(Da La Riforma Sociale, maggio 1912). 



LA CONQUISTA DEI CONFINI NATURALI 

DALLA PARTE D* OCCIDENTE 

ED I SUOI INSEGNAMENTI 

Perchè la repubblica di Venezia siasi per cosi lun- 
ghi anni rassegnata agli infelici suoi confini di terra 
con gli Stati ereditari d'Austria è problema storico, il 
quale meriterebbe di essere studiato. Forse, se la Se- 
renissima avesse colto ogni propizia occasione per ret- 
tificare la sua frontiera; se essa fosse stata deliberata a 
lottare in terraferma con quella tenacia che l'aveva resa 
forte e potente sui mari, la unità d'Italia sarebbe stata 
compiuta da tempo. Confini giusti e saldi non si con^ 
seguono senza lotte aspre, combattute con animo virile 
e col proposito di rendere la vita più bella e sicura alle 
generazioni venture. 

In questo momento, in cui l'Italia si accinge all'im- 
presa di conquistare a sé stessa i suoi confini naturali 
d'oriente, non è inutile ricordare come i padri nostri pie- 
montesi abbiano conquistato, con guerre asprissime, 
alla nuova Italia un confine occidentale adatto ad assi- 
curarci le spalle ed a far venir meno antiche, potentis- 
sime ragioni di dissidio con la vicina Francia, simiglianti 
a quelle che oggi ci traggono a guerra con l'Austria. 
Per lo più, al Piemonte viene data gloria, e meritata 
gloria, per l'opera sua di iniziatore delle guerre di in- 
dipendenza'; dimenticando così che quest'opera non 



— 266 — 

avrebbe neppure potuto essere concepita se con un la- 
voro tenace, durato un secolo e mezzo, i Principi di 
Casa Savoia ed i popoli piemontesi non avessero com- 
battuto e sofferto ed armeggiato per assicurare a se 
stessi il confine naturale delle Alpi. 



^ 



DUCATO 



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1 696. P/nerolo e Perosa 
\l\ò. Castel atei fino. 

De/fmalo / fallano- 

- Pr àgelaio. 




— 267 — 



Oggi, a noi Piemontesi sembra naturale che il con- 
fine debba andare sino al culmine della catena al- 
pina. Dimentichiamo che sino al 1601 il Re Cristianis- 
simo di Francia protendeva i suoi domini bene al di 
qua delle Alpi col marchesato di Saluzzo, acquistato, 
non senza frode, nel 1548, il quale, con Carmagnola, 
giungeva a poche marce da Torino, minacciando la 
capitale medesima degli Stati piemontesi. Ciò che oggi 
è il saliente Tridentino per la pianura Padana e per 
Verona, era allora il marchesato di Saluzzo per l'alto 
Piemonte e per Trino. Carlo Emanuele I, assertore 
della libertà d'Italia contro Francia e Spagna, non risto 
sinché questa spina, confitta nel cuore del Piemonte, 
non fosse tolta; e vi riuscì, dopo guerre e negoziati 
lunghi, dopo avere, in campagne variabilmente fortu- 
nose, portato le sue armi nel Delfinato e nella Pro- 
venza, col trattato di Lione del 1601. Cedette, è vero, 
due ampie Provincie in Savoia, la Bressa e il Bugey, 
dando l'esempio ad altri cambi fortunati più vicini a 
noi; ma chiuse, o quasi, le porte d'Italia a quello che 
per secoli fu il nemico ereditario del Piemonte. 

Per poco; che, alla fine della guerra di successione 
di Mantova e del Monferrato (1627-1631), il figlio suo 
Vittorio Amedeo I, di tanto a lui minore, dovette ac- 
conciarsi, pel trattato di Cherasco del 31 marzo 1631, 
ad aprire, anzi a spalancare un'altra porta agli eser- 
citi di Francia, colla cessione di Pinerolo e della valle 
di Perosa. Acquistava, è vero, il Duca di Savoia Alba, 
Trino, Nizza, della Paglia ed altre 74 terre del Monfer- 
rato, tolte ai due pretendenti alla successione manto- 



— 268 — 

vana, i Gonzaga ed il Duca di Nevers, vassallo quest'ul- 
timo di Francia. Ma era un acquisto ottenuto a ben caro 
prezzo. Il lettore gitti uno sguardo su una carta del Pie- 
monte e vegga quale specie di indipendenza rimanesse 
al nostro Stato di fronte ai prepotenti Re Cristianis- 
simi. Pinerolo, subito fortificata da Francia, dominava 
Torino e teneva in soggezione i suoi reggitori. Per 
65 anni dovettero i Savoia mordere il freno; ed era duro 
freno. Anticipando i metodi di Napoleone, il quale a 
Tilsit doveva imporre invano alla Prussia di non tenere 
in arme più di 40.000 uomini, Luigi XJV ordinava nel 
1688 al Duca Vittorio Amedeo II di non tenere più di 
2000 uomini sotto le armi. Come poi i prussiani, Vit- 
torio Amedeo II finge di obbedire; ma ricorre allo spe- 
diente di rinnovare ogni quattro mesi nell'anno i due- 
mila uomini, sicché ne ha effettivamente seimila, di cui 
quattromila sempre, ma alternatamente, in congedo. 
Domenico Guerrini, lo storico della brigata dei Grana- 
tieri di Sardegna, nota a questo punto con ragione co- 
me tutti conoscano e lodmo l'esempio prussiano, men- 
tre il nostro, più antico di 120 anni, è noto a po- 
chissimi. 

Così, il più grande dei sovrani della prima dinastia 
dei Savoia si preparava a riconquistare il dominio delle 
porte di casa sua; e le riconquistò cogliendo l'occasione 
della guerra del 1690-96, combattuta contro la strapo- 
tenza egemonica di Luigi XIV dalla maggior parte dei 
sovrani europei stretti nella Lega cosidetta d'Augusta 
dalla abilità di Guglielmo di Orange. Fu guerra terri- 
bile pel Piemonte; ma gli animi dei subalpini non 
potevano più a lungo sopportare l'insolenza del ne- 
mico accampato con 15.000 uomini, grosso esercito per 



— 269 — 

quei tempi, a Pinerolo agli ordini di Catinat. Vittorio 
Amedeo li fa scrivere sulla bandiera di un reggimento 
valdese il motto : Patientia laesa fit furor; Louvois, in- 
ferocito, ordina al Catinat : Brùlez, brùlez bien leur 
pays. Sconfitto a Staff arda nel 1690, e poi di nuovo alla 
M arsagli a nel 1693, malgrado prodigi di valore, il Duca 
non si disamina e per sei anni continua a combattere 
con alterne vicende. I contadini piemontesi lo seguono 
fidenti; e quand'egli se li vede dintorno, laceri e smunti 
per la molta miseria cagionata dalla guerra, distribuisce 
tra di loro quanto denaro si trova indosso ed infine fa 
a pezzi e dona il ricco collare dell'Annunziata che gli 
pende dal collo. 

Contro un sovrano ed un popolo siffatti, ostinati, 
rudi e parchi, non v'è forza umana che possa preva- 
lere; e persino il Re Sole deve venire a patti e cedere, 
col trattato di Torino del 29 agosto 1696, confermato a 
Ryswick il 10 settembre 1697, Pinerolo e la Valle di 
Perosa. 

Ma la liberazione dei confini occidentali d'Italia 
del dominio straniero non era ancora compiuta. Rima- 
nevano in potere di Francia tre teste di valle, non unite 
storicamente ed amministrativamente al marchesato di 
Saluzzo ed al Pinerolese; ma da secoli, alcune da 360 
anni, aggregate al Delfinato francese. Come oggi i te- 
deschi parlano di « Tirolo italiano », così allora i fran- 
cesi discorrevano del Delfinato italiano, il « Dauphiné 
aux eaux pendantes vers l'Italie » dei documenti fran- 
cesi dei secoli XIV-XVH. Nella storia della formazione del 
confine occidentale d'Italia, il Delfinato italiano ha una 
importanza comparabile a quella odierna della Valle 
delle Giudicarle e di Cortina d'Ampezzo lungo Tat- 



— 270 — 

tuale confine politico fra l'Italia e l'Austria. Malgrado 
la perdita successiva dei due grandi salienti di Saluzzo 
e di Pinerolo, il Re Cristianissimo conservava tre pas- 
saggi attraverso le Alpi, grazie ai quali le sue truppe 
potevano fare irruzione in Piemonte. Anche qui uno 
sguardo ad una carta dei confini d'Italia basta ad indi- 
care il pericolo a cui erano esposti gli Stati sabaudi. 
A venti chilometri sopra Pinerolo, nella Valle del Chi- 
sone, al punto in cui la valle si chiude in una selvaggia 
gola, dominata dal Bec Dauphin, cominciavano le terre 
di Francia : Meana, Mentoulles, Fénestrelles, Pragelato, 
sino al colle di Sestrières. Subito dopo la perdita di 
Pinerolo, i francesi fortificarono Fénestrelles e di lì mi- 
nacciavano uno degli sbocchi principali delle Alpi sulla 
pianura torinese. 

Al di là del colle di Sestrières si apre un'altra val- 
lata, quella della Dora Riparia. Tutta la sua testata, 
con Cesana, Bardonecchia, Oulx, Exilles, Salbertrand 
e Chaumont era parte del Delfinato italiano in potere 
di Francia. A pochi chilometri di distanza la fortezza 
di Exilles minacciava Susa e consentiva di muovere 
tranquillamente un altro esercito all'assalto della pia- 
nura piemontese. 

Finalmente, di minor importanza ma neppure tra- 
scurabile, era in mano di Francia, la testa della Val 
Varaita, la quale sbocca nella pianura tra Cuneo e Sa- 
luzzo. Erano ivi in mano dei francesi i quattro comuni 
detti di Casteldelfino : Sant'Eusebio, Ponte Chi anale, 
Chianale e Bellino. 

Con un'altra guerra lunga e fortunosa, quella detta 
di successione spagnuola, durata dal 1701 al 1713 e glo- 
riosa per l'assedio di Torino e l'eroismo di Pietro 



— 271 — 

Micca, Vittorio Amedeo II conquista finalmente all'Ita- 
lia i suoi confini naturali dalla parte d'occidente : il 
Delfinato aux eaux pendantes vers l'Italie diventa ve- 
ramente italiano e la catena delle Alpi segna alfine i 
confini dello Stato piemontese. 



Si può dire che, d'allora in poi — sono oramai pas- 
sati due secoli — l'Italia non abbia più avuto contese 
per ragioni di confini con la sua vicina d'occidente. Le 
guerre rivoluzionarie e la conquista napoleonica ebbero 
altra origine; e la cessione di Savoia e Nizza fu volon- 
taria, voluta per conseguire un più alto fine nazionale. 
Ma la tranquillità della quale ora si gode dalla parte 
del confine occidentale non è forse il frutto della te- 
nacia veramente ferrigna con cui sei generazioni di 
Principi colsero ogni occasione e corsero i più gravi 
rischi, riducendosi talvolta alla più disperata guerra di 
partigiani, pur di riuscire nell'intento di cacciare lo 
straniero di là dalle Alpi? Se nel 1906, a distanza di 
due secoli, italiani e francesi concordi si affratellavano, 
a Torino, nel ricordo comune del valore dei loro ante- 
nati, non forse ciò era dovuto alla giusta causa com- 
battuta dai Principi di Savoia, a cui i discendenti degli 
antichi nemici rendevano commovente omaggio? 

Notisi che la conquista dei confini naturali d'Italia 
dalla parte occidentale non potè avvenire senza una 
qualche offesa al principio di nazionalità. Se il dialetto 
piemontese nel popolo e la lingua italiana nelle classi 
colte erano dominanti nella parte più ricca e 1 bassa dei 
due salienti saluzzese e pinerolese, non così avveniva 



— 272 — 

nella montagna e specialmente nel cosidetto Delfinato 
italiano. Ivi la parlata era indubbiamente francese; in 
francese si redigevano tutti gli atti pubblici; in francese 
avvenivano le discussioni e si scrivevano i verbali dei 
consigli delle comunità. Linguisticamente quelli erano 
territori francesi, come sarebbero francesi la Valle 
d'Aosta e le Valli Valdesi. 

Anche qui il Piemonte e poi l'Italia videro giusto 
rispetto al metodo da tenere per la trasformazione na- 
zionale di quelle popolazioni : e fu l'ossequio più largo 
al loro diritto di parlare, di scrivere e di insegnare in 
lingua francese. Il problema fu risoluto colla libertà. 
Come in Valle d'Aosta la, parlata francese lentamente, 
ma naturalmente si va ritirando dallo sbocco della val- 
lata, quasi presso Ivrea, ove due secoli or sono i ver- 
bali dei consigli comunali si redigevano ancora in fran- 
cese, verso Aosta, per l'infiltrazione crescente di genti 
della pianura e per l'influenza della cultura italiana, 
così accadde nei comuni del Delfinato italiano. I mo- 
narchi sabaudi riconoscono e confermano i vecchi pri- 
vilegi ed usi, a cui quei comuni erano attaccatissimi. 
Fra gli altri, l'uso ed il diritto di scrivere in lingua fran- 
cese i verbali del consiglio comunale durano a Féne- 
strelles sino al 1871. Ed in quest'anno l'usanza muore, 
non per un ordine brutale del governo italiano, ma per 
spontaneo volere di popolo. Ciò che i prussiani non 
riuscirono ad ottenere colla forza nella Posnania dai po- 
lacchi, noi italiani avemmo colla libertà. Nella seduta 
del 21 marzo 1871 il consiglio comunale di Fénestrelles, 
divenuta oramai italianamente Fenestrelle, si pone il 
quesito se convenga continuare ad adottare, come lin- 
gua ufficiale, il francese, secondo la tradizione. E si de- 



— 273 — 

libera di sostituirla con l'italiano « qui est la langue de 
notre patrie ». 

Questo semplice e commovente trapasso dal francese 
all'italiano, come lingua ufficiale degli atti verbali di 
un comune di montagna è un trionfo dell'incivilimento 
concepito alla maniera nostrana; è un trionfo della per- 
suasione spontanea e della nostra virtù di espansione. 
Io sono certo che se l'Italia racchiuderà nei suoi nuovi 
confini orientali qualche minoranza di lingua tedesca 
o slava, l'unico mezzo di assimilazione che noi por- 
remo in opera sarà quello del rispetto alla lingua, alle 
tradizioni, agli usi ed agli interessi delle minoranze in- 
cluse nei confini del regno. È il metodo che a noi diede 
magnifici frutti verso il confine occidentale; ed è il solo 
il quale sia degno di una nazione, come l'italiana, ne- 
mica di ogni oppressione e di ogni persecuzione. 

(Dal Corriere della Sera, 31 maggio 1915). 



18 



PER LE PORTE D'ITALIA 
Soldati Piemontesi! Soldati Italiani! 

Chi di voi, contemplando la maestosa catena delle 
Alpi, che cinge tutt' intorno il nostro Piemonte, non si 
è sentito sicuro per la protezione che quelle montagne, 
dominate per lunghissimo tratto dalla punta del Mon- 
viso, danno alla nostra indipendenza ed alla nostra li- 
bertà? 

Quante volte non avrete voi pensato : di qua dal 
Monviso gli Italiani, di là i Francesi, amendue contenti 
nel proprio paese e viventi accanto da buoni amici, de- 
cisi a stare ognuno a casa propria, coltivando i campi, 
lavorando nelle fabbriche e curando V allevamento e la 
educazione delle famiglie! 

Eppure, le cose non andarono sempre così. 

Francesi ed Italiani, che oggi sono amici e fratelli, 
un tempo si combatterono e forse si odiavano. E la 
causa di queste discordie, oggi fortunatamente cessate, 
era sempre la stessa : non si volevano rispettare, spe- 
cialmente da parte dei potentissimi Re di Francia, i 
confini naturali, che i nostri piccoli Duchi di Savoia, 
diventati poi grandi Re di Sardegna e d'Italia, volevano 
portare fino alla linea divisoria delle Alpi. 

I nostri Duchi, sovrani di un piccolo ma animoso po- 
polo, combatterono per centinaia di anni per assicurarsi 
il confine delle Alpi. Sarebbe troppo lungo narrarvi 
tutte quelle guerre. Vi ricorderemo solo alcuni avveni- 
menti principali. 



— 276 — 

Che cosa direste, voi che conoscete bene il Piemon- 
te, se il Monviso e le vallate del Po e della Varaita e 
la pianura sottostante fino a Saluzzo ed a Carmagnola, 
appartenessero non alVItalia ma alla Francia? Voi di- 
reste che una simile condizione di cose sarebbe intolle- 
rabile; che il non essere padroni delle porte di casa 
nosha, che il lasciar arrivare gli eserciti stranieri fino 
a Carmagnola minaccerebbe gravemente Torino, la ca- 
pitale del Piemonte, e rischerebbe di tagliare in due 
il nostro paese, impedendo le comunicazioni fra Cuneo 
e Mondovì da una parte e Torino, Pinerolo, Susa, Biel- 
la, Ivrea, Aosta dall' altra parte. 

Ciò compresero i nostri vecchi; ma fu solo dopo lun- 
ghe lotte, guerre e trattative che il Duca Carlo Ema- 
nuele I nel 1601 riuscì a far ripassare le Alpi ai Francesi 
col trattato di Lione. 

Ma i Re di Francia, che erano ostinati e volevano 
conquistare il dominio dell'Europa, come oggi vogliono 
fare gli Imperatori di Germania e d* Austria-Ungheria, 
nel 1631 conquistarono Pinerolo, con le Valli del Chi- 
sone e del Pellice, e subito costrussero a Pinerolo una 
formidabile fortezza da cut minacciavano ad ogni mo- 
mento Torino. Il Piemonte era quasi diventato vassallo, 
servo della Francia, e, finche Pinerolo era francese, noi 
piemontesi dovevano mordere il freno. Di nuovo i Du- 
chi di Savoia, assecondati da tutto il popolo, nobiltà, 
borghesia, contadini, colsero ogni occasione per libe- 
rarci da questa schiavitù. La più lunga delle guerre 
combattute per liberare Pinerolo fu quella che durò dal 
1690 al 1696. Sei lunghi anni di guerra, con le battaglie 
della Staffarda e della Marsaglia, sostennero i Piemon- 
tesi contro le agguerrite truppe del Maresciallo Catinai, 



— 277 — 

il quale aveva ricevuto ordine dal suo Ministro della 
Guerra: Bruciate tutto, bruciate bene in Piemonte! Ma 
i nostri bravi soldati, quasi tutti contadini, non si per- 
dettero di coraggio, scalzi e laceri seguitarono a com- 
battere, sostenuti dalla presenza e dall'aiuto del loro 
Duca Vittorio Amedeo II, il quale giunse a spezzare 
fra di loro il suo ricco collare dell' Annunziata perchè 
potessero comprare di che sfamarsi, e tennero testa ai 
nemici. Finalmente, nel 1696, colla pace di Torino, Pi- 
nerolo ci venne restituita e fu così chiusa un'altra gran- 
de porta d'Italia. 

Ne rimanevano aperte ancora tre, molto più pìccole 
di quelle di Saluzzo e Pinerolo; ma capaci sempre di 
lasciar passare le truppe straniere per venire ad inva- 
dere il nostro caro Piemonte. Queste tre porte, che si 
trovavano ancora in mano dei Francesi, erano Castel- 
delfino, su su in capo alla Valle Varaita, da cui i ne- 
mici potevano calare nella pianura fra Cuneo e Saluz- 
zo; il Pragelato con la fortezza di Finestrelle, da cui 
si poteva discendere, per la valle del Chisone, su Pi- 
nerolo; e il Delfinato Italiano, con Oulx, Cesano, Bctr- 
donecchia ed Exilles, da cui per la valle della Dora Ri- 
paria si era a quattro passi da Susa. 

Di nuovo i Piemontesi si decisero ad andare in guer- 
ra per liberare definitivamente le Alpi dalla dominar 
zione straniera; e fu guerra lunga e durissima, che durò 
dal 1701 al 1713 e che tutti voi conoscete per l'assedio 
di Torino e per l'eroismo di Pietro Micco, oscuro figlio 
del popolo, come popolani e contadini erano quelli che 
avevano giurato, insieme al loro Duca, di liberare il 
Piemonte. Alla pace di Utrecht, nel 1713, Casteldelfino, 
Pragelato ed il Delfinato furono ceduti al Piemonte ed 
il confine delle Alpi era raggiunto. 



- 278 — 

Dopo d'allora, i confini delle Alpi dalla parte del 
Piemonte sono stati sicuri; e noi da oramai duecento 
anni siamo tranquilli nelle nostre case, perchè i nostri 
Vecchi non hanno temuto di sacrificare le loro vite ed 
i loro beni per il vantaggio dei loro figli e dei loro di- 
scendenti. Noi oggi siamo amici colla Francia, perchè 
allóra si ebbe il coraggio di farla finita con la prepo- 
tenza dei loro Re, i quali volevano dominare su di noi. 
E noi sappiamo benissimo che i francesi sono contenti 
di essere tornati a casa loro; ed i loro uomini migliori 
ce lo dissero francamente nel 1906, quando insieme e 
di buon accordo festeggiammo il secondo centenario 
dell'assedio di Torino. 

Vorremmo adesso noi essere da meno dei nostri 
vecchi? // Trentino, che è oggi dominato dall'Austria 
ed è abitato da italiani, desiderosi di riunirsi alla ma- 
drepatria, è per la Lombardia ed il Veneto ciò che un 
tempo era per noi Pinerolo in mano dei francesi; ed il 
Friuli orientale, con l'Istria, Gorizia, Gradisca e Trie- 
ste, abitati anch'essi da italiani, ci ricordano i tempi 
in cui Saluzzo con Carmagnola era in possesso di stra- 
nieri. Allora Torino era esposta ad un colpo di mano 
dei francesi, che potevano tranquillamente in tempo di 
pace ammassare truppe al di qua delle Alpi; adesso 
Brescia, Verona, Vicenza, Padova, Venezia, Udine so- 
no esposte agli assalti degli austriaci, i quali possono 
accumulare eserciti a Trento, Riva e Gorizia e venirci 
addosso quando meno ce lo aspettiamo. 

Allora i nostri Duchi erano indipendenti solo di no- 
me; ma in realtà dovevano obbedire ai Re di Francia. 
Adesso. l'Italia negli ultimi dieci o quindici anni ha do- 
vuto subire umiliazioni senza fine. Tutti sanno che ab- 
biamo dovuto le ultime due volte rinnovare l'alleanza 



— 279 — 

con la Germania e l'Austria per forza, sotto la minaccia 
di una dichiarazione di guerra da parte delle nostre al- 
leate. Tutti sanno che, all'epoca della guerra libica, il 
Duca degli Abruzzi dovette rinunciare a bombardare i 
porti turchi dell'Adriatico, e la nostra flotta non potè 
fare nulla contro Salonicco ed i Dardanelli, perchè 
l'Austria aveva posto il veto. E noi dovemmo chinare 
la testa perchè noi avevamo due porte d'Italia — il 
Trentino ed il Friuli con V Istria — in mano all'Austria. 

La nostra guerra non è una guerra di conquista, ma 
di liberazione. Quando avremo ricacciato per sempre 
gli Austriaci al di là delle Alpi, noi vivremo in pace 
con loro. Noi non vogliamo opprimere nessuno, ma 
non vogliamo essere oppressi. Ma perciò abbiamo bi- 
sogno che la cerchia delle Alpi sia nostra. Quando l'a- 
vremo conquistata, noi potremo dire di aver compiuto 
il nostro dovere. / nostri padri faticarono 150 anni per 
liberare le Alpi piemontesi dal giogo straniero, e so- 
stennero guerre sanguinose e devastazioni per intieri 
decenni. Oramai il dado è gettato; se noi non voglia- 
mo che la pianura veneta e la lombarda siano deva- 
state, che le soldatesche austriache e tedesche violino 
le nostre mogli e le nostre sorelle e le nostre figlie, noi 
dobbiamo opporre saldo e animoso il petto contro il 
nemico. 

Ricordate, soldati, che voi conquisterete così pace 
e sicurezza per voi e per i vostri discendenti, per ora 
e per i secoli avvenire; e ridonando all'Italia le sue 
porte, la renderete veramente amica di tutti i suoi vi- 
cini! Con la guerra d'oggi, voi create la pace duratura 
del domani! 

(Pubblicaz. (N. 1) deH'/sfitufo Nazionale per le Bi- 
blioteche dei soldati, Torino, 1916). 



CHE COSA SIGNIFICA 
LA LOTTA SUL TRENTINO 

Gli avvenimenti militari, i quali si sono succeduti 
recentemente nel Trentino, avranno almeno questo be- 
neficio : di far comprendere a tutti, anche a coloro i 
quali hanno bisogno di toccare con mano prima di cre- 
dere, quanto fosse iniquo il nostro confine e quanto la 
nostra guerra sia stata un necessario seguito delle guerre 
che i nostri padri ed avi combatterono per l'indipen- 
denza d'Italia. 

L'Austria possedeva e possiede le porte d'Italia! 
Questa la verità, che oggi anche i ciechi sono costretti 
a vedere. L'abitudine storica di secoli, le gelosie fra 
potenze italiane rivali, l'abilità degli stranieri domina- 
tori, la minore potenza degli Stati stranieri confinanti! 
avevano a volta a volta addormentato gli italiani e li 
avevano persuasi che il Trentino in mano dell'Austria 
ed il confine orientale capricciosamente serpeggiante 
al di qua dell'Isonzo su terra piatta e sottoposta al for- 
midabile baluardo del Carso non fossero un pericolo 
quotidiano, sempre imminente. Venezia, nei suoi se- 
coli di gloria e di forza, badava al mare e poco si cu- 
rava se ad Oriente i conti di Gorizia possedessero più 
o meno terre o se il vescovo-principe di Trento pre- 
stasse un nominale omaggio all'imperatore di nazione 
germanica piuttostochè al Doge della laguna. Il sa- 



— 262 — 

liente Tridentino in mano ad un principe ecclesiastico 
poteva parere persino un baluardo contro le ambizioni 
dei signori di Lombardia. E poi! da tanti secoli la 
Germania era così divisa e debole, l'imperatore di na- 
zione germanica, sebbene si dicesse erede del titolo 
degli imperatori romani e conservasse una vaga pretesa 
all'eminente dominio d'Italia, era così lontano, era di- 
venuto tale un fantasma che si poteva comprendere co- 
me in Italia nessuno se ne curasse. 

Ne gli Absburgo avevano ancora riunito i loro Stati 
ereditari in un corpo compatto di Stato, pericoloso ai 
vicini per le sue mire di espansione. All'Austria si guar- 
dava da tutti con fiducia e con riconoscenza, come al 
baluardo d'Europa contro l'invasione mussulmana. 

La rivoluzione francese, come tutti sanno, cambiò 
questo stato di cose. Quando l'Italia si risvegliò dal so- 
gno napoleonico, la situazione ai confini nord-orientali 
era profondamente mutata : scomparsa la Repubblica 
di Venezia; morta la larva di impero di nazione germa- 
nica; scomparsi molti dei vassalli semi-indipendenti del- 
l'impero e, fra essi, scomparso il pricipato vescovile di 
Trento; gli Stati ereditari d'Austria, prima slegati tra 
loro ed in parte compresi ed in parte esclusi dall'im- 
pero di nazione germanica, trasformati in un nuovo 
Impero d'Austria, e cioè in uno Stato ancora variegato 
per razze, ma compatto per formazione geografica e 
tenuto saldamente insieme da un corpo di impiegati 
devoti alla dinastia. Con l'Austria padrona del Lom- 
bardo-Veneto, la sorte dell'Italia pareva decisa per 
sempre: diventare la lunga mano, quasi un molo get- 
tato nel Mediterraneo a profitto dei paesi germanici. 
Mezzo secolo di sforzi eroici valsero a distruggere in 



— 283 — 

parte il sogno tedesco : l'unione dell'Italia in un solo 
regno dimostrò la ferma volontà degli italiani di vi- 
vere liberi ed indipendenti. 

Ma erano sul serio liberi ed indipendenti? La storia 
della triplice alleanza dimostra il contrario. Fu neces- 
sità allearsi coi nostri oppressori di ieri; ma fu neces- 
sità dolorosa, la quale è la prova che noi non avevamo 
il potere di decidere liberamente della nostra azione e 
dei nostri destini. L'Italia nuova, in ciò dissimile ed in- 
feriore alla Repubblica Veneta, aveva ai propri confini 
nord-orientali un impero austriaco forte, popoloso, esso 
medesimo la lunga mano di un altro nuovo impero, 
quello germanico, ancora più forte, compatto ed am- 
bizioso. E questi due imperi avevano le porte d'Italia 
in poter loro. Dalle Alpi, dalle testate delle vallate 
prealpine, dal bastione dell'Isonzo, essi potevano scen- 
dere su di noi, e minacciarci perennemente per costrin- 
gerci ad arrenderci al loro buon volere. All'Italia invero, 
la nazione germanica, che da se stessa si credeva de- 
stinata alla dominazione del mondo, assegnava una par- 
tecipazione al banchetto : la Corsica, Nizza, forse una 
parte dell'Africa francese. Ma a che sarebbe valso tutto 
ciò? A renderci vieppiù vassalli dei nostri alleati, i 
pupilli ed i soci minori della nazione dominatrice, la 
quale, per essere sicura della nostra obbedienza, avreb- 
be tenuto le chiavi di casa nostra in suo possesso. 

Chi ricorda la storia, vede riprodursi la situazione in 
cui durante il secolo XVII ed il principio del secolo XVIII 
si trovò il Piemonte di fronte alla monarchia francese, 
giunta allora al fastigio della sua potenza con Luigi XIV. 
Anche allora i re francesi offrivano ai principi di Casa 
Savoia allargamenti verso la Lombardia, isole e regni 



— 284 — 

fuori d Italia. Ma volevano tenersi in mano le porte che 
dalle Alpi scendono sulla pianura piemontese : Saluzzo, 
Pinerolo, il Delfinato italiano, il Pragelato, Casteldel- 
fino. I nostri Principi, prima di rivolgersi ad oriente e 
mangiare le foglie del carciofo italiano, vollero assicu- 
rarsi le spalle; e con guerre lunghe ed incessanti, alcune 
delle quali durarono dieci e più anni, riuscirono a con- 
quistare a se ed all'Italia il confine delle Alpi. 

Da allora in poi 1* Italia fu sicura della porta d'occi- 
dente. Chi di noi oserà dire che gli stessi sacrifici non 
si debbano lietamente sopportare per assicurarsi le 
spalle dalla parte d'oriente? 

Chi rifletta a questa vicenda di cose, non può non 
rimanere convinto che la nostra fu una guerra imposta 
dalla dura necessità, una guerra di difesa e non di 
offesa. 

Ancor oggi all'estero, e purtroppo tra qualche ita- 
liano tremebondo e troppo memore delle vecchie in- 
clinazioni neutraliste, si mormora : la guerra italiana è 
diversa dalla guerra che si combatte al confine di Fran- 
cia. Francesi e belgi furono aggrediti e difendono il 
suolo della loro patria; e con essi lo difendono gli al- 
leati inglesi. Ma noi siamo stati gli aggressori, perchè 
fummo noi e non gli austriaci a pretendere il territorio 
che apparteneva alla Casa d'Austria. 

Mai fu detta cosa tanto sostanzialmente falsa. 

Aggressore ed offensore è colui, il quale pretende 
tenere soggette popolazione indubbi amente di stirpe 
e di lingua italiana, che^ la nazione italiana risorta è 
deliberata a stringere al suo seno. 

Aggressore è colui il quale vuole giovarsi di queste 
terre nostre per avere le porte aperte in casa altrui, per 



— 285 — 

esercitare un alto dominio, che il tempo avrbbe reso 
sempre più assoluto, appunto perchè circondato dalle 
apparenze della indipendenza. 

Aggressore è colui il quale pretende di essere, in 
nuove circostanze storiche, l'erede di innocui principati 
antichi ed afferma che queste eredità stanno al disopra 
della volontà dei popoli, delle ragioni della lingua e 
delle esigenze della difesa nazionale. 

Aggressore è colui il quale non ci vuole amici, ma 
pretende tenerci vassalli sottomessi. 

Noi non siamo nemici dei tedeschi e degli austriaci 
perchè tali. Sarebbe un sentimento irragionevole. Noi 
vogliamo soltanto che essi non siano padroni in casa 
nostra. Ci siamo decisi oggi a combatterli, perchè era- 
vamo persuasi che questo era il momento più propizio 
per respingere l'offesa permanente, continua, esercitata 
da essi contro la nostra reale indipendenza e contro 
quelle maggiori offese che l'avvenire ci avrebbe ar- 
recato. 

Supponiamo che Germania ed Austria fossero riu- 
scite nel loro tentativo di conquistare la supremazia 
suir Europa. Ed il tentativo avrebbe certamente avuto 
maggiori probabilità di riuscita se non fossimo interve- 
nuti noi per tempo ad immobilizzare parte delle forze 
austriache. Lo confessò l'arciduca Federico nel suo ira- 
condo proclama alle truppe austriache nell'atto di ini- 
ziare l'offensiva del Trentino : « a quest'ora, senza il 
tradimento degli Italiani, noi avremmo già avuto la 
pace! ». E sarebbe stata la pace austro^tedesca; la pace 
la quale avrebbe fondato lai grande federazione dell'Eu- 
ropa di mezzo (Mirtei Europa) da Amburgo sino al 
Golfo Persico. 



— 286 — 

Quale sarebbe stata la nostra situazione dopo una 
pace siffatta? 

Creda chi vuole che l'Austria avrebbe condisceso a 
donarci il formidabile saliente del Trentino, a spo- 
gliarsi delle fortezze, costrutte con decenni di lavoro e 
con centinaia di milioni di lire di spese, ad abbando- 
nare la linea aggressiva dell'Isonzo! Ai traditori — e 
noi agli occhi dell'Austria eravamo dei traditori — non 
si dà il prezzo del tradimento; sibbene si dà disprezzo 
e punizione. 

Con qualsiasi pretesto, una spedizione punitiva sa- 
rebbe stata allestita contro l'Italia; e rufro l'urto formi- 
dabile degli eserciti uniti del nuovo impero medio- 
europeo avrebbe gravato sulle nostre forze, sole, isolate, 
situate in una posizione strategica di gran lunga infe- 
riore. Inglesi, Francesi e Russi avrebbero lasciato fare; 
tanto, che cosa avrebbe importato ad essi delle sorti di 
un popolo che non si sapeva battere? 

La conclusione della guerra combattuta in così di- 
sgraziate condizioni non poteva essere dubbia: l'Italia 
sarebbe diventato un paese di protettorato reale, se non 
formale, germanico. Venezia e Genova e Spezia avreb- 
bero cessato di essere porti italiani. Sarebbero dive- 
nuti per il commercio e per la dominazione marittima 
del Mediterraneo a prò della Germania, quello che è 
ora Amburgo e quello che i tedeschi vorrebbero fare 
di Anversa e di Rotterdam. 

Gli italiani avrebbero dovuto ricominciare la lunga 
e dolorosa fatica delle cospirazioni, delle rivolte, dei 
martiri per riacquistare la perduta indipendenza. 
L'Austria, memore sempre della gloria acquistata con 
le forche di Belfiore, avrebbe tornato ad applicare 



— 287 — 

i metodi che in passato le furono tanto cari e che nel 
Belgio, nella Serbia, nella Dalmazia, in Boemia oggi 
sono freddamente usati dagli austro-tedeschi contro gii 
uomini più invitti delle razze che essi vogliono domi- 
nare o fare scomparire. 

E, forse, lottare contro gii adescamenti di vantaggi 
materiali ai più torpidi ed il terrore della forca ai più 
generosi, sarebbe diventato impossibile. A chi chie- 
dere aiuto, quando la Francia fosse scomparsa dal no- 
vero delle grandi nazioni, l'Inghilterra avesse perduto 
il dominio dei mari e la Russia fosse stata risospinta in 
Oriente? 

La disperata situazione dell'Italia sarebbe stata così 
evidente, che non avrebbe neppure fatto d'uopo al- 
l'Austria combattere una guerra per raggiungere l'in- 
tento. Isolata e sfiduciata, l'Italia insensibilmente 
avrebbe condisceso a trasformare a poco a poco, sotto 
la pressione di minaccie militari-diplomatiche ignorate 
dal gran pubblico, i vincoli di apparente alleanza in 
vincoli di reale unione e di ancor più reale sudditanza 
di noi più deboli agli altri più forti. 

Coloro che in Italia si spaventano e si lagnano delle 
imposte nuove che dovremo pagare per far fronte alle 
spese della guerra, dimenticano che delle imposte ci 
si può lamentare soltanto quando ad esse non corri- 
sponda alcun vantaggio o servizio fornito dallo Stato 
ai nostri cittadini. Re Bomba faceva scrivere dai suoi 
ministri opuscoli per dimostrare che i napoletani erano 
il più felice popolo della terra, perchè pagavano poche 
imposte; mentre, secondo lui, i piemontesi dovevano 
ritenersi prossimi alla rovina, perchè il conte di Cavour 



— 288 — 

ogni anno aumentava le imposte per correre dietro alla 
fìsima della indipendenza italiana. Ma i fuorusciti napo- 
letani a Torino vittoriosamente replicavano che i pie- 
montesi traevano vantaggio materiale e morale dalle 
imposte gravi; perchè ottenevano, in cambio di esse, 
ferrovie, strade, istruzione e quella preparazione mili- 
tare che doveva portare nel 1859 alla cacciata dello stra- 
niero dall'Italia. 

Oggi noi paghiamo imposte, è vero; ma per procu- 
rare a noi stessi giustizia, sicurezza, scuole, strade, fer- 
rovie ed un esercito il quale difenda il suolo della no- 
stra patria. Forsechè cessando di essere un popolo li- 
bero, cesseremmo di pagare imposte? Quando mai si 
è veduto che i popoli vassalli siano stati esenti da im- 
poste? La storia anzi ci ammaestra che su di essi gra- 
varono sempre imposte durissime ed odiosissime. 

Quand'anche le imposte rimanessero uguali, esse sa- 
rebbero più pesanti di prima per i contribuenti, perchè 
impiegate a mantenere un esercito altrui ed a fare spese 
fuori del paese. Quando l'Austria dominava nel Lom- 
bardo-Veneto erano ogni anno centinaia di milioni che 
i contribuenti italiani pagavano a Vienna senza rice- 
vere nulla in cambio : vero tributo di vassallaggio che 
gli austriaci esigevano col pretesto di far contribuire 
i lombardo-veneti ad una parte delle spese generali 
dell'impero. 

Il pagar tributo allo straniero non è solo odioso dal 
punto di vista morale, ma anche dal punto di vista ma- 
teriale. È ricchezza che, invece di rimanere nella na- 
zione, è pagata a favore della nazione dominatrice. E 
poiché l'Austria ha molte Provincie povere, ognuno 



— 289 — 

comprende quanti pretesti essa troverebbe per gravare 
di balzelli sproporzionati le ricche Provincie italiane, 
specie dell'Alta Italia. 

Balzelli di denaro, e tributo di sangue. Chi conosce 
lo strazio delle famiglie italiane del Trentino, di Trie- 
ste e dell'Istria, i cui figli e padri furono mandati a 
morire in Galizia ed in Serbia per una causa non loro? 
E gloria morire per la patria; ma è strazio inenarrabile 
morire per la patria altrui e contro la patria nostra! 



Perciò noi, combattendo sulle balze del Trentino e 
sulla fronte dell' Isonzo, difendiamo il nostro suolo, i 
nostri averi, le nostre case, le nostre famiglie. Difen- 
diamo ciò che a noi sovratutto è caro, la nostra lingua, 
la nostra esistenza come popolo indipendente, la no- 
stra volontà di vivere non come animali beatamente 
tenuti all'ingrasso, ma come uomini liberi, uniti da vin- 
coli volontari in una nazione che ha dietro di sé alcuni 
millenni di storia e di gloriose tradizioni, e che vuole 
continuare a vivere in perpetuo. 

(Pubblicazione (N. 29) dell'Istituto Nazionale per 
ìe Biblioteche dei soldati. 1916). 



19 



ACHILLE NECCO 

Giovanni Lorenzoni, segretario generale dell'Istituto 
internazionale d'agricoltura — ora, per arruolamento 
volontario, sottotenente negli alpini — così mi narra in 
una lettera angosciata la dolorosa notizia appresa nella 
prima missione avuta sulla più avanzata linea del no- 
stro frante : 

«Arrivo in un'alta valle circondata da picchi altissimi. Trovo 
delle truppe e mi dicono che il giorno 9 era morto 1) vicino, colpito 
da una palla in fronte, mentre perlustrava un canalone, un ufficiale 
degli Alpini. Ne chiedo il nome. Figurati il mio profondo dolore 
quando sentii ch'era Achille Necco ! 

« Si trovava colà solo dal 26 agosto. Ma era già riuscito a con- 
quistarsi la stimai e la simpatia dei suoi colleghi e l'affetto dei suoi 
soldati. 

« Uno degli ufficiali suoi colleghi diceva scultoriamente di lui- 
ch'era un «valoroso di tutti i giorni». Sempre pronto, volonteroso, 
andava avanti a tutti, incoraggiava i suoi uomini colle parole e 
coli 'esempio. Mori il giorno 9 al mattino. I suoi alpini lo calarono 
giù nella valle; poi un corteo di soldati lo accompagnò nel paese 
più vicino. 

« Or egli è 11 sepolto nel cimitero di Padola, la fronte anche ora 
rivolta al nemico ; le belle montagne intorno gli fanno custodia e 
il cielo gli sorride come a uno dei molti eroi di questa guerra che 
tanti nobili fasti ha scritto, e che ha portato molto in alto l'anima 
italiana. 

« Ho visitato oggi la sua tomba segnata da una croce di legno 
ed ornata da una corona. Sulla croce scrissi nome, cognome e qua- 
lità, ed aggiunsi queste parole : « Era forte e sapiente, valoroso e 
buono. Fu proposto per la medaglia al valore». 

Così scrive chi è stato per parecchi anni il capo ama- 
to di Achille Necco all'Istituto internazionale di agri- 



— 292 — 

coltura. Io, che lo ebbi studente, amico, collaboratore 
amatissimo in questa rivista, compilatore del mio corso 
di lezioni universitarie, fui sempre sicuro che egli avreb- 
be fatto, senza sfoggio, con semplicità e spontaneità, 
grande onore al suo paese. Non lo avevo sentito parlare 
in favore della guerra con l'Austria; ma non mi meravi- 
gliai il giorno che mi comunicò di non avere voluto at- 
tendere venisse il turno della chiamata della 3 a cate- 
goria della sua classe e di avere fatto domanda di es- 
sere nominato sottotenente della territoriale. Del pro- 
posito attuato non menava vanto, poiché aveva obbe- 
dito soltanto alla voce del dovere. E quando, dopo il 
periodo di istruzione in un battaglione di alpini nella 
Carnia era stato assegnato ad un reggimento di fan- 
teria per l'istruzione delle reclute, parendogli il nuovo 
posto più arretrato in confronto alle prime file, aveva 
chiesto di essere nuovamente assegnato ai suoi alpini. 
Non per sfoggio di bravura; ma perchè, essendo stato 
prima nel luogo del pericolo, la coscienza gli diceva 
che doveva seguitare ad essere là dove era stato prima- 
mente mandato dai suoi capi. Così, serenamente, per 
un senso altissimo e silenzioso del dovere, egli offriva 
la sua vita alla patria. Apparteneva, egli di umile fa- 
miglia di lavoratori, alla razza dei gentiluomini piemon- 
tesi che accorrevano, senza discutere, sotto le bandie- 
re, ogni volta che il loro Re li chiamava a versare il 
sangue per la difesa del paese. 

All'arnica suo dott. Attilio Garino-Canina, il giorno 
prima di un fatto d'arme a cui doveva prendere parte, 
scriveva dandogli alcune disposizioni di ultima volontà 
rispetto alla sua biblioteca : « Se questa mia ti giungerà, 
ti sia d'annuncio della mia morte sul campo o in qual- 



— 293 — 

che ospedaletto avanzato. Te la scrivo ora, mentre sto 
per raggiungere la mia destinazione. Un mio collega, 
partito con me da Pinerolo, è già morto : potevo be- 
nissimo essere stato designato io al suo posto. E ti 
scrivo per pregarti di salutarmi tutti gli amici coi quali 
speravo di festeggiare il ritorno. Ti confesso che il sa- 
crifìcio della vita non mi è stato lieve; ma non lo rim- 
piango, perchè sentivo che l'esporla era un dovere mo- 
rale ». 

Come andò incontro serenamente alla morte per un 
ideale, così serenamente egli trascorse gli anni troppo 
brevi della sua vita. Aveva cominciato ad essere noto 
tra gli studiosi di cose statistiche ed economiche alcuni 
anni più tardi dei suoi coetanei; ma gli amici, i quali 
sapevano quanto dura fosse stata la sua giovinezza, stu- 
pivano dei risultati del suo lavoro. Fino a quando fu 
chiamato a Roma, redattore all'Istituto internazionale 
di agricoltura, Achille Necco aveva studiato e lavorato 
superando difficoltà che ad altri sarebbero parse insor- 
montabili. Gran parte del lavoro preparatorio, fatico- 
sissimo e paziente, per gli scritti sui prezzi delle merci 
e sui valori di borsa in Italia fu compiuto rubando le 
ore al sonno e riducendo a pochi minuti la colazione 
per potere, durante l'ora meridiana, che il modesto uf- 
ficio d'ordine alla Cassa di risparmio di Torino gli la- 
sciava libera, correre nelle biblioteche o negli uffici pub- 
blici dove trovava il materiale per i suoi lavori. 

Ai nostri occhi, che sapevano con quanto disagio egli 
lavorasse, la sua continua allegria, la naturalezza tran- 
quilla con cui egli compieva gli sforzi maggiori, tene- 
vano del miracoloso. Era forte, sobrio, non aveva vizi; 
e lavorava per il padre, per la madre, per il fratello e 



— 294 — 

per le sorelle. 1 auto accanita e materiale era stata la 
sua fatica di ogni giorno, e tanto care ed afferrate con 
gioia le ore che aveva potuto dedicare allo studio, che 
la chiamata all'istituto intemazionale di agricoltura, do- 
ve pure gli affidarono subito compiti delicati e conti- 
nui, parve a lui un rinascere alla vita. Parlava con le- 
tizia dell'agio che il nuovo ufficio gli dava di applicarsi 
a fatti e studi per lui interessanti e di trascorrere alcune 
ore di ogni giorno nella disinteressata fatica intellettua- 
le. Seguitò a studiale ed a scrivere, perchè lo studio 
gli piaceva. Ne, come tanti fanno, studiava e scriveva 
colla mente intenta alla carriera accademica da percor- 
rere. Gli amici che lo apprezzavano, gli studiosi che lo 
leggevano erano sicuri che un giorno gli sarebbe toc- 
cata una cattedra, meritato guiderdone dei suoi studi 
coscienziosi. Egli invece non ne parlava; non aveva 
impazienze; e niente in lui ricordava il tipo comune del 
concorrente universitario. Mentre altri novera a mesi il 
tempo occorrente per condurre a termine l'iniziato « ti- 
tolo » da concorso, egli discorreva tranquillamente de- 
gli anni che ancora gli sarebbe costata la compilazione 
del suo lavoro sui valori di borsa in Italia. Lavorava 
non per ottenere un fine pratico col suo lavoro, ma per- 
chè riteneva che il lavoro dovesse riuscire compiuto en- 
tro i limiti in cui lo aveva concepito. 

Perciò i suoi scritti resteranno nella nostra lettera- 
tura statistico-economica. Dovranno essere continuati; 
ma il suo punto di partenza rimarrà fermo. 

Anche il suo scritto minore, su alcuni meno avver- 
titi aspetti del movimento della popolazione in Italia, 
che fu quasi un lavoro d'occasione e doveva essere rie- 
laborato da lui, affrontava un problema meritevole di 



— 295 — 

essere approfondito. Mosso forse dalle sue vive condi- 
zioni religiose, gittò, tra i primissimi, un grido d'allar- 
me quando i dati dell'ultimo censimento gli additarono 
la diminuzione preoccupante della natalità nel na- 
tivo Piemonte, inquinato dalla mala vicinanza e dal- 
1* importato' esempio della sterilità francese, e segnalò 
le ragioni morali del morbo che da lontano minaccia 
l'avvenire demografico del nostro paese. 

Ma, sovratutto, egli tracciò un solco fecondo nel 
terreno, in Italia ancora male dissodato, delle indagini 
sui prezzi delle merci e dei valori. 

Mancava per l'Italia un numero indice dei prezzi 
delle merci, che corrispondesse a quelli del De Foville 
per la Francia, dell' Economist e del Sauerbeck per l'In- 
ghilterra e di altri insigni maestri per i principali paesi 
del mondo. Alcuni l'avevano iniziato; ma poi, impa- 
zientitisi, avevano abbandonato a mezzo l'opera. Achil- 
le Necco*, che era un lavoratore perseverante, acuto, 
preciso, volle compiere il lavoro necessario e desidera- 
to; e sarà sempre vanto di questa rivista di averlo in- 
coraggiato nel pubblicare il suo saggio sulla curva dei 
prezzi delle merci in Italia negli anni 1881-1909. La 
materia prima esistente da noi per calcoli di questo ge- 
nere era imperfetta e grossolana; ma il Necco ne trasse 
fuori tutto quanto essa poteva dare. Egli espose il me- 
todo tenuto, gli artifizi adoperati, le cautele osservate, 
le restrizioni che devono essere presenti alla mente di 
coloro che vogliono adoperare i suoi indici. Dopo ave- 
re compiuta la ricerca retrospettiva, volle di anno in 
anno continuarla, con grande comodità degli studiosi e 
vantaggio della scienza. Oramai i numeri indici dei 
prezzi « Necco » avevano acquistato diritto di cittadi- 



— 296 — 

nanza nella scienza internazionale; studiosi italiani e 
stranieri li usavano come un ferro corrente del mestiere, 
così come si usano altri famosi numeri indici. Era per 
lui cagione di letizia vedere riconosciuta universalmen- 
te la utilità del suo lavoro; non di superbia, come ac- 
cade spesso in altri, pure meno benemeriti di lui. Pa- 
reva quasi si compiacesse di essere un semplice anello 
di una catena mondiale di studiosi, intenti, coi mede- 
simi metodi precisi ed esatti, a raggiungere un fine 
comune. 

Appena ebbe compiuto il lavoro sui prezzi, volse 
l'animo ad un'altra impresa di lunga lena. Parve a lui, 
traendo lo spunto da una osservazione di Maffeo Pan- 
taloni in un assai favorevole riassunto dei suoi numeri 
indici pubblicato sul Giornale degli Economisti, che la 
conoscenza dei prezzi delle merci doves.se essere inte- 
grata dalla conoscenza dei prezzi dei valori. Se fosse 
stato possibile, avrebbe vagheggiato altre integrazioni; 
mercè le quali soltanto si potrà col tempo riuscire ad 
avere una pallida idea di quelle variazioni del potere 
d'acquisto della moneta, che sono il tormento di tanti 
indagatori e la cui notizia è così essenziale per la ri- 
soluzione di tante questioni teoriche e pratiche. 

11 suo ultimo scritto, finito di pubblicare in questo 
stesso anno da lui, come supplemento alla Riforma So- 
ciale ed insieme al Giornale degli Economisti, poco 
prima di vestire la divisa di ufficiale degli alpini, è un 
contributo prezioso, definitivo allo studio delle varia- 
zioni dei prezzi dei valori mobiliari. Il lavoro è purtrop- 
po incompiuto; poiché riflette solo i valori a reddito 
fisso emessi dallo Stato o colla sua garanzia. Ma anche 
così incompiuto, quale somma di calcoli dovette egli 



— 297 — 

compiere, quante difficoltà minute e sottili dovette su- 
perare! Egli si compiaceva in questi lavori, i quali pos- 
sono parere poco brillanti solo a chi non ha il vero 
temperamento scientifico. Necco non era un grande 
teorico; ma poiché i grandi teorici sono rarissimi, egli 
poteva vantarsi di essere un vero studioso : aveva cioè 
la passione delle verità sicure; voleva applicare i prirv 
cipii generali ai fatti specifici e ne sapeva saggiare così 
la vera importanza, Poco amava discorrere di metodo 
in generale ed insegnare altrui come le cose dovrebbero 
essere fatte; ma, quelle imprese a cui si accingeva, ese- 
guiva con metodo rigorosamente scientifico. Ai suoi due 
scritti si ricorre oggi e si ricorrerà fra venti e cinquanta 
anni come ad una fonte sicura. Chi vorrà sapere quale 
sia stato il tasso di frutto dei capitali impiegati a red- 
dito fisso nel primo cinquantennio dell'unità nazionale 
dovrà ricorrere all'ultimo scritto del Necco. Fin dove 
egli giunse, l'opera sua non è più da rifare. Nessuno 
in Italia aveva tentato di manipolare le migliaia e mi- 
gliaia di quotazioni quotidiane, che egli ci presentò in 
poche nitide tabelle; pochissimi lavori stranieri possono 
sostenere il confronto col suo. 

Io credo che il migliore omaggio che da noi si possa 
rendere all'indimenticabile memoria del compianto estin- 
to sia di proseguire l'opera sua. La nostra rivista con- 
tinuerà a pubblicare, finche essa duri, ogni anno i nu- 
meri indici dei prezzi delle merci e li intitolerà al nome 
del loro iniziatore. Nelle carte lasciate dal Necco è da 
augurare si trovino gli spogli in parte già compiuti delle 
quotazioni dei valori mobiliari a reddito fisso non di 
Stato (obbligazioni comunali, fondiarie, industriali) ed a 



— 298 — 

reddito variabile (azioni). Sarebbe doloroso che l'opera 
rimanesse tronca a mezzo e non trovasse un seguitatore. 
Achille Necco era un credente, un animo retto e 
semplice, il quale nobilitò la sua fede con l'olocausto 
della vita fatto alla patria; uno dei molti appartenenti 
alle generazioni nate dopo 1*80, che oggi lottano e muo- 
iono contenti, con di nuovo sulle labbra le grandi pa- 
role « religione », « famiglia », « patria ». Il suo ricordo 
rimarrà scolpito nel cuore di quelli che lo conobbero 
buono, forte, sereno, studioso; l'opera sua sarà se- 
guitata sicuramente da qualcuno dei giovani, il quale 
non abbia l'egoismo sterile della lotta per la carriera 
e sia persuaso che i risultati scientifici duraturi si con- 
seguono soltanto collegando le indagini nuove alle in- 
dagini antiche, collaborando fraternamente con i conv 
pagni e poco promettendo e farneticando di novità. 
Achille Necco non pensò mai con superbia di se stesso; 
prima di scrivere, volle conoscere tutto ciò che era stato 
pubblicato nel campo da lui intrapreso a studiare; ne 
si giovò dei suoi nuovi studi per gittare, come spesso 
accade ai copiatori ed ai rimaneggiatori, lo sprezzo 
sulle verità superate o sui metodi invecchiati dei prede- 
cessori. E poiché egli amò di seguitare l'esempio altrui, 
così vi sarà indubbiamente chi seguiterà l'opera sua. 

Ora, due parole di biografìa e bibliografia, brevi, so- 
brie, com'Egli era. Achille Necco nacque a Torino il 
15 ottobre 1887 da Giuseppe e da Emilia Grazzini, da 
Pisa. Iniziò i suoi studi elementari presso i « Fratelli 
della Scuola cristiana » e compiè il ginnasio inferiore 
nell'Istituto Salesiano di Sampierdarena. Questo pe- 



— 299 — 

riodo della sua istruzione ed educazione intellettuale 
ebbe un'influenza decisiva sulla sua vita spirituale fu- 
tura, preparando quella fede cattolica, non solo reli- 
giosa, ma politica e sociale, di cui fu, fin dalla prima 
gioventù, milite austero, forte, mai settario. Dal 1901 
al 1906 percorse, sempre tra i primi, quando non era 
il primo, a Torino, il ginnasio superiore ed il liceo al 
Gioberti, brillantemente mostrando fin d'allora le ma- 
gnifiche qualità della sua mente. A pena finito il liceo, 
l'on. Mauri, direttore del Momento, lo inviò nel Treiv 
tino a studiarvi le condizioni di tutto il movimento eco- 
nomico-sociale-politico clericale, specialmente il coope- 
rativismo agricolo. Il Necco girò allora tutto il Trentino 
e ne raccolse un ricco materiale di osservazioni, che fu 
poi utilizzato dal giornale torinese. 

Mentre s'iscriveva nella facoltà di legge dell'uni- 
versità di Torino, vinceva (1906) il concorso di impie- 
gato alla cassa di risparmio di questa città, dove ri- 
mase fino al 1913. Contemporaneamente egli continua- 
va a collaborare su periodici cattolici, specie sul Mo- 
mento, ed a partecipare al movimento cattolico, specie 
alle organizzazioni economico-sociali . 

Benché occupato nel suo impiego alla cassa di ri- 
sparmio, compieva, sempre con votazioni lusinghiere, 
i suoi studi universitari, coronandoli colla laurea con- 
seguita nel luglio 1910 a pieni voti e lode, colla presen- 
tazione del suo studio sui prezzi italiani, che con pic- 
coli ritocchi è diventato il più apprezzato ed autorevole 
lavoro che in Italia si abbia sull'argomento. 

Continuava intanto a collaborare sulla Riforma So- 
ciale, sulla Rivista delle Società commerciali, sul Gior- 
nale degli Economisti. Nel 1913 passava all'istituto in- 



— 300 — 

ternazionale d'agricoltura, chiamatovi dal Lorenzoni e 
dal Ricci, che lo destinavano alla ufficio di statistica » 
dell'istituto, dove rimase collaboratore apprezzatissimo, 
fino al 1915. 

Venuta la guerra, presentò volontaria domanda da 
ufficiale : appassionatissimo della montagna, scelse l'ar- 
ma degli alpini. Mandato al fronte nella seconda metà 
di agosto, cadeva il 9 settembre al passo della Senti- 
nella, con la fronte rivolta alla valle di Sexten. Ora 
dorme sepolto a Padola, frazione di Comelico Su- 
periore. 

I suoi principali scritti di carattere scientifico sono i 
seguenti : 

1910. « La curva dei prezzi delle merci in Italia negli anni 1881- 

1909». (Torino, supplemento della Riforma Sociale). L'ar- 
ticolo di M. Pantaleoni, che lo segnala e riassume, è «La 
curva dei prezzi delle merci in Italia negli anni 1881-1909, 
del dott. A. Necco » (Giornale degli Economisti, die. 1910). 

1911. «Il prezzo delle merci nel 1910. Continua la tendenza all'au- 

mento?». (Riforma Sociale, fase. 1). 
«Le società per azioni in Italia». (Riforma Sociale, fase. 5). 
«I prezzi delle merci in Italia nel 1910». (Riforma Sociale, 

fase. 8). 

1912. «Le società per azioni italiane nel 1911 ». (Riforma Sociale, 

fase. 5). 

1913. «Attraverso gli Annuari (Rassegne)». (Riforma Sociale, fa- 

scicolo 5). 

« Il problema della popolazione in Italia : perchè la popola- 
lazione declina più rapida in Piemonte e Liguria)). (Ri- 
forma Sociale, fase. 6-7). 

«I prezzi delle merci in Italia nel 191 1 ». (Riforma Sociale, 
fase. 8-9). 

«L'esportazione dei capitali in Francia ed in Italia». (Rivista 
delle Società commerciali, fase. 6). 

1914. « Il movimento delle società italiane per azioni nel 2 seme- 

stre 1913 ». (Rivista delle Società commerciali, fase. i°). 
« Attraverso gli Annuari ». (Riforma Sociale, fase. 4). 



301 



ci I prezzi delle merci in Italia nel 19 12 ». (Riforma Sociale, 
fase. 5). 

«L'industria del granito nel Canton Ticino». (Riforma So- 
ciale, fase. 5). 

«-11 movimento delle società italiane per azioni nel i° seme- 
stre 1914». (Rivista delle Società commerciali, fase. 6). 

«L'ammontare e la composizione della ricchezza delle nazioni». 
(Rivista delle Società commerciali, fase. 4). 
191 5. « I prezzi delle merci in Italia nel 1913 ». (Riforma Sociale, 
fase. 4-5). 

« La questione irlandese e il nostro problema meridionale ». 
(Giornale degli Economisti, marzo). 

« Il corso dei titoli di Borsa in Italia dal 1861 al 1912. — 
I. I titoli di Stato». (Torino, supplemento della Riforma 
Sociale e del Giornale degli Economisti). 

(Da « La Riforma Sociale », settembre 1915). 



CESARE JARACH 

Dopo Achille Necco, Alberto Caroncini e poi At- 
tilio Begey ed oggi Cesare Jarach : la lista dei colla- 
boratori della nostra rivista morti sul campo per la di- 
fesa della patria si allunga. Cresce il cordoglio per la 
perdita di tanti valorosi ingegni e cresce la speranza 
che un paese, le cui classi intellettuali seppero con fer- 
mezza e semplicità far seguire alle parole il sacrificio 
personale, abbia nell'avvenire a dimostrarsi degni di 
superare più aspri cimenti e conseguire una più no- 
bile mèta. 

Nato a Casale Monferrato il 9 marzo 1884, fu allievo 
del R. Collegio Carlo Alberto per gli studenti delle an- 
tiche provincie e seguì i corsi universitari nell'ateneo 
torinese, conseguendovi la laurea in leggi nel luglio 
1904, con una dissertazione intomo ai rapporti fra trusts 
e protezionismo, che fu pubblicata poi su questa rivista. 
Durante gli anni universitari ed in quelli seguenti curò 
la compilazione delle mie lezioni e di quelle del profes- 
sore Alessandro Garelli. Nell'anno scolastico 1904-905 
ebbe l'incarico' dell'insegnamento dell'economia poli- 
tica e della scienza delle finanze nell'istituto tecnico 
G. Sommeiller di Torino. 

Scelto dal senatore Faina e dal prof. Coletti come uno 
dei delegati tecnici per l'inchiesta parlamentare sulle 
condiziona dei contadini nelle provincie meridionali e 



— 304 — 

nella Sicilia scrisse la relazione sugli Abruzzi; e le sue 
doti di studioso ed indagatore, che in tale ufficio si ri- 
velarono, lo fecero chiamare nel 1909 all'Istituto inter- 
nazionale di agricoltura, dove fu prima segretario par- 
ticolare del senatore Faina, allora presidente dell'isti- 
tuto ed attese poi a studi sulla organizzazione della sta- 
tistica agricola e sulla cooperazione nell'agricoltura. Nel 
frattempo teneva nel 1911 l'incarico dell'insegnamento 
dell'economia politica nell'istituto tecnico di Roma. 

Nel 1911 passò, in qualità di ispettore, al commissa- 
riato dell' emigrazione a Roma, e fu segretario del con- 
siglio, incaricato di riferire sulle questioni del controllo 
dei noli dei vettori, sui vari progetti di colonizzazione 
interna ed estera, su provvedimenti -sanitari, ecc. Nel 
1913, sempre nella sua qualità di funzionario del com- 
missariato, passò a dirigere l'ufficio di emigrazione per 
gli uffici di terra in Milano, dove rimase fino al giorno 
della chiamata alle armi. Nominato aspirante ufficiale 
e mandato sul Carso, cadeva pochi giorni dopo, alla 
testa dei suoi soldati, colpito da una granata austriaca. 
Sopravvisse alcune ore e morì serenamente, col pen- 
siero rivolto alla moglie ed ai tre figli, che egli lascia in 
tenerissima età. 

Le necessità della vita non gli consentirono di de- 
dicare tutta la propria attività alla scienza economica, 
sebbene non gli siano mancate lusinghiere attestazioni 
di eleggibilità e di apprezzamento in concorsi univer 
sitari. Ma servì, forse ancor più utilmente, il paese negli 
uffici pubblici. Appartenne alla schiera, la quale va 
purtroppo facendosi sempre più rara in Italia, dei fun- 
zionari i quali onorano l'ufficio coperto con la auste- 
rità nell'adempimento del proprio dovere e con la co- 






— 305 — 

scienza che a questo non si soddisfa se non si entra nel- 
l' arringo con una solida preparazione scientifica e se 
questa non si affina ognora più. La guerra odierna ha 
dato la dimostrazione di un vuoto terrorizzante nel- 
l'intelligenza e nella capacità tecnica del ceto burocra- 
tico dirigente italiano, sicché non ho dubbio che se, in- 
vece di non troppo numerose decine, i funzionari colti, 
studiosi, animati da devozione alla pubblica cosa, come 
era Cesare Jaraeh, fossero qualche centinaio e se essi 
potessero essere messi a capo delle pubbliche ammini- 
strazioni, mirabili risultati si potrebbero ottenere; e ces- 
serebbe il disordine che oggi segue all'incompetenza 
degli uomini politici ed all'arrivismo non meno incom- 
petente dei funzionari, il cui unico ideale sembra es- 
sere quello di far 1 carriera, servendosi e facendosi servi 
delle fantasie e degli interessi degli uomini e dei grup- 
pi, i quali si succedono al potere. 

Cesare Jaraeh diede il suo nome alla non numerosa 
falange di nazionalisti, la quale ben presto scisse la 
sua azione da quella del partito nazionalista e, duce 
Alberto Caroncini, volle richiamare il nazionalismo alle 
sue origini nazionali e liberali. Sull'organo di questa fa- 
lange scelta, L'Azione di Milano, scrisse egli succosi 
articoli, per lo più collo pseudonimo di Vtridis, riven- 
dicando, tra il blatteramento incomposto dei troppi na- 
zionalisti analfabeti, le ragioni della scienza economica 
nelle sue immediate applicazioni pratiche. 

Fu scrittore di cose teoriche, in economia e finanza, 
sobrio, acuto, elegante. Ai suoi saggi sui rapporti fra 
trust e protezionismo, sulla teoria della speculazione, 
sugli effetti di una imposta generale ed uniforme sui 
profitti si ritoma volentieri colla mente, come quelli chef 



— 306 — 

sono il frutto di una meditazione personale accurata, 
che spoglia la trattazione di ogni elemento estraneo su- 
perfluo e riduce il problema ai suoi dati essenziali ed 
alle sue conclusioni logiche più semplici. Nel che ai 
riscontra il vero abito dello studioso. 

I suoi scritti di economia descrittiva e di statistica 
economica rimarranno. Altre relazioni dei delegati tec- 
nici della inchiesta sulle condizioni dei contadini nel 
Mezzogiorno ed in Sicilia possono eccellere sulla sua 
per la vastità del tocco, per la complessità della visione 
del problema (Lorenzoni); nessuna supera quella del 
Jarach sugli Abruzzi per la precisione dello studio del- 
l'aspetto economico del problema. Egli era un econo- 
mista; ne, giustamente, conoscendo sé stesso, amava 
fare incursioni nei campi vicini. Gli stadi sullo sviluppo 
ed i profitti delle società per azioni italiane dal 1882 
al 1903, ripresi poi nello studio sui bilanci del 1911 
sono un monumento di indagine scrupolosa, condotta 
con cura ed abnegazione grandissime. Essi non hanno 
bisogno di essere rifatti; ed ogni indagatore, il quale 
in avvenire voglia studiare gli stessi fatti, dovrà rifarsi 
ancora alle fondamenta poste dallo Jarach ad un edi- 
ficio che prima di lui nessuno aveva cominciato a co- 
struire. 

Scritti del Dott. Cesare Jarach. 

Aggio, circolazione e riserva delle Banche di emissione. (Estr. 
dalla Riforma Sociale, fase. i°, anno x, voi. xn, seconda serie, 
pag. 7. Torino, 1903). 

I rapporti fra trusts e protezionismo. (Estr. dalla Riforma So- 
ciale, anno xi, voi. xiv, seconda serie, pag. 34. Torino, 1904). 

Lo sviluppo ed i profitti delle Società per azioni italiane dal 
1882 al 1903 (nella collezione degli «Studi del laboratorio di economia 



— 307 — 

politica S. Cognetti De Martiis, della R. Università e del Museo in- 
dustriale di Torino», n. i° della collezione, pag. 114. Torino, 1906, 
Roux e Viarengo). 

La distribuzione topografica delle Società per azioni italiane e 
l'incremento relativo della grande e piccola industria (in Riforma 
Sociale, anno xn, voi. xv, pag. 909-915, 1905). 

L'industrializzazione della viticultura francese (in Riforma So- 
ciale, anno xiv, voi. xvu, pag. 538-545, 1907). 

Come funziona la nostra imposta sulla ricchezza mobile (Estr. 
dalla Riforma Sociale, fase. 7, anno xiv, voi. xvu, seconda serie, 
pag. 16. Torino, 1907). 

Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle Pro- 
vincie meridionali e nella Sicilia (Abruzzi e Molise, voi. 11, tomo 1. 
Relazione del delegato tecnico dott. Cesare Jarach, pag. xv-300. 
Roma, 1909, Tipografia Bertero). 

Institut International d'Agriculture. L'organisation des services 
de statistique agricole dans les divers pays. (Tome premier, pag. 446. 
Rome, 1909, Imprimerie de la Chambre des Députés). 

Il problema economico della disoccupazione. (Estratto dal fasci- 
colo di febbraio 1910 della Rivista d'Italia, pag. 323-331. Roma, 
1910, Tip. Unione Editrice). 

Gli effetti di una imposta generale ed uniforme sui profitti. (Nota 
presentata nella adunanza del 12 febbraio 191 1 alla Reale Accademia 
delle Scienze di Torino. Estratto dagli Atti, voi. xlvi, pag. 18. To- 
rino, 191 1, Tip. Bona). 

Appunti sulla teoria dello speculazione. (Supplemento alla Ri- 
forma Sociale, gennaio-febbraio 1912, pag. 36. Torino, 1912, So- 
cietà Tip.-Edit. Nazionale). 

L'emigrazione transoceanica durante il 1912 (in Giornale degli 
Economisti, anno xxiv, voi. xlvi, pag. 55-59, 1913). 

Relazioni varie presentate su progetti di colonizzazione nella Ba- 
silicata e nello Stato di Vittoria (Australia) in Rendiconti sommari 
delle adunanze del Consiglio dell'emigrazione. (Bollettino dell'Emi- 
grazione, n. 9. Roma, 1912). 

Le Società italiane per azioni attraverso i loro bilanci chiusi 
entro l'anno 191 1. (Estretto della Rivista delle Società Commerciali, 
in-4 , pag. 124. Roma, 1914). 

Compilazione delle lezioni tenute nella R. Università di To- 
rino dai professori Luigi Einaudi ed Alessandro Garelli : 

Scienza delle finanze e Diritto finanziario ; lezioni del prof. Luigi 
Einaudi (un volume a stampa di pag. 430. Casale, 1907, Tipografia 
Operaia). 

Finanze locali. Appunti sulle lezioni del prof. Alessandro Ga- 



308 — 



relli (un volume a stampa di pag. 433-551, con indice ai due volumi, 
P a g- 553"55 8 - Casale, 1908, Tipografia Operaia). 

Articoli pubblicati sulla Rassegna settimanale L'Azione di Mi- 
lano : 

Firmati Cesare Jarach : 

L'Imposta sul reddito (anno 1, n. 11, 19 luglio 1914). 

Firmati col pseudonimo I. Viridis : 
' Il programma del protezionismo nazionalista : Esportazione sen- 
za importazione. Contro il dazio sul grano? (anno 1, n. 12, 26 lu- 
glio 1914). 

Ancora sull'imposta globale. L'esperienza tedesca (anno 1, n. 13, 
2 agosto 1914). 

Provvedimenti commerciali e finanziari (anno 1, n. 21, 27 set- 
tembre 1914). 

La scadenza della moratoria. Cautele (anno 1, n. 29, 22 no- 
vembre 1914). 

Recensioni varie in Riforma Sociale, fra cui si ricordano quelle su : 

— W. Stanley Jevons, The principles of economics (anno xn, 
voi. xv, pag. 970-1, 1909). 

— Viscount Goschen, Essays and addresses on economie ques- 
tions (anno xm, voi. xiv, pag. 90-1, 1906). 

— Zorli, L'elemento giuridico e morale della convenienza econo- 
mica (id., pag. 815-16, 1906). 

— Effertz, Lcs antagonismes économiques (id., pag. 992-94, 1906). 

(Da « La Riforma Sociale », gennaio-febbraio 1917). 






AMMONIMENTI 

Adesso che è giunta l'ora della prova, bisogna che 
ciascuno interroghi la sua coscienza e cerchi una rispo- 
sta alla domanda : ho io fatto tutto il mio dovere? Uf- 
ficiale, ho cercato di inspirare fede, disciplina, corag- 
gio nei miei soldati? Cittadino privato, ho intensificato 
il mio lavoro affinchè la vita del paese non venisse tur- 
bata ed i soldati alla fronte e le popolazioni dell* in- 
terno potessero avere, per quanto stava in me, tutto il 
bisognevole? Amministratore della cosa pubblica, rap- 
presentante di italiani in consessi alti o modesti, ho da- 
to opera affinchè la compagine morale del paese ri- 
manesse salda? Ho recriminato, ho mormorato, ho fatto 
passare l'ambizione personale dinanzi all'interesse pub- 
blico? 

(4 novembre 1917). 

Non dobbiamo addolorarci e deprimerci troppo se 
in un punto della nostra fronte sono avvenuti fatti do- 
lorosi nell'esercito. Fatti simili sono successi in tutti gli 
eserciti. Ma dobbiamo chiedere a noi stessi : come ab- 
biamo contribuito noi ad elevare il morale dei nostri 
soldati? Li abbiamo incoraggiati quando parlavano con 
compiacenza delle gloriose gesta compiute, abbiamo 
fatto comprendere loro che noi eravamo profondamente 



— 310 — 

riconoscenti per la grandezza dei sacrifici che essi com- 
pievano per noi; ovvero ci siamo compiaciuti principal- 
mente nel fare eco ad espressioni di stanchezza, natu- 
rali in chi soffre, ma che noi non dovevamo acuire con 
la nostra importuna commiserazione? 

(5 novembre 1917). 

Perchè i soldati siano tenaci, pazienti e risoluti oc- 
corre che essi sentano di avere dietro di sé un popolo 
fiero, paziente ed esemplare. Quale spettacolo abbia- 
mo dato noi ai soldati, i quali tornavano in licenza? 
Ci siamo lamentati che i viveri erano cari, che la vita 
era dura? Abbiamo detto che così non si poteva du- 
rare innanzi e frattanto abbiamo riempito le sale dei 
teatri, dei cinematografi, dei ristoranti, abbiamo scia- 
lacquato danari che si potevano risparmiare in consumi 
non assolutamente necessari? Ovvero, ai figli nostri, agli 
amici che tornavano dai luoghi dove si difendeva la 
patria abbiamo mostrato che anche noi si era frugali, 
che anche noi si sopportavano volentieri e con animo 
sereno privazioni materiali allo scopo di contribuire, 
ciascuno nella misura dei propri mezzi, alla causa co- 
mune? 

(6 novembre 1917). 

Oggi si vede anche dai ciechi che la guerra si fa 
per difendere le nostre case, i nostri focolari, le nostre 
famiglie. E perciò tutto il popolo è balzato in piedi, ri- 
soluto a guardare negli occhi il nemico. Ma, anche 
prima, lo scopo della guerra era sempre stato di difesa. 
Avevamo noi adempiuto al dovere di spiegare a chi 



— 311 — 

non sapeva, a chi per le sue condizioni sociali non po- 
teva sapere che noi avevamo preso le armi per difen- 
dere l'Italia contro il pericolo di una dominazione uni- 
versale? Quale paese poteva sentirsi sicuro contro le 
mire di chi assaliva la Serbia, si impadroniva del Bel- 
gio, voleva schiacciare la Francia? Eravamo insorti per 
non diventare servi senza combattere. Oggi si deve con- 
tinuare a combattere per serbare la libertà e l'onore no- 
stro, delle nostre famiglie e del nostro paese. 

(8 novembre 1917). 

Il suono di certe parole che pareva fioco, di frasi 
che parevano retoriche per la lunga ripetizione diventa 
oggi nuovamente vibrante. Si ripercote nell'animo nostro 
e ci fa balzare il cuore nel petto. Libertà, indipenden- 
za, onore sembrano ricordi di scuola quando i confini 
sono sicuri. Ma quando il nemico calca col suo piede 
le nostre terre, quelle parole vogliono dire la possibilità 
di vivere senza vergogna, di pensare e parlare nella 
lingua dei nostri padri, di crearci un mondo ed una vita 
quale piace a noi e non quale piace ai dominatori no- 
stri. Vogliono dire la possibilità di lasciare ai nostri fi- 
gli intatta l'eredità ricevuta dai padri, non macchiato il 
retaggio tramandatoci a prezzo di tanti sacrifici. 

(10 novembre 1917). 

Nell'autunno del 1792 l'esercito sabaudo abbando- 
nava la Savoja dinnanzi all'invasione delle truppe rivo- 
luzionarie francesi. I soldati del reggimento di Moriana, 
in seguito ad un ordine equivoco, s'erano sbandati, ri- 



— 312 — 

tornando ognuno alle sue case, dopo essersi tuttavia dati 
appuntamento a Susa per il 1° gennaio del 1793. 

Pochi credevano che la parola sarebbe stata man- 
tenuta. La guerra si annunciava lunga e durò infatti an- 
cora quattro anni. I soldati vivevano in paese occupato 
dal nemico; e questi prometteva ricompense ai deboli 
e minacciava dure rappresaglie contro i fedeli alla ban- 
diera sabauda. 

« Tuttavia il colonnello del reggimento il 1° gennaio 
del 1 793 era a Susa, e faceva tracciare sulla neve i con- 
fini d'un posto di bivacco, disporre i fuòchi e costruire 
alcuni baraccamenti. Dopo ciò, il colonnello, malgrado 
il freddo atroce, si diede a passeggiare avanti ed indie- 
tro sulla piazza di Susa, come fosse un padrone di casa 
che attende gli invitati passeggiando nel salone. Non 
attese a lungo. Alle dieci del mattino un soldato giun- 
geva per il primo; era un certo Grillet e veniva da 
Lanslevillard, uno dei villaggi più vicini al Moncenisio. 
Il bravo ragazzo era partito da casa la vigilia ed aveva 
tutta la notte camminato per sentieri, buoni per rom- 
persi il collo. Dopo di lui, due caporali, che, per sfug- 
gire al nemico, avevano rivoltato le uniformi; e dopo 
ancora a gruppi di tre o quattro, continuarono a giun- 
gere soldati dalle strade più rimote. Come i ruscelli fi- 
niscono per formare il fiume, così era meraviglioso ve- 
dere ìe compagnie a poco a poco ricostituirsi. In cin- 
que giorni, il reggimento aveva ritrovato i due terzi dei 
suoi effettivi ». 

Così il marchese Costa de Beauregard, in un libro 
dove è tutta l'anima del fedele servitore detto Stato pie- 
montese d'un tempo, narra uno dei pia meravigliosi epi- 
sodi di quella storia sabauda, che è il tronco vivo della 



— 313 — 

storia italiana moderna. Il sentimento del dovere, cht 
spingeva i poveri montanari del 1793 ad abbandonare 
volontariamente, per obbedienza alla parola data, le fa- 
miglie e le case in balìa del nemico, non è spento nel 
soldato italiano d'oggi. , 

(12 novembre 1917). 



(( Ben ciechi sono coloro i quali pretendono di averci 
distrutti perchè essi hanno spezzato i nostri blasoni e 
disperso i nostri archivi. Finche però non ci avranno 
strappato il cuore essi non potranno impedirgli di lot- 
tare per tutto ciò che è virtuoso e grande, non potran- 
no impedirgli di preferire la verità alla menzogna e 
l'onore a tutto; finché non ci avranno strappato il cuore, 
essi non potranno impedirgli di essere riscaldato da un 
sangue che giammai tremò; finché non ci avranno strap- 
pato la lingua, non potranno impedirci di insegnare ai 
nostri figli che la nobiltà consiste soltanto nel senti- 
mento raffinato del dovere, nel coraggio posto nell'a- 
dempierìo e nella fedeltà alle tradizioni di famiglia ». 

Così scriveva nelV inverno del 1793 da un ricovero 
del Piccolo San Bernardo un nobile ufficiale savoiardo, 
mentre difendeva il Piemonte contro le soldatesche ne- 
miche, le quali gli avevano devastato il castello avito e 
costretto ali* esilio la moglie ed i figli. 

Gli italiani d*oggi sono una razza antica e fine, ed 
ctncKessi dicono fieramente al nemico : finché non ci 
avrete tolta la vita e strappata la lingua, noi preferire- 
mo Vonore a tutto; perchè noi sappiamo che la vera 
vita consiste nelV adempimento del dovere e nel conse- 



— 314 — 

gnarc intatto ai figli il retaggio di tradizioni nazionali, 
di libertà e di indipendenza tramandatoci dagli avi a 
prezzo di tanti sacrifici. 
(12 novembre 1917). 



Dicono i nemici agli italiani, sperando di trovare 
un'eco in cuori deboli : « Noi veniamo a salvarvi dalla 
tirannide inglese. Noi non combattiamo contro di voi, 
ma contro chi vuole asservirvi ad un impero di egoisti 
e di mercanti, il quale copertamente mira al dominio 
universale ». 

// discorso pronunciato da chi dovette essere caccia- 
to a viva forza dalla mala signoria del Lombardo-Ve- 
neto, da chi opprime polacchi e francesi, danesi e ro- 
meni, czechi e ruteni, da chi ha steso le unghie grifa- 
gne sul Belgio e sulla Serbia ha un suono falso. Ma sup- 
pone anche che gli italiani siano degli smemorati, i 
quali non ricordino che da pia di quattrocento anni l'In- 
ghilterra si è ritirata dal continente d'Europa e com- 
batte solo per impedire all'Europa di cadere sotto il 
dominio e la tirannia di uno Stato solo prepotente. Ha 
combattuto contro la Spagna di Filippo II, contro la 
Francia di Luigi XIV e di Napoleone, e combatte oggi 
contro i sogni di monarchia universale di Guglielmo II. 
E così combattendo salva sé stessa e la civiltà del mon- 
do. L'Inghilterra, con la sua flotta, ha serbato la Sarde- 
gna alla Casa di Savoja, la Sicilia ai Borboni, quando 
i Borboni rappresentavano un'idea nazionale, ha resa 
possibile la vittoriosa riscossa della Spagna contro Na- 
poleone. Occupò le Isole Ionie, per restituirle volonta- 
riamente alla Grecia. L'Inghilterra vuole avere le mani 



— 315 — 

nette in Europa, perchè essa non è un impero. Essa è 
una società di molte nazioni, libere ed indipendenti, 
unite da legami morali, sciolte da qualsiasi obbligo di 
tributi e di servizio militare verso la madrepatria. Ed 
una nazione siffatta, la quale pone ogni studio nel non 
imporre alcun obbligo alle consorelle le quali vivono 
sotto la protezione della sua bandiera, dovrebbe desi- 
derare di asservire noi, italiani e francesi, al suo gfogo? 

(12 novembre 1917). 

*** 

« Guardatevi dall'Inghilterra e dagli Stati Uniti » — 
dicono i tedeschi ed i loro amici — ; « guardatevi da 
alleati, i quali mirano ad arricchire colla guerra, a di- 
ventare padroni di tutta la flotta mercantile del mondo, 
creditori vostri, vostri fornitori e padroni ». E trovano 
ascolto in tutti coloro i quali disprezzano gli ideali e ri- 
tengono che le lire, i soldi ed i denari Steno le sole 
cose reali esistenti nel mondo, e che la guerra presente 
sia in fondo una cosa che non ci riguarda, poiché si 
tratta di una lotta fra Inghilterra e Germania per il do- 
minio economico del mondo. 

Se la guerra fosse stata voluta per arricchire uno dei 
contendenti sarebbe una cosa infame. Ma abbietto è 
invece il pensiero di chi ad un fatto così solenne dà una 
causa così bassa. Forse la Germania assalitrice sperava 
di fare un buon affare con la rapidità della vittoria e 
la enormità delle taglie sperate dal vinto. Ma gli assa- 
liti, ma coloro che mossero in loro aiuto, quale speran- 
za di arricchimento potevano mai avere? Sapeva l'In- 
ghilterra che avrebbe profuso tesori, che si sarebbe im- 
poverita, che avrebbe dovuto alienare le sue ricchezze 



— 316 — 

investite all'estero; sanno gli Stati Uniti che la guerra 
costerà loro centinaia di miliardi, di gran lunga più dei 
più grandi profitti sperabili con le forniture di guerra. 
Potevano contemplare indifferenti lo schiacciamento del 
Belgio e della Francia. Non vollero, a prezzo di gravi 
danni economici, perchè i popoli sani sanno che la ric- 
chezza è nulla quando Vonore è perduto. 

(12 novembre 1917). 

Italiani! Le generazioni che nei secoli ci precedet- 
tero, che a poco a poco fecero riemergere dalla inon- 
dazione barbarica del primo medio evo le antiche pro- 
fonde masse italiche, guardano a noi e ci scongiurano 
di non perdere in un istante di debolézza il frutto di 
tanti sforzi, di così lunghe aspirazioni, di martirii così 
atroci. Guardano a noi i lombardi che sconfissero l'im- 
peratore tedesco che aveva cosparso di sale il suolo 
della fiera Milano. Guardano a noi i piemontesi di Pie- 
tro Micca che resistettero ai tentativi di dominazione 
universale di Luigi XIV e di Napoleone. Guardano a 
noi i martiri delle galere borboniche, gli impiccati di 
Belfiore. Di sotto alla terra recentissima guardano a noi 
i giovani che sulle Alpi Trentine, sul Carso petroso, nei 
tanti luoghi santi oramai nelle nostre memorie, hanno 
dato il loro sangue per compiere il risorgimento nazio- 
nale. E tutte queste voci, vecchie di secoli e fresche di 
ieri dicono : Italiani, tenete fermo, che l'Italia vivrà 
solo se i suoi figli oggi avranno un cuore di bronzo! 

(17 novembre 1917). 



— 317 — 

Sempre, ma in special modo in tempo di guerra, lo 
Stato deve rendere giustizia a tutti; e procurare che le 
derrate necessarie alla vita siano distribuite imparzial- 
mente ed a chi ne ha più bisogno. 

Ma abbiamo noi sempre riflettuto abbastanza che 
la giusta distribuzione non si fa da se; e che è inutile 
ed ingiusto accusare il governo, seminare il malconten- 
to, scrivere lettere scoraggianti ai figli, ai parenti, agli 
amici i quali combattono per noi in campo, se non si è 
fatto tutto il possibile per ridurre al minimo le nostre 
pretese e per prestare la più fervida collaborazione af- 
finchè i pochi bisogni possano essere soddisfatti? Lo 
Stato siamo noi; il governo è una nostra creatura; e la- 
mentarsi del governo senza far nulla per renderlo mi- 
gliore, è segno di animo fiacco. 

(18 novembre 1917). 



/ contadini i quali scrivevano ai figli sotto le ban- 
diere lamentandosi del governo che loro requisiva il 
grano, le bestie ed il fieno; i cittadini che si lagnavano 
con gli stessi soldati per la insufficienza dei 250 o dei 
500 grammi di pane al giorno, pensino al triste effetto 
che le loro lettere e i loro discorsi facevano sull'animo 
dei combattenti, disanimandoli e facendo loro credere 
quasi che nell'interno nessuno si curasse dei loro figli, 
delle loro mogli, dei loro genitori. Si doveva e si deve 
invece ringraziare i soldati perchè il loro braccio ha 
consentito al contadino di seminare e di mietere, al ma- 
rinaio e al ferroviere di trasportare i milioni di quin- 



— 318 — 

tali di frumento necessari per far vivere la popolazione. 
Dove il nemico giunge, il contadino deve lavorare per 
mantenere l'aggressore ed a lui la razione assegnata è 
di fame vera. 

Nei territori occupati dai nemico più non giungono 
derrate dall'estero. Quale spaventosa decimazione di 
donne, di fanciulli, di vecchi non è avvenuta in Serbia! 

(18 novembre 1917). 

Maestro di scuola elementare, insegnante nei ginna- 
si, nei licei, nelle scuole tecniche e commerciali, nelle 
università, ho fatto ogni sforzo per fare intendere alle 
nuove generazioni la missione dell'Italia? Ho fatto com- 
prendere ai ragazzi ed ai giovani quanto sforzo sia co- 
stato questa nostra augusto patria, quanto sangue sia 
stato sparso per essa, e quali doveri noi abbiamo verso 
il retaggio tramandatoci dai nostri genitori? Abbiamo 
noi detto ai figli dei ricchi, dei borghesi, degli agiati 
che essi non vivrebbero sicuri negli agi se i loro avi 
non avessero condotto una vita dura, e, senza fiatare, 
non avessero sacrificato la vita per il loro paese? 

(19 novembre 1917). 

/ profughi delle Provincie friulane e venete, che oggi 
vediamo dintorno a noi, in cerca di asilo nelle nostre 
città, desiderosi di lavoro nelle campagne ci dicono in 
modo parlante che cosa significhi l'invasione del terri- 
torio nazionale da parte dello straniero. Non più sol- 
tanto dal Belgio e dalla Serbia ci vengono le notizie dei 
giornali sulle sofferenze dei popoli soggetti al dominio 
straniero. Sono i nostri fratelli, sono italiani fieri e pa- 



— 319 — 

triotti i quali ci parlano di famiglie disciolte, di vecchi 
e malati rimasti per l'impossibilità di fuggire, di madri 
che cercano affannosamente i loro bambini. Volere, alta 
fronte ed all'interno, che si resista significa volere che 
queste sciagure abbiano fine e che ai nostri fratelli siano 
ridate case e famiglie. 

(22 novembre 1917). 

// nemico fa dire sui suoi giornali e tenta di dire a 
noi in libelli e fogli gittati nelle nostre trincee e diffusi 
di nascosto : « Voi italiani combattete per gli altri. Che 
deve importare a voi dell' indipendenza del Belgio, del- 
la questione dell' Alsazia-Lorena, delle colonie inglesi, 
del dominio del mare, della lotta fra Serbi e Bulgari? ». 

Ma gli italiani non combattono per gli altri. Unendo 
la loro causa a quella dei popoli alleati, essi hanno ve- 
duto il pericolo di una dominazione universale ed han- 
no voluto difendere la loro indipendenza e la loro na- 
zionalità. Come i loro avi l'hanno difesa contro Carlo 
Vili, contro Luigi XIV, contro Napoleone, così oggi la 
difendono contro chi si proclama erede di Roma e va- 
gheggia di averci servi umili e soddisfatti. Che cosa 
vale essere grandi, quando si è imbelli? Meglio liberi 
e poveri che ricchi e vassalli. 

(24 novembre 1917). 

Alcuni territori intorno al Piave furono inondati di 
acque per difendersi meglio contro la pressione nemica. 
Così gli italiani ripetono quanto gli inglesi ed i belgi 
hanno compiuto attorno alVYser, quanto i piemontesi 
nel 1859 fecero nelle risaie del Vercellese e del Nova- 



— 320 — 

rese, quanto gli olandesi su vasta scala seppero fare 
per difendersi contro le soldatesche del Duca d'Alba e 
di Filippo II : sommergere il proprio paese pur di non 
vederlo soggetto allo straniero. Segno di animo forte. 
Ma difendendo a passo a passo il territorio nazionale, 
che i nostri padri con lavoro di migliaia d'anni fecero 
emergere dalla grande palude che copriva tutta la valle 
padana, limitando al minimo la sommersione delle terre 
d'Italia, i nostri valorosi soldati sanno di impedire la 
distruzione di una delle più meravigliose opere della 
mano dell'uomo : la terra nostra, che dopo di essere 
stata creata dai nostri antenati ci è ora madre benigna. 

( 25 novembre 1917). 

« Per il lavoratore, l'impiegato, il commerciante, par 
cifico ed inoffensivo, è indifferente vivere sotto un go- 
verno che si dica « italiano » ovvero porti un altro no- 
me ». Contro questo ragionamento, che ci viene da 
fonte nemica e che pretende di essere pratico, bisogna 
ribattere : No, questa non è soltanto un'offesa atroce al 
sentimento patrio, alle idealità per cui gli uomini si di- 
stinguono dalle bestie; ma è anche una pessima pra- 
tica. Se i nostri avi avessero ragionato così, se non aves- 
sero combattuto contro i tiranni interni e stranieri, se 
non avessero sostenuto sforzi indicibili per costituire l'I- 
talia unita, il nostro paese sarebbe ancora diviso in 
tanti staterelli piccoli, invidi e poveri, sarebbe ancora 
immiserito dalle dominazioni straniere; e la nostra vita 
sarebbe assai più miserabile di quella che oggi condu- 
ciamo. La miseria è il retaggio di coloro che hanno l'a- 
nima del servo, ha prosperità tocca solo a quei popoli 



— 321 — 

che se ne sono dimostrati degni, offrendo il sacrificio 
della vita e degli averi per una causa ideale. 

(27 novembre 1917). 

(( L' erede del più grande impero del mondo » è ac- 
corso alla fronte italiana, insieme con i valorosi soldati 
inglesi, i quali, fronteggiando il medesimo nemico, dan- 
no pegno della solidarietà che insieme stringe tutte le 
nazioni dell'Intesa. 

Ma chi è venuto fra noi è qualche cosa di più del- 
l'erede di un grande « impero ». Se fosse soltanto que- 
sto, male potrebbe distinguersi dai principi imperiali, 
i quali da anni minacciano ai confini francesi ed italiani 
di sostituire il diritto brutale della forza alla legge della 
giustizia. Il principe di Galles è invece il figlio di chi 
rappresenta la più grande confederazione di nazioni li- 
bere che vi sia al mondo. Mentre i boemi, gli slavi me- 
ridionali, gli italiani, i romeni, i polacchi, i francesi 
soggetti al dominio austro-tedesco furono costretti dalla 
forza a brandire le armi in difesa di una causa odiata, 
i francesi del Canada, i boeri dell' Africa del Sud, gli 
indiani, i muori della Nuova Zelanda accorsero volonta- 
riamente sotto le bandiere britanniche. Nelle cosidette 
colonie inglesi, che sono in realtà nazioni indipendenti, 
non vi è coscrizione, né si pagano imposte per ordine 
della madrepatria. I soldati vennero volontari a difen- 
dere l'Inghilterra minacciata; l'India votò spontanea- 
mente contributi di uomini e di sangue. Questi sono i 
nostri alleati : uomini liberi, i quali insieme con noi vo- 
gliono impedire V asservimento del mondo ad un impero 
militare. 

(30 novembre 1917). 



I DISFATTISTI DELLA VITTORIA 

Non ci sono più disfattisti in Italia. Od almeno sem- 
brano scomparsi. Dopo che già si era delineato il ri- 
volgimento delle sorti della guerra, dopo la battaglia 
della Piave e la seconda vittoria della Marna, ma prima 
del 24 ottobre, i loro discorsi avevano preso l'aria di 
gemiti sull'immensità dell'opera di ricostituzione eco- 
nomica, sulla difficoltà di sopperire al servizio dei de- 
biti di guerra, sulla situazione favorevole della Spagna 
nel provvedere all' attuazione di grandiosi programmi 
sociali col mezzo dei lucri della neutralità. Dopo la di- 
struzione militare dell'Austria compiuta dal nostro eser- 
cito, le querimonie sono cessate. Hanno visto che la 
fiducia della nuova Italia in sé stessa basterà a realiz- 
zare qualunque programma serio di elevazione intellet- 
tuale ed economico. Un popolo che ha durato tanta 
fatica in quattro anni di guerra, che si è risollevato dopo 
Caporetto, non può venir meno ai nuovi compiti civili 
che lo attendono. Perciò i disfattisti intervengono alle 
manifestazioni nazionali e si sbracciano a plaudire. 

Bisogna stare in guardia contro i loro plausi. È la 
nuovissima tattica che essi adottano per rendere vani 
i sacrifici compiuti, per distruggere la vittoria conqui- 
stata a prezzo di tanto' sangue. Essi gridano alle enormi 
cose che l'Italia nuova potrà fare nel dopo-guerra per- 
chè sanno che le cose enormi — non le cose ideali che 



324 



paiono assurde a chi fa i conti della lira, soldo e de- 
naro — sono impossibili e che alle promesse sconfinate 
seguirà la disillusione ed il malcontento. Non sperano 
più di venir su per il malcontento dei contribuenti chia- 
mati a pagare gli interessi dei debiti di guerra; e cer- 
cano di aprirsi una nuova via al potere ed alla vendetta 
sfruttando il malcontento di coloro che non avranno 
saggiato l'intravveduto frutto del paradiso terrestre. 
Promettendo la felicità a tutti gli uomini, la terra ai con- 
tadini, gli alti salari agli operai, i prezzi bassi ai consu- 
matori; e tutto ciò in breve tempo; ed accusando i « con- 
servatori )), i « capitalisti » di resistere all'attuazione dei 
grandiosi piani che la loro immaginazione si compiace 
di dipingere ai lettori dei loro fogli, essi seminano il 
germe dell'odio invece che della cooperazione, essi pre- 
parano l'esplosione del malcontento per il giorno in cui 
si vedrà che nemmeno 1* Italia unita può compiere in 
breve ora i miracoli che sono soltanto il frutto della per- 
severanza, della perizia, della buona volontà di tutti, 
della attuazione graduale di piani bene studiati e tra- 
dotti in atto da tecnici esperti. 

Ci sono alcuni strumenti infallibili per scoprire il 
disfattista, per lo più consapevole, almeno dello scopo 
suo finale, nell'atto di esporre i suoi piani di palingenesi 
sociale. Egli dice così : « si è stampata una dozzina di 
miliardi di biglietti a corzo forzoso per fare la guerra; 
perche non si stamperebbero uno o due altri miliardi 
per compiere lavori pubblici a favore degli operai di- 
soccupati dopo la licenza dall' esercito e dagli stabili- 
menti ausiliari e per dare buoi e strumenti di lavoro, 
insieme colla terra dei latifondi e delle opere pie, ai 
contadini? ». Chi parla così, semina malcontento e ri- 



— 325 — 

votazione. Perchè invece di invocare i soli mezzi onesti 
per compiere il suo programma, che sono le imposte 
ed i prestiti, le prime assai meglio, oggi, dei secondi, 
invoca un mezzo disonesto: la stampa di biglietti. 
Questa fu una delle caratteristiche finanziarie non belle 
della guerra presente. Tutti i governi vi indulsero, salvo 
in parte gli Stati Uniti, più o meno in proporzioni supe- 
riori a quanto fosse consigliato dalla necessità. Tutti i 
governi furono deboli nella condotta finanziaria della 
guerra, valutando troppo timidamente la capacità di 
sacrificio dei loro popoli. Temettero di parlar franco; e 
non chiesero imposte a sufficienza, neppure l'Inghil- 
terra : la quale tuttavia, tra i paesi europei, seppe far 
meglio degli altri. Credettero opportuno di non irritare 
i popoli già chiamati a duro sacrificio di sangue, crean- 
do l'illusione di una ricchezza monetaria crescente, 
sgorgante senza posa dai torchi delle officine carte- 
valori. Ed acuirono il caro- vi veri, ingigantendo, senza 
necessità, un problema che la guerra sottomarina e le 
deficienze del tonnellaggio navale e dei carri ferroviari 
e la mancanza di mano d'opera agricola rendevano già 
abbastanza grave. Molta parte del malcontento popo- 
lare a cagione del caro- vi veri, dell' irritazione dei red- 
ditieri fissi contro i beneficati dalla fortuna i quali pos- 
sono accaparrare per sé la miglior parte delle derrate 
disponibili è dovuta alla timidezza dei governi nel non 
aver osato ordinare imposte a sufficienza. Coloro che 
oggi invocano la stampa di qualche miliardo di più di 
carta-moneta, in sostanza vogliono che i prezzi conti- 
nuino a salire. Non paghi di vederli già così alti, vo- 
gliono che essi diventino ancor più alti; cosicché la 
gente minuta dica : a che cosa ha servito la pace, se 



— 326 — 

non è nemmeno stata buona a far ribassare i prezzi? 
E questo è puro disfattismo. Perciò quando si ode ta- 
luno chiedere a gran voce l'attuazione di un programma 
grandioso bisogna replicare: con quali mezzi? 

£ con quali uomini? fa d'uopo soggiungere. Di pro- 
grammi grandiosi non fu mai difetto in Italia. Ne eb- 
bimo a sacchi ed a sporte. Ogni candidato al Parla- 
mento, ogni pubblicista ha avuto in tasca, dall'avvento 
della Sinistra al potere in poi, il piano beli* e pronto 
per rigenerare l'Italia. Giornali, riviste, libri ne sono 
pieni. Se poco si è operato in confronto del molto pro- 
gettato, la colpa è in gran parte la mancanza di uomini 
atti a concepire piani sensati ed a tradurli in realtà. 
Questo è il vero limite infrangibile alla rinnovazione ci- 
vile ed economica della nuova nuova Italia. Per rinno- 
varsi e progredire bisogna prima sapere. È vero che 
le cose si imparano facendole. In parte fu così per la 
guerra. Si imparò a farla bene, a durarla ed a vincerla, 
facendola, ricevendo dei colpi, ritirandosi ed avanzando 
a vicenda. Anche nella vita civile certe cose si impa- 
rano facendole. Molte no. Non si può lasciar fabbri- 
care un ponte, costruire una ferrovia, risanare una pa- 
lude, imbrigliare le acque delle montagne a qualunque 
uomo di buona volontà, pensando : imparerà facendo. 
Probabilmente non imparerà nulla e intanto sprecherà 
milioni. Sarebbe assurdo/ ricominciare ogni volta da 
Adamo ed Eva, quando ci sono libri, ci son scuole, 
ci sono esperienze vecchie, ci sono principi noti, i 
quali ci possono trarre d'impaccio. Il che vuol dire che 
la via più corta per rialzare le condizioni economiche 
del nostro paese, quella che può dare, dopo un pe- 
riodo di aspettazione, i frutti più grandi, è ancora 



— 327 — 

quella della diffusione dell'istruzione. Istruzione di ogni 
sorta : scientifica pura, tecnica, professionale. Non è 
un'impresa direttamente ed immediatamente produttiva, 
l'impiegare centinaia di milioni in scuole; ma è forse 
quella più sicuramente redditizia in un non lungo vol- 
gere d'anni. Ed il reddito cresce in modo cumulativo. 
Una nuova generazione più colta non si contenta per 
i suoi figli del livello raggiunto; ma vuole attingere a 
vette più elevate. Né per scuole si intenda la sola aula 
scolastica. Non ci sarebbero oggi abbastanza inse- 
gnanti per attuare d'un colpo un vasto programma sco- 
lastico. Non si ripeta l'errore del ministero dell'istru- 
zione pubblica, il quale invitò le facoltà di belle lettere 
a fargli proposte per la istituzione di cattedre di lette- 
ratura inglese, in segno di simpatia ai nostri alleati 
anglo- sassoni. Dimenticava quel ministero che, per co- 
prire una cattedra, ci vuole un insegnante che sappia; 
e che se si trovano molti camerieri di albergo che sanno 
parlare inglese, non esistono oggi cultori di letteratura 
inglese in Italia, salvo pochissimi, quasi tutti già prov- 
veduti di cattedra; e che quindi bisogna, prima di co- 
prire le auspicate nuove cattedre, formare gli inse- 
gnanti. Impresa non facile e non rapida. Fortunata- 
mente non si impara solo nelle aule scolastiche. Ma- 
gnifica scuola di disciplina morale, che è il fondamento 
di ogni seria cultura, fu la trincea. Magnifiche scuole 
tecniche saranno le fabbriche. Io non troverei strano 
che, invece di pagare sussidi di disoccupazione agli 
operai licenziati dalle fabbriche di munizioni ed ai sol- 
dati che non trovassero immediatamente occupazione, 
il governo pagasse un sussidio di tirocinio nelle fabbri- 
che medesime, i cui dirigenti volessero tentare la tra- 



— 328 — 

sf orinazione in industrie di pace. Per qualche mese la 
mano d'opera sarebbe in parte a carico dell'erario, in 
guisa da rendere meno costoso e rischioso il periodo 
di trasformazione agli industriali. Il governo dovrebbe 
garantirsi che quei mesi siano effettivamente utilizzati 
per la rieducazione tecnica degli operai e dei soldati. 
In certi rami dell'ingegneria, per cui in Italia mancano 
scuole specializzate, converrebbe moltiplicare le borse 
di studio a favore dei giovani ufficiali, aventi certi re- 
quisiti di studio, i quali desiderassero passare qualche 
semestre all'estero. E frattanto apparecchiare le scuole 
in cui essi dovrebbero, al ritomo, essere utilizzati co- 
me insegnanti ed i piani dei lavori, a cui potrebbero 
essere addetti. Un gruppo di industriali .si è già impe- 
gnato a trovar lavoro nei propri stabilimenti a quegli 
ufficiali mutilati che avessero seguito certi corsi di istru- 
zione professionale. Vi è in Italia e fuori una vera fame 
di uomini capaci a fare le cose umili, modeste e mag- 
giori. Lo spettro della disoccupazione è una chimera, 
quando non la si provochi con una condotta dissennata 
e precipitosa. Non vi è un limite fisso al lavoro che vi 
è da fare in un dato paese in un dato momento. Prima 
viene il saper fare. Poi quel che si è saputo fare si 
vende sicuramente. In un dato momento un contadino 
pigro ed ignorante fa produrre poco il campo, perchè 
adopera un aratro di legno, disprezza i concimi chimici 
ed utilizza malamente il letame. Costui va scalzo. Egli 
ed il calzolaio del villaggio, che ha una clientela com- 
posta di contadini scalzi, conducono una vita misera- 
bile. Se quel contadino profitta delle lezioni del catte- 
dratico ambulante di agricoltura e dell'esempio del vi- 
cino più intelligente e lavora più e meglio il terreno, 



— 329 — 

con un aratro di ferro, voltorecchio, usando concimi 
chimici e utilizzando convenientemente il suo letame, 
forsechè il suo' lavoro più intenso ed intelligente non 
ha creato da se il suo sbocco? Egli sentirà il bisogno 
di scarpe ed il calzolaio gliele produrrà in cambio del 
suo frumento, delle sue ortaglie, del suo vino, delle sue 
uova. Contadino e calzolaio staranno meglio. La ca- 
pacità crea lavoro ed il lavoro crea il suo sbocco. I di- 
sfattisti sperano di creare malcontento, spargendo l'idea 
che lavoro, ricchezza, benessere possono essere un 
frutto diretto della vittoria, ostacolato solo dall'ingor- 
digia e dall'egoismo delle classi dominanti. Ma la gente 
vittoriosa d'Italia, che sa di essersi meritata la vittoria 
con le sue fatiche, colle sue rinuncie, col suo sangue, 
non bada ai falsi profeti e sa che nessuna meta le è 
irraggiungibile, purché essa la voglia e si disponga a 
fare lo sforzo necessario per giungere alla meta. Essa 
è pronta a fare lo sforzo. Spetta al governo di appre- 
stare le condizioni, di creare l'ambiente in cui lo sforzo 
potrà essere fatto. 

(Dalla Rivista di Milano, 20 dicembre 1918). 



CONTRO LA SVALUTAZIONE 
DELLA VITTORIA 

Si è andata purtroppo determinando nella opinione 
pubblica italiana una tendenza a svalutare i risultati rag- 
giunti colla guerra ed a trasformare una grande vit- 
toria in una sconfitta. Peggio : si diffonde, anche per 
opera di giornali interventisti, l'impressione che l'Italia 
esca male dalla guerra, rimpicciolita in un mondo di 
giganti, senza alleati, senza colonie, senza possibilità 
di sviluppo economico. Coloro che non riuscirono a 
far sconfiggere l'Italia in campo dal nemico, oggi fanno 
ogni sforzo per persuadere gli Italiani che la vittoria 
degli alleati fu una grande sventura per noi. Si vuole 
ad ogni costo creare l'atmosfera della sconfitta, affinchè 
da essa nascano il dissolvimento, la occasione di ven- 
dette personali e, per taluni, la palingenesi sociale. 

Sovratutto la sconfitta della Germania e la vittoria 
del mondo anglosassone sembrano disastrose per gli 
antichi neutralisti e per i socialisti. 

Come potrà — osserva taluno — essere ricostruito 
l'equilibrio europeo, il quale solo ci consentiva di fare 
una politica estera? Erano due imperialismi, quello te- 
desco e quello inglese, « per il conquisto dei mari e 
delle materie prime, gli è a dire per l'egemonia del 
mondo »; e noi commettemmo insanamente Terrore fu- 
nesto di aiutare l'uno a soprrimere l'altro, ed oggi noi 



— 332 — 

siamo inermi di fronte a quell'uno che davvero, per la 
prima volta nella storia dei mondo, domina il mondo. 
Altri, il quale pretende alle grandi visioni storiche, in- 
tona il finis Europae, la fine della civiltà dell'Europa 
moderna, quale era stata foggiata da Atene e da Roma, 
da Cristo e dai Germani. Ma neppure l"« alleanza atlan- 
tica », conquistatrice oggi della signoria sul mondo, è si- 
cura di se. Che le infinite moltitudini oppresse, dall'Ir- 
landa, dall' Egitto, 'dall'India, domani dalla Cina e dalle 
terre musulmane, tendono l'orecchio- alle voci di rinno- 
vaménto le quali vengono dalla Russia. Leviathano 
e Spartaco, barbarie dai denti d'oro e barbarie lacera, 
si appprestano, con i nervi tesi, all'ultimo conflitto, da 
cui nascerà il secondo medioevo dejl' Europa. Ne i 
nostri occhi hanno speranza di potere, uscendo dalla 
notte buia, contemplare l'alba di un nuovo rinasci- 
mento. 

*** 

Ben a ragione avremmo dovuto gemere sotto l'in- 
cubo di somiglianti visioni apocalittiche se vittoria piena 
avesse arriso ad una Germania favorita dal nostro in- 
tervento ai suoi fianchi o dalla nostra neutralità; poiché 
avrebbe vinto un tipo di governo, al quale noi repu- 
gniamo e che i più veggenti tra i tedeschi considera- 
vano, fin da prima della sconfitta, cagione della bassa 
educazione politica del loro popolo, della sua assoluta 
abdicazione in mano di una casta burocratica, della 
sua incapacità a creare in se stesso valori spirituali degni 
di reggere il mondo. Ahimè! perchè dimentichiamo così 
presto le lezioni della esperienza e, appena usciti dal 
pericolo tremendo di diventare i vassalli di un impero 



— 333 — 

fondato sulla esaltazione di una casta eletta, sul di- 
ritto divino di. essa a guidare e ad organizzare le plebi 
del suo paese e quelle componenti i popoli forestieri, 
ci spaventiamo dei risultati necessari e sommamente be- 
nefìci della vittoria? Di ciò han colpa, insieme ai fogli 
della borghesia neutralista, quelli della borghesia pa- 
triottica; i quali, perchè a noi viene negato un nostro 
diritto, non si attardano ad indagare le cagioni parti- 
colari del rifiuto, e proclamano l'ignominia della pace 
di Versaglia e gridano alla nuova tirannia dei mari e 
delle materie prime, la quale sarà esercitata dalla santa 
alleanza dei popoli anglo-sassoni. Fanno il gioco, co- 
desti fogli patriottici, della stampa neutralista e comu- 
nista, la quale ha interesse a persuadere i popoli che 
la guerra fu iniziata per turpi motivi di dominio eco- 
nomico e si chiude con la appropriazione di beni ma- 
teriali a prò del vincitore; e vuole convincere altresì gli 
italiani che per essi non vi ha salvezza fuorché nell'al- 
talena tra Francia e Germania, tra alleanze anglo- 
russe e tedesco-magiare, fuorché nella contrapposizione 
a mano armata fra Inghilterra marinara ed Europa mi- 
litare guidata dalla Germania. La parentela spirituale 
tra Bismarck. Marx e Lenin è più profonda assai che 
non si creda : credenti tutti tre nella pura forza bruta 
del braccio, nella conquista del potere politico colla 
forza delle armi, nell'irrisione ai motivi spirituali d'azio- 
ne, nell'ossequio al ventre. La guerra ci aveva fatti 
uscire, con la vittoria di parte inglese e nostra, da 
questa età buia, che ancor s'attarda sulla Russia, ed 
ora codesti laudatori dei tempi andati ci voglion far cre- 
dere che noi abbiamo combattuto per una illusione, ed 



— 334 ~ 

abbiamo invece ribadito su di noi le catene della ser- 
vitù dei mari e delle materie prime. 



No. La servitù delle materie prime è una chimera 
la quale rende affannoso il sonno degli uomini nell'alba 
della pace, quando i vincoli creati della guerra ancor 
tardano ad essere infranti. Se il comunismo vincesse 
nel mondo, ferro e carbone, frumento e cotone, lana 
e pelli diventerebbero davvero oggetto di negoziati di- 
plomatici; ed i Bismarck dell'avvenire potrebbero illu- 
dersi di costringere con quei mezzo le nazioni recalci- 
tranti alla resa. Ma, sino a quando il trionfo della domi- 
nazione comunistica non accada, fino a quando di 
giorno in giorno la bardatura di guerra negli Stati Uniti 
rumorosamente cade a terra e gli Hoover annunciano 
il lor ritomo a vita privata, la paura di rimanere privi 
di materie prime resterà un fatto transitorio ed una chi- 
mera storica, della quale fra qualche anno noi ride- 
remo. Per secoli, per millenni, popoli forniti solo delle 
loro braccia e della loro intelligenza, dimoranti in 
luoghi sterili, sprovveduti di miniere e di ampie pra- 
terie, ateniesi, cartaginesi, romani, veneziani, fioren- 
tini, olandesi, seppero arricchire con le materie prime 
altrui. Sempre, in passato fin dove rimontano i ricordi 
storici, le materie corsero volontieri verso i popoli che 
dalla loro intelligenza e dalla loro perizia eran fatti abili 
ad acquistarle a più alto prezzo dai vicini incapaci e 
pigri : e vorremmo che d'un tratto, solo per far comodo 
a chi gioisce di proclamare la sconfitta di noi vittoriosi, 
il processo logico e ferreo dell'economia si capovol- 



— 335 — 

gesse? Ben fanno i nostri negoziatori, finche dura an- 
cora il comunismo di guerra, ad assicurare al paese con 
trattati precisi la fornitura di alimenti, di carboni, di co- 
tone, di lana. Ma assai più efficacemente opereranno 
ad assicurare agli italiani la libertà di poter contrattare 
liberamente con gli inglesi, con gli americani e con le 
genti di qualsiasi contrada, la facoltà di comprare, 
senza divieti di governi, senza disparità di trattamento, 
ciò di cui avremo bisogno. Basta questa sicurezza, per 
guardare fidenti all'avvenire. Poiché la vittoria, che fu 
nostra sui campi di battaglia per virtù di uomini, sarà 
nostra nelle gare della pace per la perizia dei nostri 
artefici. Facciasi valente il popolo nelle arti della pace; 
e le materie prime spontaneamente verranno a noi, in- 
vece che ai lidi di Francia, d'Inghilterra o di Germania, 
e le nostre navi correrranno i mari, fatti sicuri dalla po- 
lizia esercitata dalle potenze marinare. 



Sempre fu necessario che la polizia dei mari fosse 
esercitata da una sola potenza o da un gruppo di po- 
tenze alleate. Il mediterraneo fu libero ai naviganti, 
quando Roma ebbe distrutto i nidi di pirati, ed il suo 
naviglio dominò indisturbato dall'Ellesponto alle colon- 
ne d'Ercole. Di nuovo, ofopo il primo tumulto delle in- 
vasioni barbariche, dal VI all'xi secolo, il mediterraneo 
fu sede di traffici perchè ridivenuto un lago bizantino. 
Quando Bisanzio, dopo lotte secolari e grandiose, ar- 
retrò dinnanzi all'invasione araba e turca, Venezia e 
Genova discordi furono impotenti a mantenere la sicu- 
rezza dei mari; ne meglio vi riuscirono Francia e 



— 336 — 

Spagna, perennemente in lotta tra loro. Sol dopo la 
vittoria di Trafalgar, ed il dominio del mare conqui- 
stato dall'Inghilterra, ridivennero veramente liberi i 
mari ai naviganti; e ad uno ad uno i nidi barbareschi di 
pirati e quelli di corsari del Mar delle Antille furono 
schiacciati per sempre. Negare che il dominio dei mari 
da una sola o da un gruppo di potenze sia necessario 
per creare la vera libertà dei mari è ipocrisia stolida 
e vana. Che cosa sarebbe accaduto di noi, quando an- 
cora eravamo neutrali, se davvero le flotte germaniche 
e franco-inglesi si fossero tenute in rispetto, e nessuna 
avesse osato solcare tranquillamente i mari a spazzarli 
dalla bandiera nemica? I mari sarebbero stati aperti solo 
a corsari ed a sottomarini; e le navi mercantili sareb- 
bero rimaste alla lor mercè senza difesa. Neppure una 
tonnellata di carbone avrebbe potuto salpare dai lidi 
d'Inghilterra per Genova e per Napoli; ed i noli altis- 
simi del tempo della guerra che fu, sarebbero parsi 
un'inezia in confronto a quelli che per aver frumento 
dall'America avremmo dovuto pagare nella guerra da 
corsari, che non fu per merito della flotta britannica la 
quale rinchiuse le navi, tedesche nei loro porti, e della 
flotta italo -franlcia che costrinse le navi austriache ali ri- 
poso di Pola. Pura ipocrisia è questo vociferare delle 
gazzette contro il dominio dei mari delle potenze mari- 
nare; poiché in tempo di pace è urgente che a qual- 
cuno sia affidata la polizia delle acque contro i mal- 
viventi, ed in tempo di guerra è infantile supporre che 
la potenza provveduta di naviglio più forte dell' avver- 
sario non si giovi della sua potenza per distruggere 
questo ed esercitare incontrastato il dominio dei mari. 
Dunque è cosa certa che gli odierni piagnoni sul con- 



— 337 — 

quisto dei mari operato dall' « alleanza atlantica » 
versan lagrime di coccodrillo ed avrebbero voluto il con- 
quisto dei mari a prò della Germania. In tempo di pace 
il dominio britannico' dei mari, come prima quello bi- 
zantino e romano, non ha mai impedito alle navi nostre 
di portar lungi la bandiera italiana, quando noi era- 
vamo capaci di darle alimento di traffici lucrosi. In 
tempo di guerra, la scelta non è fra dominio e libertà 
dei mari, ma fra questo o quel dominio. 



Sicché si torna al medesimo punto : la pace di Ver- 
saglia, la quale non toglierà a nessuno, che se le sappia 
meritare, le materie prime utili alla sua operosità e darà 
il dominio dei mari alla bandiera anglo-sassone, è mi- 
gliore o peggiore della pace di Berlino, la quale avrebbe 
dato i mari e le materie prime ad un'Europa organiz- 
zata dalla classe governante tedesca? Qui è il vero, il 
grande problema. La guerra non fu combattuta per la 
vittoria di una o di un'altra avidità di ricchezze e di 
dominio. Avremmo potuto dinanzi ad essa rimanere in- 
differenti. Fu combattuta invece tra due principi, tra 
due metodi di usare le ricchezze del mondo e di con- 
vertirle a beneficio economico e a vantaggio spirituale 
dei popoli. 

L*un metodo, che nacque modernamente in Inghil- 
terra ed a faticai si estese nella parte del mondo gover- 
nata dalla razza anglo-sassone — ne dappertutto ha po- 
tuto ancora affermarsi, — dice che le ricchezze della 
terra sono dei popoli che l'abitano, di quelli che vi 
possono giungere e dimostrino maggior capacità di 



— 338 — 

utilizzarle, e di quanti altri sul mondo ne facciano, pa- 
gandone il valsente, seria richiesta. Sono i popoli stessi, 
che, attraverso alla dura scuola della esperienza e dei 
liberi dibattiti, ubbidendo alla legge che essi medesimi 
si sono creata, esaltando ai sommi fastigi ed a volta 
a volta buttando nella polvere gli uomini che ne incar- 
nano le passioni e le aspirazioni, si rendono via via ca- 
paci a governar sé stessi, a lavorare, ad arricchirsi, a 
grandeggiar nel pensiero. 

L'altro metodo, che non è tedesco per indole sua 
connaturata, ma era diventato tedesco nella Germania 
militare-comunista forgiata da Bismarck e da Marx, pro- 
clama la incapacità dei popoli a governare liberamente 
se stessi, sbagliando ed inciampando, rizzandosi e cor- 
reggendosi; ed affida il compito ad alcuni eletti, unti 
del Signore, come l'imperatore, il cancelliere e la 
schiera dotta e perita dei funzionari, dei professori, dei 
capi dello stato maggiore, dei grandi proprietari della 
Pomerania e della Prussia orientale e degli imprendi- 
tori dell'industria pesante; ovvero dittatori in nome del 
proletariato, nella repubblica che Marx auspicava per 
la Germania e Lenin creò nella Russia. Terribile sa- 
rebbe invero stata la sorte dei popoli « inferiori », come 
era riguardato l'italiano, se codesto tipo di governo 
fosse rimasto vittorioso; perchè essi avrebbero avuto 
non i beni materiali ed i cibi spirituali, molti o pochi, 
che avessero saputo procurarsi coi loro meriti, ma quelli 
soltanto che la classe governante, i saggi dell'areopago 
mondiale avrebbero ritenuto giusto concedere loro. Non 
un libero acquisto sarebbe stato, ma una largizione a 
norma di meriti valutati da altri. 



— 339 — 

Perciò io dico che nor invano combatter l' no la guer- 
ra, e che il principio della ripartizione comunistica dei 
beni della terra, comunistica perchè deliberata in se- 
guito a consigli di sapienti, giustamente fu sconfitto. 
Non la Germania giacque vinta in questa guerra, ma i 
falsi principi in cui essa s'era irretita, per esaltazione 
satanica d'orgoglio, contro le grandi tradizioni del suo 
pensiero. Non l'Inghilterra vinse, ma il principio da essa 
bandito dell' auto-educazione degli uomini, di tutti gli 
uomini, a governare se stessi, a creare lo Stato entro di 
sé, entro il proprio spirito, e ad ubbidire alla propria 
creazione, invece che al verbo della sapienza esterna.. 

Or questa è vittoria non dell'Inghilterra, ma del 
mondo intiero e della vera Germania medesima. Ben 
può darsi che nella febbre della lotta, nei torbidi sogni 
di paventate rivincite, nella collera del sangue inno- 
cente sparso, talvolta si passi il segno, ed il vincitore 
per un istante faccia suo il pensiero del vinto. Ma son 
parvenze fuggitive. Il morto principio non ritorna. In- 
vano i corifei della dittatura proletaria piangono sulla 
vittoria conseguita. Questa rimane. I nostri figli, noi 
stessi ne assaporeremo i frutti divini. 

(Dalla Minerva del 16 luglio- 1 agosto 1919). 



VERSO LA CITTA' DIVINA 

L'articolo che Giuseppe Rensi (1) intitola alla « bel- 
va bionda » è lo sfogo appassionato, ansioso di chi si 
sente sperduto nel disordine, nell'anarchia, in mezzo 
all'odierno ammattimento convulsionario di tutto e di 
tutti. Si vuole un po' di ordine; si desidera l'unifor- 
mità, il comando, l'idea unica a cui tutti obbediscano, 
il Napoleone. La borghesia sembra incapace a ricreare 
la disciplina; i borghesi hanno il temperamento critico 
e corrosivo. Lasciamo dunque il passo al proletariato 
ignorante, crudele, ma risoluto e deciso a far trionfare 
il proprio ideale, ad ammazzare quanta gente basta, 
perchè tutti gli ideali scompaiano e soltanto il suo ri- 
manga e domini e dia agli uomini ciò di cui essi hanno 
sovratutto bisogno : una autorità, una disciplina, una 
religione, dia alla società un'unità viva e vera. 

Giuseppe Rensi ha scritto, in una pagina di prosa 
irruente e magnifica, un vero inno alla forza che uni- 
fica, che uccide il dubbio e segna la strada. Il suo inno 
risponde ad un bisogno dell* animo umano il quale ri- 
fugge dai contrasti, dalle lotte di uomini, di partiti, di 
idee, e desidera la tranquillità, la concordia, la unità 
degli spiriti, anche se ottenuta coi ferro e col sangue. 

Se ne fossi capace, vorrei scrivere un inno, irruente 
ed avvincente come il suo, alla discordia, alla lotta, alla 



(i) Vedi Rivista di Milano, n. 33, del 5 marzo 1920 



— 342 — 

disunione degli spiriti. Perchè dovrebbe essere un idea- 
le pensare ed agire nello stesso modo? Perchè dobbia- 
mo esaltare il proletariato ignorante e crudele, il quale 
non critica, ma vuole; vuole ciò che non sa e vuole 
tanto più fortemente quanto meno conosce la mèta ver- 
so cui tende? Qual mai ragione sostanziale vi è perchè 
lo Stato debba avere uni proprio ideale di vita, a cui 
debba napoleonicamente costringere gli uomini ad uni- 
formarsi? Perchè una sola religione e non molte, perchè 
una sola opinione politica o sociale o spirituale e non 
infinite opinioni? 

Il bello, il perfetto non è l'uniformità, non è l'unità, 
ma la varietà ed il contrasto. 

Coloro i quali si lamentano del disordine odierno 
degli spiriti ed anelano ad un ordine nuovo, non sanno 
interpretare se stessi, si lagnano di ciò che amano, sof- 
frono di ciò che li fa vivere. L'aspirazione all'unità, al- 
l'impero di uno solo è una vana chimera, è l'aspirazione 
di chi ha un'idea, di chi persegue un ideale di vita e 
vorrebbe che gli altri, che tutti avessero la stessa idea 
ed anelassero verso il medesimo ideale. Egli una sola 
cosa non vede : che la bellezza del suo ideale deriva dal 
contrasto in cui esso si trova con altri ideali, che a lui 
sembrano più brutti, dalla pertinacia con cui gli altri 
difendono il proprio ideale e dalla noncuranza con cui 
molti guardano tutti gli ideali. Se tutti lo accettassero, 
il suo ideale sarebbe morto. Un'idea, un modo di vita, 
che tutti accolgono, non vai più nulla. Noi economisti 
applichiamo questo concetto ai beni economici, dicendo 
che un bene, per acquistare il quale non fa d'uopo fare 
alcun sforzo, non è più un bene economico, vale zero. 
Così è anche dei beni morali. Se un Napoleone proleta- 



— 343 — 

rio riuscisse ad imporre il suo impero all'Europa, se 
distruggendo tutti gli avversari e tagliando la testa a 
tutti coloro che pensassero diversamente, imprimesse 
le idee del proletariato a tutti gli europei, in quel gior- 
no vi sarebbe forse l'unità, ma l'unità del nulla. L'idea 
nasce dal contrasto. Se nessuno vi dice che avete torto, 
voi non sapete più di possedere la verità. Il giorno 
della vittoria dell'unico ideale di vita, la lotta ricomin- 
cerebbe, perchè è assurdo che gli uomini si contentino 
del nulla. 

No. Gridiamolo alto. La vita disordinata, affannosa, 
antiunitaria, antidisciplinata che noi conduciamo pare 
insopportabile a noi che ne soffriamo i duri contraccolpi 
individuali, economici e morali. Parrà bellissima alle 
venture generazioni, le quali godranno i frutti delle ve- 
rità politiche, economiche e morali che i contrasti odier- 
ni avranno' fatto trionfare. 

O non è forse una concezione dello Stato che vuole 
trionfare contro un'altra? Trionfo non definitivo, pre- 
cario, ognora combattuto e contrastato da tendenze av- 
verse? Ma la volontà di trionfare esiste; ed il tragico 
del momento sta in questo che molti, che troppi uomini 
non vedono che una lotta grandiosa si combatte tra 
due opposti principii e in che cosa stia la lotta. 

C*era un tipo di Stato, il quale aveva un ideale re- 
ligioso, e voleva imporlo agli uomini tutti viventi in 
Europa. La riforma protestante spazzò via quel tipo 
di Stato; e la vita religiosa divenne un problema indi- 
viduale, intimo, sottratto al controllo altrui. Fu, pen- 
sano molti, un riamn amento della religiosità. 

Ci furono, dopo, Stati i quali vollero imporre agli 
uomini un ideale unico di vita politica. A volta a volta 



— 344 — 

Spagna, Francia, Germania credettero di avere la mis- 
sione di governare il mondo; di plasmare 1* umanità se- 
condo un proprio schema ideale politico, economico, 
spirituale : il mondo divenuto spagnuolo, francese, te- 
desco. Senza dubbio l'ideale era grandioso. Terribil- 
mente bello. Ho scritto tante volte prima, durante e 
dopo la guerra, che la vittoria dei tedeschi sarebbe 
stata una fortuna, economicamente e politicamente, per 
l'Europa e per l'Italia. E torno a scriverlo. Governo di 
dotti, poveri ed onesto; economia ben diretta; progressi 
tecnici meravigliosi; incrementi del sapere e del be- 
nessere straordinari, mai più visti ed a breve scadenza; 
una classe governante consapevole di se, dura coi ri- 
voltosi, ma benefica alla gente tranquilla : ecco quali 
sarebbero state le conseguenze di una vittoria dell'idea 
contenuta nello Stato tedesco. 

Non ho altrettanta fede, anzi non ho alcuna fede che 
risultati consimili si possano mai ottenere in seguito 
alla vittoria dell'ideale comunista russo. Dall'ignoranza 
e dalle barbarie, da una classe priva di dirigenti non 
può nascere l'ordine e la disciplina. Ma dalla Germa- 
nia vittoriosa questo poteva sperarsi, questo era certo 
si sarebbe ottenuto : che per un secolo l'Europa e forse 
rumanità avrebbero parlato, pensato ed operato in te- 
desco, secondo modi di pensare e di vivere tedeschi, 
secondo una disciplina ed una volontà unica. L'uma- 
nità per un secolo sarebbe stata contenta. Così come 
sarebbe accaduto se avesse vinto Napoleone. Epperciò 
quell'uomo di genio non riuscì mai a comprendere per- 
chè mai i popoli d'Europa repugnassero alla felicità 
che egli voleva ad essi procurare. 






— 345 — 

La rifiutarono anche stavolta. Milioni di uomini mo- 
rirono per allontanare dall'Europa l'amaro calice della 
felicità e dell'unità spirituale. Morirono per far trion- 
fare un altro ideale. L'ideale dello stato, il quale si 
astiene dall'imporre agli uomini una foggia di vita. 
Con le guerre di religione, gli uomini vollero che non 
ci fosse una unità religiosa imposta dallo Stato. Con 
le guerre di Luigi XIV, di Napoleone, e con quella ora 
terminata gli uomini combatterono contro l'idea dello 
Stato il quale impone una forma di vita politica, di 
vita economica, di vita intellettuale. Vinse, e non a 
caso, quella aggregazione di forze militari, presso cui 
lo Stato è concepito come l'ente il quale assicura agli 
uomini l'impero della legge, ossia di una norma este- 
riore, puramente formale, all'ombra della quale gli 
uomini possono sviluppare le loro qualità più diverse, 
possono lottare fra di loro, per il trionfo degli ideali 
più diversi. Lo stato limite; lo Stato il quale impone li- 
miti alla violenza fisica, al predominio di un uomo 
sugli altri, di una classe sulle altre, il quale cerca di 
dare agli uomini le opportunità più uniformemente di- 
stribuite per partire verso mete diversissime o lonta- 
nissime le une dalle altre. L'impero della legge come 
condizione per l'anarchia degli spiriti; la forza limitata 
alla vita estrinseca; l'unità ristretta alle forme ed alle 
condizioni di vita. Ma dentro, ma nella sostanza, nello 
spirito, nel modo di agire, lotta continua, pertinace, 
ognora risorgente. Questo è ciò che vollero gli uomini, 
i quali si trovarono da una parte della trincea. 

La creazione del nuovo tipo di Stato è, tuttavia, 
lenta e difficile e dolorosa. È più semplice comandare 
ed ubbidire; è meno doloroso — nonostante il taglio 



— 346 — 

delle teste discordi — creare un'unità spirituale colla 
forza del braccio. Ma gli uomini sono nati per creare 
soffrendo. L'unità, auspicata da Rensi, la disciplina nel 
lavoro, la società vera di uomini noi la raggiungeremo 
quando gli uomini, lottando e scagliando gli uni con- 
tro gli altri i propri ideali, avranno compiuta la propria 
educazione; quando si saranno persuasi, con l'amara 
esperienza propria, con il dolore degli insuccessi, quale 
via debba tenersi per ascendere. L'unità imposta dai 
comunisti sarebbe la morte spirituale- Noi vogliamo 
l'unità, ma conquistata vivendo e soffrendo, elevandoci 
al di sopra della materia, del godimento bruto. Quando 
avremo compiuto lo sforzo di veder chiaro dentro ai 
nostri dissensi, quando li avremo superati col pensiero, 
avremo raggiunto l'unità spirituale, avremo creata la 
città divina, quella in cui vivono gli spiriti liberi che 
sanno le passioni ed avendo sacrificato all'idolo falso, 
hanno trovato la via della verità. 

(Dalla Rivista di Milano del 20 aprile 1920). 



IV. 
REGOLE DI GALATEO 



TORNIAMO AL " SIGNOR „ ! 

Il giorno 4 febbraio era diramato da Versailles il 
seguente comunicato : 

(( Dal 30 gennaio al 2 febbraio il Consiglio supe- 
riore di guerra, sotto la presidenza del signor Clemen- 
ceau, ha tenuto sette sedute plenarie a Versailles. Era- 
no presenti : per la Francia : il sig. Clemenceau, il sig. 
Pichon, il gen. Foch, il gen. Pétain, il gen. Weygand; 
per la Gran Bretagna : il sig. Lloyd George, Lord Milner, 
il gen. Sir W . Robertson, il feldmaresciallo Sir D. Haig, 
il gen. Sir H. Wilson; per l'Italia : il sig. Orlando, il 
barone Sonnino, il gen. Alfieri, il gen. Cadorna; per gli 
Stati Uniti: il gen. Bliss, il gen. Pershing ». 

Se quel comunicato, invece che daWHavas e da 
Versailles, fosse stato diramato dalla Sefani e da Ro- 
ma, innanzi al nome di ogni ministro sarebbero state 
messe le sacramentali S. E. (Sua Eccellenza) ed a quello 
di ogni generale i titoli cavallereschi di cui essi sono 
forniti. Accadde non di rado leggere, nei rendiconti 
dei pranzi ufficiali offerti dal governo italiano ai mi- 
nistri alleati, che i ministri italiani cominciavano i loro 
brindisi con le parole che da noi, per la oramai lunga 
abitudine, suonano naturali : Eccellenza! , come se que- 
sto titolo competesse ai ministri in Francia & in Inghil- 
terra. E nei giornali italiani, quando si parla del signor 



— 350 — 

Clemenceau e del signor Lloyd George, per lo più si 
prefigge al nome la sillaba on., quando addirittura non 
si qualifica di lord qualsiasi ministro inglese, anche se 
si chiama Lloyd George o Asquith e come se non fosse 
per un premier liberale inglese un punto d'onore il 
non accettare di far parte della Camera dei Lordi. 

Ho voluto fare queste osservazioni, che solo in ap- 
parenza paiono formalistiche, perchè mi sembra che i 
maggiori contatti con Testerò provocati dalla guerra 
presente dovrebbero almeno, fra gli altri, produrre que- 
sto utile risultato : di ricordare agli Italiani come essi 
inavvertitamente nei sessantanni di vita nazionale siano 
scivolati in uno spagnolismo di linguaggio e di titola- 
ture, quale non si usa forse in nessun paese d'Europa 
e quale non si usava un tempo negli antichi Stati ita- 
liani; e di persuaderli come questo linguaggio altiso- 
nante, da basso impero, contrasti vivamente e non pos- 
sa non produrre un'impressione direi quasi di grotte- 
sco negli amici nostri appartenenti alle nazioni di ci- 
viltà occidentale. 

Soltanto in Italia — confronto, s'intende, le nostre 
abitudini con quelle francesi, inglesi e nord-americane 
— si usa nel discorso e nello scritto indirizzare la pa- 
rola, la lettera, la relazione stampata ai ministri con la 
formula : Eccellenza! In Francia si dice o si scrive sem- 
plicemente Monsieur le ministre, in Inghilterra sempre 
Sir nel parlare, e Sir o Mr. (Mister) a seconda della 
qualità della persona nello scrivere; negli Stati Uniti 
sempre Sir nel parlare e Mr. nello scrivere. Negli Stati 
Uniti il signor Wilson medesimo è semplicemente il 
signor Wilson o, nelle relazioni ufficiali, Mr. President, 
signor Presidente. 



— 351 — 

Tutt'al più coloro che vogliono dare un titolo, ne/7o 
scrivere, al loro Presidente lo chiamano Dr. Wilson, il 
dottor Wilson, dal suo titolo accademico. Dire Sua Ec- 
cellenza Wilson o Sua Eccellenza Lloyd George o Sua 
Eccellenza Clemenceau sarebbe una stravaganza. 

Soltanto in Italia si usa prefiggere al nome dei de- 
putati alla Camera il titolo di on. I deputati alle Ca- 
mere alleate sono dei signori senz' altra aggiunta. Sol- 
tanto alla Camera dei Comuni, i deputati o members, 
ai quali la consuetudine vieta di pronunciare il nome 
e cognome dei colleghi, adoperano parlando dei — e 
non ai — loro colleghi le qualifiche il mio onorevole 
amico o, se si tratta di deputati che sono anche membri 
del Consiglio privato della Corona, il mio molto onore- 
vole amico, facendolo seguirei o no dall'indicazione del 
collegio di cui il collega è rappresentante, a seconda 
che tale indicazione è necessaria o no a identificare la 
persona di cui ci si occupa. Gli italiani hanno imitata 
dall'Inghilterra la qualifica di onorevole; ma, mentre 
lassù, nella patria delle istituzioni rappresentative, quel- 
la è una cortesia di discorso, un modo distinto di espri- 
mere la propria stima personale verso il collega, forse 
verso l'avversario politico, in Italia quella qualifica si 
è trasformata in un titolo, che si usa nel discorso con 
cui si interpellano i deputati e che si attacca alla loro 
persona persino quando essi non fanno parte del Par- 
lamento . 

Soltanto in Italia si usa, nel parlare e nello scrivere 
e persino nel semplice saluto, indirizzare il discorso o 
le lettere agli insigniti di onorificenze cavalleresche con 
le parole cavaliere! commendatore! Se da noi non si è 
ancora giunti a salutare taluno col titolo di cavaliere 



— 352 — 

ufficiale, o di grand' uj fidale, o di cavaliere di gran cro- 
ce, ciò è accaduto soltanto perchè la pronuncia di que- 
sti titoli è un po' lunga e fastidiosa. Non manca però 
la buona volontà di fare qualche progresso su questa 
via. Tant'è vero che, nello scrivere, i puristi delle ti- 
tolature già usano notare sugli indirizzi un cav. per i 
cavalieri semplici, e invece un cavaliere per disteso per 
i cavalieri di gran croce. 

Alla brava gente che si compiace nel sentirsi salu- 
tare per via coi titoli di cavaliere e di commendatore 
può far dispiacere; ma sta di fatto che questa abitudine 
spagnolesca — e forse io calunnio la Spagna! — dei 
saluti in termini cavallereschi è una peculiarità tutta 
nostra. Non parlo degli Stati Uniti, a cui si potrebbero 
aggiungere la Svizzera e la Norvegia,, dove per somma 
fortuna non esistono ordini cavallereschi ed è vietato 
ai cittadini ricevere decorazioni da potenze straniere; 
ma neanche in Francia e in Inghilterra non si usa nulla 
di simile a ciò che è finito con diventare abitudinario 
da noi. Non che quei popoli non siano ghiottissimi di 
titoli cavallereschi; anzi, per la maggior difficoltà di 
conseguire croci e commende nell'ordine della Legion 
d'onore o in quello del Bagno, quei titoli sono ambitis- 
simi e invidiati, più che le corrispondenti decorazioni 
dell'ordine della Corona d'Italia. Ma coloro che ne so- 
no insigniti hanno avuto il buon gusto di non deprezzare 
l'onorificenza ricevuta facendosela ricordare ad ogni 
passo, per via, negli uffici, nei negozi, nel parlar fa- 
migliare, sugli indirizzi delle lettere e delle cartoline. 
Il cavaliere della francese Legion d'onore tiene assais- 
simo alla sua croce e ama fregiarsi l'occhiello della 
giacca con il relativo nastrino; ma nello scrivere e nel 



— 353 — 

parlare egli rimane sempre Monsieur X. Sarebbe di cat- 
tivo tono, anzi di pessimo gusto, chiamarlo Chevalier X. 
Tutta questa schiera risuscitante di cavalieri borghesi 
e a piedi basterebbe per affogare nel ridicolo l'istitu- 
zione della Legion d'onore presso i nostri amici di 
oltr'Alpe. Gli inglesi sono anche assai affezionati ai 
loro ordini; e nelle sopracarte delle lettere si ha somma 
cura, quando un Mr. Smith è stato insignito della qua- 
lità di Knight (cavaliere) in un ordine cavalleresco, di 
scrivere d'or innanzi il nome sotto la forma di Sir Her- 
bert Smith. Ma a nessuno viene in mente di salutare un 
Knight o un Knigth Commander inglese col titolo che 
gli spetta. Ad essi il discorso continua a essere indi- 
rizzato col sir, come si faceva prima quando egli era 
un semplice mister. Dico continua, perchè è ben risa- 
puto che, nel discorso, il sir o signore si dà a tutti, sem- 
plici mortali, decorati o baronetti, salvochè a coloro che 
hanno diritto, per ragion di nobiltà, al titolo di lord. 

Soltanto in Italia è caduto in dissuetudine V antico, 
bello, fine appellativo di signore. Tanto bello e tanto 
fine che gli inglesi nessun maggior onore credono di 
poter render a un italiano quando ne pronunciano il 
cognome fuor di premettervi 1" appellativo signore. Essi 
dicono e scrivono : signor Orlando, signor Salandra, si- 
gnor Giolitti, ed a ragione credono di rendere onore ai 
nominati. Così si faceva anche da noi quando si scri- 
veva : messer Niccolò Machiavelli. Invece, tanta è la 
degenerazione nostra a questo riguardo, tanta la mania 
dei titoli e del parlare metaforico, enfatico e grosso- 
lano, che quasi si considera come una persona da nulla 
colui al quale non si possa parlare come ad eccellenza, 
onorevole, commendatore, cavaliere. 



25 



— 354 — 

Il buon gusto è siffattamente scomparso che vi sono 
dei miei colleghi, a cui pure nessun titolo dovrebbe 
esser più gradito di quello di professore — gradito co- 
me quello che ricorda la missione, lo scopo della vita 
loro, così come, negli altri campi, il titoli di avvocato, 
di medico, di ingegnere, di mercante, di industriale, 
di artigiano, — i quali preferiscono di essere apostrofati 
in qualità di cavalieri e commendatori. Il brutto andaz- 
zo si è così diffuso che oggi i giornalisti usano la pa- 
rola signor soltanto per prefiggerla ai nomi di coloro 
con cui essi capitano a polemizzare; quasi che quel 
prefisso fosse un segno di disprezzo. 

Non credo die neppure i tedeschi, pur così ado*- 
ratori di ogni forma di autorità, così formalisti osser- 
vanti di ogni ragione di gerarchie sociali e cavallere- 
sche, siano giunti all'estremo abuso che dei titoli e 
degli atti di adulazione verbale si è venuto a commet- 
tere in Italia. I primi ufficiali dei ministeri piemontesi 
indirizzavano al conte di Cavour i loro rapporti con la 
formula : signor ministro! Sarebbe tempo che si tornas- 
se, dappertutto, nelle costumanze ufficiali e sociali, nel 
parlare e nello scrivere, all'antica semplicità, e abban- 
donassimo le recenti non lodevoli abitudini di linguag- 
gio arlecchinesco, che devono essere cagione di stupore 
non piccolo ai nostri alleati, usi a vivere in paesi dove 
la democrazia nuova non ha fatto dimenticare le anti- 
che forme del vivere aristocratico, che vuol dire fine e 
semplice. 

(Dalla (< Minerva » del 1° marzo 1918). 



FINITO DI STAMPARE 

IL GIORNO 15 MARZO 1921 

A CURA DI 

RICCARDO GARRONI 

TIPOGRAFO 
IN ROMA, PIAZZA MIGNANELLl, 23 



o 



113 Einaudi, Luigi 

177 Gli ideali di un 

E55 economista 



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